Nei giorni dell’attentato di Sarajevo, dell’ultimatum alla
Serbia e dello scoppio della prima guerra mondiale, il pontefice, esiliato fra
le mura Vaticane, è Pio X. Ormai anziano, intuisce la drammaticità della
situazione, ma i suoi interventi si limitano a una generica esortazione a
deporre le armi. Dopo la sua morte il conclave elegge a sorpresa una new entry
del collegio cardinalizio: il vescovo di Bologna Giangiacomo Della Chiesa,
portatore di una ricca esperienza diplomatica maturata sotto l’attenta guida
del Segretario di Stato card. Merry Del Val. Eletto vescovo di Roma
nell’autunno del 1914, dedicherà gran parte della sua proposta spirituale e
presenza pastorale all’analisi, alla condanna e alla ricerca di soluzioni
alternative a quelle in atto. Il suo magistero non è molto conosciuto, anche
all’interno della Chiesa, dove non risultano in atto cause di beatificazione o
di canonizzazione di un pastore cattolico che forse più di ogni altro si è
rivelato coraggioso testimone e autentico profeta.
L’8 settembre 1914, all’indomani della sua elezione, dichiara
la sua emozione di fronte alla tragedia in atto: questa guerra ci riempie di orrore e di amarezza, è orrenda calamità.
Il 1.11.1914, nel testo programmatico del suo pontificato, evidenzia il
rapporto tra produzione delle armi e loro inevitabile uso in guerra: “qual meraviglia se ben fornite come sono di
quegli orribili mezzi che il progresso militare ha inventato, si azzuffano in
gigantesche carneficine?”. Nota poi con amarezza l’eclissi di quella
fraternità che proprio l’annuncio cristiano avrebbe dovuto garantire: “Nessun limite alle rovine, nessuno alle
stragi: ogni giorno la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e di
feriti. E chi direbbe che tali genti, l’una contro l’altra armata, discendano
da uno stesso progenitore… chi li ravviserebbe fratelli, cioè figli di un unico
Padre che è nei cieli?” Da ciò un forte invito alla preghiera: “preghiamo per la fine dell’attuale
disastrosissima guerra”. In una lettera enciclica, scritta per “celebrare”
il primo anniversario dallo scoppio della guerra, ribadisce il suo impegno
prioritario, libero da ogni parzialità o presa di posizione, se non sempre e
comunque contro la guerra: ecco cosa dice il 28.7.1915: “Pensando con inesprimibile cordoglio ai giovani figli nostri i quali
venivano a migliaia falciati dalla
morte… concepimmo il fermo proposito di consacrare ogni nostra attività ed ogni
nostro potere a riconciliare i popoli combattenti” E poi: “Possa il grido di pace vincere il pauroso
fragore delle armi, giungere sino ai popoli in guerra e ai loro capi,
inclinandoli a più miti e sereni consigli” “Vi scongiuriamo di porre termine a
questa orrenda carneficina, che da un anno disonora l’Europa”. Con afflato
poetico, richiama le responsabilità dell’Europa: E’ sangue fraterno quello che si versa sulla terra e nei mari. Le più
belle regioni d’Europa, di questo giardino del mondo, sono seminate di cadaveri
e di rovine: dove poc’anzi fervevano l’industrie opere delle officine e il
fecondo lavoro dei campi, ora tuona spaventoso il cannone e nella sua furia
demolitrice non risparmia villaggi, né città, ma semina ovunque strage e
morte... Voi tutti portate innanzi a Dio la tremenda responsabilità della pace
e della guerra” Da notare è che il pontefice non si limita alla denuncia,
ma si avvia anche alla proposta alternativa, ammonendo che dall’umiliazione dei
popoli non può derivare altro che nuova violenza (quanto profetico…): “non si dica che l’immane conflitto non può
comporsi senza la violenza delle armi. Depongasi il mutuo proposito di
distruzione, riflettasi che le nazioni non muoiono: umiliate e oppresse,
portano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa e trasmettendo
di generazione in generazione un triste retaggio di odio e di vendetta… Solo
la valorizzazione dell’intelligenza umana può riportare la pace e solo
l’affermazione dei diritti dei popoli e della dignità delle persone può
consentire una pace duratura: “L’equilibrio
del mondo e la prospera e sicura tranquillità delle Nazioni riposano sulla
mutua benevolenza e sul rispetto degli altrui diritti e dell’altrui dignità,
assai più che su moltitudini di armati o su formidabili cinte di fortezze. E’
questo il grido di pace, tornino gli uomini affratellati dall’amore, alle
pacifiche gare degli studi, delle arti e delle industrie, si risolvano ad
affidare la soluzione delle proprie divergenze non più al filo della spada, ma
alle ragioni dell’equità e della giustizia, studiate con la dovuta calma e
ponderazione”… Ed ecco finalmente la famosa lettera agli Stati
belligeranti, datata 1 agosto 1917. Essa inizia con la constatazione di come
l’Europa si avvii ad un vero e proprio suicidio: “Il mondo civile dovrà ridursi a un campo di morte? E l’Europa, così
gloriosa e fiorente, correrà travolta da una follia universale verso l’abisso,
incontro a un vero e proprio suicidio?” La missiva continua con una
sorprendente proposta costruttiva: la forza del diritto contro quella delle
armi, la diminuzione quasi totale degli armamenti e la costituzione
dell’arbitrato internazionale: IL PUNTO
FONDAMENTALE DEVE ESSERE CHE SOTTENTRI ALLA FORZA MATERIALE DELLE ARMI LA FORZA
MORALE DEL DIRITTO. QUINDI UN GIUSTO ACCORDO DI TUTTI SULLA DIMINUZIONE
SIMULTANEA E RECIPROCA DI TUTTI GLI ARMAMENTI… NELLA MISURA NECESSARIA E
SUFFICIENTE AL MANTENIMENTO DELL’ORDINE PUBBLICO NEI SINGOLI STATI; E, IN
SOSTITUZIONE DELLE ARMI, L’ISTITUTO DELL’ARBITRATO INTERNAZIONALE CON LA SUA
ALTA FUNZIONE PACIFICATRICE…” E conclude: “Si giunga quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la
quale, ogni giorno di più, appare un’inutile strage”. Dopo la guerra, il 23
maggio 1920, nella Lettera ai Vescovi del mondo intitolata Pacem Dei munus
pulcherrimum, afferma: Ristabilite così
le cose secondo l’ordine voluto dalla giustizia e dalla carità, e riconciliate
tra di loro le genti, sarebbe veramente desiderabile che tutti gli Stati, rimossi
i vicendevoli sospetti, si riunissero in una sola società o, meglio, quasi in
una famiglia di popoli, sia per assicurare a ciascun la propria indipendenza,
sia per tutelare l’ordine del civile consorzio. E a formare questa società fra
le genti è di stimolo, oltre a molte altre considerazioni, il bisogno stesso
generalmente riconosciuto di ridurre, se non addirittura di abolire, le enormi
spese militari che non possono più oltre essere sostenute dagli stati, affinché
in tal modo si impediscano per l’avvenire guerre così micidiali e tremende e
sia assicuri a ciascun popolo, nei suoi giusti limiti, l’integrità e
l’indipendenza del proprio territorio. In sintesi, due sono le proposte
principali che Benedetto XV indica come risolutive. La prima è il disarmo generale
e l’ammissione della legittima detenzione delle armi solo per ciò che concerne
il mantenimento dell’ordine pubblico nell’ambito dei singoli Stati. La seconda
è l’istituzione di un arbitrato internazionale, al quale ciascuno degli Stati
conferisce un reale potere di intervento, per dirimere le controversie
internazionali e le situazioni di ingiustizia strutturali. Nella visione del
papa, il mondo dovrebbe trasformarsi in un’unica società – da lui chiamata
“famiglia” – dove ciascuna nazione dovrebbe essere armonicamente collegata alle
altre e nello stesso tempo veder garantita la propria autonomia e indipendenza.
La posizione di Benedetto XV riceve (ovviamente) ben più critiche che plausi nell’ambito dei centri di potere dell’epoca. Dopo la lettera ai capi di stato del 1917, i responsabili delle Nazioni alleate dell’Italia vorrebbero rispondere con una formale protesta, accusando il pontefice di disfattismo e di indebolimento della volontà dei soldati al fronte. Sarà il ministro italiano Sonnino a evitare tale intervento, preferendo un più efficace silenzio: non è certo per ossequio nei confronti del papa, ma per la consapevolezza della scarsa incidenza dei suoi forti messaggi sugli episcopati locali, sul clero impegnato nell’assistenza spirituale al fronte e sui credenti chiamati a uscire dalle trincee uccidendo e facendosi uccidere da persone “con lo stesso identico umore, ma con la divisa di un altro colore” (per citare De André). In ogni caso, all’indomani del 4 novembre 1918, papa Della Chiesa è accusato di non gioire abbastanza della “vittoria” italiana, al punto da costringerlo a una nota ufficiale di spiegazioni, indirizzata al suo Segretario di Stato ed intitolata Dopo gli ultimi…
Assolutamente condivisibile: purtroppo, senza una ridefinizione dei principi informativi fondamentali dell'ordinamento e delle forme giuridiche della coesistenza di più popoli e nazioni e senza un'esplicita e reale politica di disarmo incondizionato, tali tragedie sono destinate a ripetersi, come abbiamo avuto modo di vedere in questi decenni in varie parti del mondo e negli ultimi giorni. Il tema della determinazione dei confini degli Stati e della sovranità territoriale, per esempio, è di per sé delicato, perché sottende ad un'idea di Stato e Nazione definiti da tali limiti territoriali e a un concetto di "appartenenza" che si presta a pericolosi revanscismi. Mi rendo conto che parlare di reale abbattimento di ogni frontiera e confine a favore di un'entità sovranazionale unica, pur nel rispetto delle peculiarità di ogni singola nazione, possa sembrare un'utopia, ma credo sia la sola possibile soluzione per il futuro dell'Europa e del mondo intero. Il tema è complesso e richiederà senza dubbio molto tempo e tanta buona volontà da parte di tutti, una vera rivoluzione culturale e ideale i cui frutti noi non vedremo, ma speriamo si avveri per chi verrà dopo di noi. A. V.
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