lunedì 18 settembre 2017

L'ordine delle cose

L'ordine delle cose, di Andrea Segre, è un film complesso nel quale si incrociano diversi approcci. L'elemento dominante è la crisi del protagonista che si trova a fare i conti con una situazione drammatica provocata di fatto dai suoi stessi successi professionali. L'elemento psicologico è trattato molto bene, con la sottolineatura dei particolari stati d'animo che si succedono man mano che la vicenda si svolge.
Le domande interiori, riportabili ma solo in parte al rapporto tra ragione di Stato  e coscienza individuale, si dipanano all'interno di una specifica situazione geopolitica - la Libia del dopo Gheddafi e l'Italia del pd renziano - e sociale - l'intensificazione dei movimenti migratori attraverso il Mediterraneo. La descrizione degli eventi risulta quasi profetica, dal momento che la fiction è stata superata dalla realtà proprio nei giorni dell'"uscita" del film nelle sale. Sembra infatti descritto l'antefatto dell'accordo Minniti, sottoscritto con il governo libico, in cambio del pattugliamento delle coste africane cospicui aiuti finanziari.
La forte accentuazione del logorio interiore del protagonista rende meno significativa la descrizione del contesto. I centri di detenzione per gli immigrati e i rozzi comandanti sono rappresentati in modo convenzionale e a tratti quasi caricaturale, la stessa descrizione fotografica della città di Tripoli è talmente standardizzata da renderla priva di qualsiasi riferimento riconoscibile. La denuncia del mancato riconoscimento dei diritti della persona risulta molto sfumata, a fronte delle terribili notizie reali che provengono dai veri e propri campi di concentramento allestiti sulle coste libiche.
In questo modo il contesto rischia di essere ridotto a mera occasione nella quale si svolge il percorso psicologico del funzionario del Ministero, potrebbe essere sostituito da qualunque altro tra i fin troppi contesti di sofferenza umana planetaria.
Da segnalare l'interpretazione del sempre più bravo Giuseppe Battiston, anche se in un ruolo non da protagonista. Non eccezionali gli altri attori.

mercoledì 6 settembre 2017

Per un dialogo "umano"

E' un po' angosciante rilevare che su ogni argomento oggi ci si possa schierare da una parte o dall'altra con enorme passione e (quasi sempre) scarsa competenza o informazione. E' venuta meno quella sana capacità di dubitare che un tempo veniva descritta come potenzialità di pensare con la propria testa.
Si tratti di migrazioni o di vaccini, di Trump o di politica italiana, di sport o di letteratura, sembra impossibile non doversi dichiarare o totalmente da una parte o totalmente dall'altra. Si creano così le condizioni per una vera e propria guerra civile, per ora per fortuna confinata ancora a livello di violenza verbale.
Il linguaggio di chi si pronuncia contro l'accoglienza è ormai letteralmente disumano (l'altro è il nemico che si comporta in modo bestiale, che deve essere "neutralizzato" e non ha alcun diritto di cittadinanza fra gli esseri "civili") e costringe chi ritiene che ogni essere umano abbia uguali diritti e doveri in questo mondo a combattere la xenofobia con l'esterofilia, il razzismo con il mito della bontà innata di ogni essere umano, tanto più se non corrotto dalle spire del serpente capitalista.
Chi sostiene la necessità dei vaccini è costretto a favorire una legge imposta per decreto al Parlamento e in molte parti priva di buon senso, chi invece sottolinea la pericolosità dei vaccini prende posizioni prossime all'aggressione fisica per contestare le norme ritenute penalizzanti la salute dei bambini. Gli uni e gli altri spesso procedono da casi specifici, senza cercare un fondamento autenticamente scientifico alle proprie posizioni, escludendo a priori che dall'una e dall'altra parte ci possano essere delle buone ragioni in grado di consentire un onorevole soluzione il più possibile vicina alle esigenze della salute e della democrazia.
Quello che si è perso - forse è un effetto del bipolarismo degli anni passati - è il ragionamento politico e democratico, quello cioè teso a cercare dei percorsi condivisi tra diversi orientamenti di pensiero. La logica del "vinca chi è più forte" rischia di costringere il dibattito negli angusti spazi dei media, anch'essi rigorosamente schierati dall'una o dall'altra parte.
La scuola, il mondo della cultura e quello delle amministrazioni virtuose potrebbero essere palestre di inversione di questa tendenza. Le idee possono essere diverse, ma non necessariamente antitetiche e contrapposte, l'ambito del riconoscimento della comune umanità potrebbe essere davvero quello nel quale ricondurre il conflitto fuori dalle pastoie della violenza e dentro i meandri dell'intelligenza.

sabato 2 settembre 2017

E' vera Riforma?

Francesco, Vescovo di Roma, quando aveva 42 anni "ha incontrato" (sic!) una psicoanalista per sei mesi. Questa notizia è balzata subito nella prima pagina dell'effimero circo mediatico. Ma cosa c'è di strano? La psicoanalisi non è certo più un tabù, se ne parla con ordinario rispetto nelle Università Pontificie, ci sono tanti psicoanalisti cattolici e anche tanti preti che svolgono tale professione. E' poi noto che molte religiose e molti religiosi ricorrono allo psicoanalista: come tanti altri esseri umani, vivono situazioni difficili e spesso sono chiamati a condividere momenti drammatici delle altrui esistenze, è normale che ci sia bisogno di un consiglio e di un accompagnamento.
La domanda quindi è un'altra, perché Francesco abbia sentito l'esigenza di raccontare un particolare della sua vita, ben sapendo che tale suo racconto avrebbe offuscato il resto di una peraltro molto interessante intervista. Si trattava forse di sdoganare definitivamente e autorevolmente la psicoanalisi nella Chiesa? Perché non dirlo esplicitamente traendo le conclusioni dalla propria esperienza personale, senza temere di chiamare "cura" (invece che "consulto per chiarire alcune cose") gli incontri settimanali e senza raccontare gli sviluppi privati del suo rapporto con la psicoanalista ebrea che lo avrebbe chiamato poco prima di morire?
Questo particolare rivela la forza e la debolezza di papa Bergoglio. La forza sta nell'aprire nuove strade e nell'abbattere antiche mura (a volte peraltro già demolite da altri con meno scalpore). La debolezza sta nel non incamminarsi con convinzione e decisione lungo le vie intravviste. In questo modo le buone intenzioni si scontrano con le fragilità dei fondamenti teologici e con la ritrosia al cambiamento delle norme del diritto canonico. In questo modo Francesco indica in se stesso l'esempio di una Chiesa cattolica davvero "universale", ecumenica, aperta al dialogo con tutti, libera, accogliente, simpatetica ed empatica. Tuttavia tale forza innovativa non diventa vera "riforma" perché nel momento della decisione vincolante viene ritirata la mano che ha lanciato il sasso.
E così non c'è il rischio di una frattura perché questa c'è già ed è evidente, ma della mancanza di un punto di riferimento da accogliere da parte di chi ritiene giunto il momento di una conversione radicale alla Scrittura delle origini o da rifiutare da parte di chi ritiene una sciagura l'abbandono della traccia di una Tradizione ritenuta ben più infallibile della stessa parola del Fondatore.

venerdì 1 settembre 2017

Ancora una volta, sullo Jof di Montasio...

Jof di Montasio, 2753 metri. La seconda cima delle Alpi Giulie - dopo il Triglav - presenta tre ampie pareti, una più bella dell'altra, mentre verso est la sua cresta si protende verso il vicino gruppo dello Jof Fuart. La parete ovest è talmente impressionante da essere stata paragonata da Julius Kugy al Cervino, quella Nord è un enorme muraglione, limitato dalla Cresta del Drago, che chiude la dolce Val Saisera, il versante Sud è più dolce, la cuspide rocciosa emerge per circa 500 metri sopra gli ampi prati sovrastanti l'altipiano del Montasio. L'accesso alla vetta è riservato ad alpinisti ed escursionisti dotati di esperienza e allenamento. Tralasciando gli itinerari di pura roccia, da Nord è possibile salire attraverso la Via Amalia o dei Cacciatori Italiani, aiutati da qualche attrezzatura in un ambiente solenne, solitario e grandioso, da Ovest la via di Dogna è una delle più affascinanti ascensioni dell'arco alpino, ma richiede competenze alpinistiche possedute da pochi. Ordinariamente si sale da Sud e dopo la facile salita su sentiero dalle malghe e dal Rifugio Brazzà, le vie di accesso sono sostanzialmente due. La splendida Cengia che conduce fino all'aereo Bivacco Suringar (oltre 2400 metri), ardito sentiero naturale sospeso su una abisso di oltre mille metri, seguita dalla salita diretta fino alla cresta lungo la Via Findenegg o dei primi salitori: diversi salti di roccia (fino al II grado) da superare con  creatività e coraggio, infine una breve passeggiata sospesi tra cielo e terra fino alla vetta. Oppure la scala Pipan, un divertente susseguirsi di pioli di acciaio collegati da corde di ferro che permette di superare un difficile salto di circa cento metri di roccia, per raggiungere la cresta, questa volta molto più lunga ed arrivare alla croce sulla cima. sono itinerari da evitare in caso di pioggia e soprattutto di temporali. Accompagnano la salita decine di stambecchi e di camosci, guardano con sospetto gli umani intrusi, ma se non li si disturba tutto sommato non oltrepassano il livello della curiosità o il sottile orgoglio nel saltellare sull'impossibile suscitando cori di sorpresa e ammirazione. Con il bel tempo, il panorama è meraviglioso, riempie il cuore e la mente e rende più gioiosa la vita. Ogni scalatore può provare l'emozione di Tenzing e Hillary nel posare il piede sulla vetta dell'Everest e dire con loro, pieno di stupore e ammirazione, "sopra di noi soltanto il cielo". Buon cammino!