lunedì 28 agosto 2023

Casa Rossa, profughi sotto il diluvio

 

Premessa indispensabile. Sul tema delle migrazioni la si può pensare in tanti e diversi modi e questo blog è sempre stato e continuerà a essere schierato. Ma in questo caso non c'entrano il parere personale o l'appartenenza politica, non si entra in merito alla validità o meno delle politiche dell'accoglienza, ma si vuole evidenziare l'assoluta necessità di rispondere a un preciso e praticissimo problema esistente. E' una questione che non è di destra o di sinistra, ma riguarda alcune centinaia di persone costrette a dormire all'addiaccio, come pure i cittadini che abitano nei pressi del confine.  

Da oltre un mese, ogni notte, decine di persone si assiepano nello stretto corridoio della Polizia di Frontiera, in attesa di presentare la propria richiesta d'asilo. Provengono da tante parti del mondo, hanno attraversato enormi disagi per arrivare fino a Gorizia, al confine della Casa Rossa e molti di loro dormono su una rudimentale coperta, qualcuno è riuscito anche a innalzare qualche semplice tenda. Chi va a "fare il pieno" li ha sicuramente notati, forse qualcuno ha anche portato qualcosa da mangiare, una pezza per ripararsi dall'umidità o semplicemente un imbarazzato saluto di benvenuto.

Finora era andata bene, se non fosse per il caldo umido e per le infinite zanzare. Ma questa mattina, sotto il diluvio mattutino, non hanno fatto neppure in tempo a trovare un povero riparo e si sono inzuppati completamente d'acqua gelida, una situazione a dir poco disastrosa per la salute già precaria di chi ha camminato per mesi, sfuggendo a ogni sorta di pericoli e minacce. No, non sono soli. Ci sono i volontari che in qualche modo riescono a portare molte gocce di solidarietà nell'Oceano del bisogno.

Ma le istituzioni cosa fanno? Per il momento niente, bofonchiano qualcosa in relazione alla difficoltà di rispondere all'"emergenza". Un'"emergenza" che dura da oltre dieci anni non è più tale, così come una situazione di sovraffollamento che da più di un mese viola i più elementari diritti della persona non può essere definita una sorpresa imprevedibile. Se non ci fossero i volontari, ogni notte nella stazione sud della città e negli angusti prati antistanti la Casa Rossa, ci troveremmo di fronte a un totale abbandono di esseri umani che - al di là di qualsiasi posizione politica o ideologica che ciascuno può avere - esercitano il loro diritto di chiedere di poter ospitati, affermando di fuggire a situazioni di guerra o di persecuzione.

Non capita spesso di criticare direttamente chi svolge il difficile compito di amministrare una città - si comprendono bene le difficoltà di rispondere in modo concreto e sostenibile ai problemi - ma in questo caso non si può evitare un'eccezione. Il sindaco Ziberna, che in campagna elettorale si è vantato di aver ricevuto in consegna una città "piena di profughi che abitavano nella Galleria Bombi" e di averla trasformata nella "capitale europea della Cultura", interpellato ieri sul tg5 smette il tono trionfalista pre elettorale e scarica la responsabilità sull'Europa, invocando niente meno che l'esercito europeo (ma c'è un esercito europeo?) a presidiare le coste del Mediterraneo e la Rotta Balcanica. Non è stato certo lui a "liberare" Galleria Bombi, anzi fu anche sua responsabilità averla "riempita". E non sarà certo lui a convincere l'"esercito europeo" o qualsiasi altra forza armata a entrare in guerra contro decine di migliaia di poveri inermi e indifesi, colpevoli di cercare soltanto un futuro migliore.

E' sua diretta responsabilità, invece, come sindaco di Gorizia, di preoccuparsi di centinaia di esseri umani che - piaccia o meno - stazionano nella sua città. Non si chiede molto, forse uno spazio confortevole per la prima accoglienza - una palestra, una parte di caserma riadattata ad hoc, un tetto sotto il quale ripararsi, una cucina da campo, la disponibilità di un medico per le prime cure, una visita rassicurante del primo cittadino, tutto qua o poco più. Invece per ora, niente di nuovo sul fronte orientale, solo parole al vento, se non addirittura accenti critici nei confronti di chi, spinto semplicemente dalla propria umanità, cerca con fatica e convinzione di esprimere gesti di autentica solidarietà e, per quanto possibile, di amicizia.

giovedì 24 agosto 2023

Ancora qualche spunto sulla Democrazia

 

Normalmente, quando si pensa al concetto di democrazia, il pensiero corre alle elezioni. Se è vero che "la sovranità appartiene al popolo", è altrettanto vero che essa viene esercitata "nelle forme e nei limiti della Costituzione".

Attualmente "le forme e i limiti" prevedono il sistema della rappresentatività, secondo leggi elettorali via via approvate dal parlamento, ma anche alcune forme di democrazia diretta, quali i referendum abrogativi e le leggi di iniziativa popolare. Tutti i cittadini scelgono con il voto i propri rappresentanti.

Ma rappresentanti di cosa?

Fino agli inizi degli anni '90 del XX secolo, almeno vagamente, chi aveva una concezione della vita o una visione del mondo, aveva la possibilità di trovare dei partiti che, almeno in teoria, proponevano dei candidati nei quali ci si poteva riconoscere. Ordinariamente un comunista si riconosceva nel Partito Comunista, un socialista nel Partito Socialista, un nostalgico del fascismo nel Movimento sociale, un cattolico nella Democrazia Cristiana e così via. Il Parlamento era quindi un luogo in cui i rappresentanti delle ideologie e delle idee presenti sul territorio discutevano fra loro, cercando di trovare il massimo accordo possibile intorno alle leggi che dovevano approvare e trasmettere per la promulgazione al Presidente della Repubblica. Non che poi le cose andassero sempre così lisce, anche i governanti del tempo dovevano sottostare alle regole dell'economia mondiale che molto spesso violentavano la volontà popolare in nome della permanenza nelle "alleanze" che garantivano crescita economica e stabilità sociale. Tuttavia è vero che il dialogo e il confronto politico fossero ben più avvincenti e interessanti di quanto non siano attualmente. Chi - dai capelli grigi in su - non ricorda le seguitissime Tribune Politiche preelettorali guidate da Jader Jacobelli? E chi non ricorda le file ai seggi e le percentuali di partecipazione quasi sempre molto alte? Insomma, anche se da un certo punto in poi già cominciava a serpeggiare l'impressione dell'inutilità della crocetta, dato che poi le scelte che contano venivano prese indipendentemente dal popolo sovrano, rimaneva sempre vivo il desiderio di confrontarsi almeno sui grandi obiettivi della vita individuale, della collettività nel suo insieme, delle relazioni internazionali.

Negli ultimi trent'anni, oltre alla disillusione derivata dalla constatazione del progressivo restringersi dell'effettiva "sovranità che appartiene al popolo", si è aggiunta la quasi completa incomprensione del senso della rappresentanza. Il crollo delle ideologie, insieme alle loro inevitabili carenze, ha trascinato con sè anche le idealità. In che modo posso riconoscermi in un partito che si chiama "Forza Italia"? Quale mia idea si rispecchia nel concetto di "Fratelli d'Italia"? Se tutti si dicono tali, cosa caratterizza un partito che si autodefinisce "Democratico"? E cosa vuole concretamente, con quel nome da hotel di lusso, il Movimento Cinque Stelle? Al di là della vaga referenza un po' escludente, cosa vuol dire che un candidato è della "Lega"? In altre parole, come entusiasmarsi e impegnare le proprie forze sociali e la propria visione della persona, iscrivendosi o votando dei partiti dai contorni programmatici così vaghi? L'impressione è che chi è al potere abbia come unico scopo il suo mantenimento, e chi è all'opposizione abbia come unico obiettivo il ribaltamento delle forze in campo. Programmi, progetti, percorsi concreti per realizzarli? Neanche l'ombra. Certo, c'è ancora qualcuno che si richiama al comunismo, all'ambientalismo e ad altri simili valori. Ma ormai i buoi sono scappati e anche queste forza sembrano purtroppo del tutto marginalizzate. E le percentuali dei votanti precipitano ormai regolarmente sotto la fatidica soglia del 50%.

In questa condizioni, non è facile vedere una via d'uscita. Se "democraticamente", cioè grazie a un voto suggellato da una legge elettorale approvata da un Parlamento, va al potere un qualsiasi partito che formalmente obbedisca alle regole, ma in realtà proponga la concretizzazione di idee o visioni politiche o religiose che per alcuni potrebbero orientare verso quel razzismo e quel nazionalismo che hanno fatto parte di disastrose concezioni politiche dell'ormai lontano passato, cosa può fare chi non è d'accordo? Può cercare di accrescere il consenso fino al ribaltamento dei rapporti di forza, lavorando strenuamente su una comunicazione efficace che possa portare al successo. Oppure può chiamare a raccolta le masse, cercando di intervenire sulla società civile, con il rischio di fallire nell'impresa o di avvelenare pericolosamente i pozzi della civile convivenza. Oppure ancora può sperare che funzionino la Magistratura e gli altri organi di controllo dello Stato, ma la burocratizzazione degli interventi e la complessità dei Codici è tale da rendere difficile sperare di trarre qualche ragno dal buco.

Nonostante l'urgenza e la rapidità incredibile dei procedimenti, forse l'unica via per poter salvare il salvabile è quella di fermarsi un attimo a riflettere. Non si tratta di ripetere all'infinito e con voce - ahimé - sempre più debole la propria critica al potere costituito, non facendo altro che accrescere il consenso proprio a coloro ai quali ci si vorrebbe opporre. Si tratta invece di creare sempre più luoghi in cui incontrarsi a dibattere sui grandi temi della vita, della pace, del lavoro, delle dinamiche intrinseche al sistema del Capitale. Ma in questi luoghi ci si dovrebbe essere tutti, di una parte dell'altra, si dovrebbe ritrovare il gusto del confronto, del contradditorio se necessario, lo sforzo di convincere senza lasciarsi convincere. E' necessario ritrovare la libertà di un pensiero non allineato al politicamente corretto di uno schieramento o dell'altro, rompere il muro dell'abitudine e della rassegnazione, essere pronti all'impopolarità e all'incomprensione, anche dei cosiddetti "propri".  Occorre che il popolo ritrovi la passione di essere autenticamente sovrano, ma ciò potrà accadere se potrà scegliere i propri rappresentanti in base al dialogo e al confronto serrato con essi sui sistemi, non su squallide strategie di mero esercizio del potere. Altrimenti si andrà avanti sul piano inclinato dell'insignificanza e quando ci si accorgerà dell'assenza di una nuova Filosofia Politica sarà forse drammaticamente, troppo tardi.

martedì 22 agosto 2023

Dall'attuale desolazione a una nuova Filosofia della Politica

 

Cosa c'entra la pragmatica della comunicazione umana, proposta negli anni '60 da Paul Watzlawick e dalla scuola di Palo Alto con l'attuale momento della politica nazionale italiana?

Non c'entra molto, se non come spunto per richiamare la necessità di riscoprire alcune minime forme di funzionamento della comunicazione umana, nel marasma di informazioni inviate e recepite in un contesto del tutto deregolamentato.

Ci sono tante domande da porsi, cominciando da un dato abbastanza evidente. Il cosiddetto "centro sinistra" ha avuto la possibilità di governare l'Italia negli ultimi oltre dieci anni. Soltanto oggi, non essendo più in maggioranza, sembra accorgersi di mille necessità di intervento sul sociale, dal salario minimo all'accoglienza dei profughi, dai diritti dei lavoratori a quelli civili. Anche sul tema della pace, a differenza del periodo "draghiano", si sentono voci dissonanti rispetto al tema dell'invio delle armi in Ucraina, accuratamente evitato nel periodo precedente. Il cosiddetto "centro destra", raggiunto il potere presentandosi con una politica decisamente di destra, dopo aver promesso blocchi navali, riduzioni di accise, elevazione del tenore della vita di tutti, si rivela incapace di realizzare anche l'uno per cento di ciò che aveva pronosticato. L'incoerenza tra ciò che si dice quando si è all'opposizione e ciò che si fa quando si raggiunge il governo è assolutamente evidente, al punto che le scelte politiche fondamentali non differiscono granché.

Se le cose stanno così, non è tanto per la comunque esistente divaricazione fra la sete del potere e la realtà con la quale chi lo raggiunge si trova a misurarsi, quanto per la necessità di obbedire a imposizioni che provengono dai centri internazionali di gestione della politica e dell'economia. Bisogna riconoscere che il capitalismo liberista ha realizzato l'ideale dell'internazionalismo che era stato propugnato, ma non realizzato, dagli imperialismi di ogni tempo, ma anche dalle visioni umanitarie cristiana e marxista. Oggi in tutto il mondo - o quasi - si parla la stessa lingua del capitale e gli scontri che si svolgono in troppe parti del pianeta non sono determinati da diversità di visioni ideologiche, ma dalla volontà o necessità di garantire la realizzazione degli interessi individuali. Per questo la sinistra oggi appare molto debole e riesce a farsi sentire soltanto quando utilizza lo stesso linguaggio, perdendo in questo modo ogni riferimento con la propria tradizione storica. E per questo la destra si deve autolimitare per non essere emarginata e collocata nei posti di rincalzo del gran pranzo del Potere, per usare un'immagine potente utilizzata da Ermanno Olmi nel suo indimenticabile "Lunga vita alla Signora".  

Questa situazione rende quanto mai complessa la gestione del concetto stesso di "demo-crazia". Quanto si è veramente liberi nel votare i propri rappresentanti? Che cosa esprimono, l'ideale o l'ideologia sulla quale costruisco la mia visione del mondo oppure soltanto forme fluttuanti e flessibili di esercizio del potere? In un tempo in cui lo strapotere economico determina l'esercizio del consenso, quale spazio ha il cittadino per informarsi, studiare e cercare delle soluzioni ai problemi? In che senso "la sovranità appartiene al popolo", come recita l'ouverture della nostra Costituzione?

Sono domande - e solo poche tra le infinite possibili - che ci si deve porre, se si vuole che la comunicazione politica sia efficace. Cercare di convincere sempre di più coloro che sono già abbondantemente convinti è opera meritoria, in quanto l'aggiornamento sugli argomenti è sempre molto utile. Ma quando ci si accorge di non muovere neppure una minuscola percentuale, convincendo qualcuno dell'altra parte a venire dalla propria, occorre cercare nuove forme di trasmissione dei messaggi, più utili a raggiungere l'obiettivo. Se ciò è già difficile quando si parla della situazione di un singolo Stato, dove ogni cambiamento sembra realizzabile soltanto mettendo in gioco altre forze diverse rispetto a quelle espresse dal voto popolare, lo è molto di più quando ci si confronta con il livello planetario.

Si può mettere in discussione il sistema capitalista? Si può ipotizzare "un altro mondo possibile", a partire da una visione incentrata sul primato della persona sul lavoro e del lavoro sul capitale? Si può raggiungere questo obiettivo senza ricorrere a interventi violenti finalizzati a interrompere l'apparentemente immutabile tram tram del quotidiano? Non sono domande alle quali si possa offrire una facile risposta, se non quella di cercare in tutti i modi di alleviare il dolore di chi più di ogni altro resta stritolato nel meccanismo. Occorre una profonda riflessione ed è forse proprio questo ciò che manca, una convinta rivalutazione della Filosofia. Non soltanto la boeziana "consolazione della Filosofia", quanto piuttosto la platonica costruzione della "Repubblica".

domenica 20 agosto 2023

De burkinibus... est disputandum

 

Uno dei temi più dibattuti in questa estate, è stato avviato dalle prese di posizione della sindaca di Monfalcone Cisint e del sindaco di Trieste Dipiazza contro le donne musulmane che hanno deciso di fare il bagno vestite.

Come al solito, si sono formati due opposti schieramenti. Da una parte, soprattutto ma non esclusivamente a destra, si è applaudito alle posizioni dei due primi cittadini, invocando motivi di igiene e di opportunità, richiamando perfino "il rispetto delle nostre tradizioni". Dall'altra, soprattutto ma non esclusivamente a sinistra, si è denunciata la violazione dei più elementari diritti della persona a vestirsi come vuole e a scendere in acqua con l'abito che ritiene più adatto.

C'è anche chi ha, giustamente, denunciato la duplice oppressione della donna, costretta in alcuni Paesi a doversi vestire come vuole il potere patriarcale e in altri, procedendo dalle stesse ragioni, a doversi svestire quando raggiunge una spiaggia.

In realtà il problema è più serio di quello che sulle prime si potrebbe pensare. E' in discussione infatti proprio il rapporto tra il corpo e l'abito che esprime le convinzioni e gli stili di vita di ogni essere umano. E' lecito legiferare o regolamentare il modo di vestirsi? Non lo si può negare. Se qualcuno gira per la città nudo o in costume da bagno succinto, viene preso in carico dai vigili e probabilmente multato, perché agisce contro una regola in generale condivisa. In Francia e in altri Paesi europei si è molto discusso sulla legittimità dell'uso del burka e le leggi hanno determinato la necessità che ogni persona possa essere identificata. Lo stesso è accaduto a Venezia, dove è stata vietata la libera circolazione di persone con maschere che non consentano il riconoscimento. Questo per dire che in effetti non c'è nulla di strano nel fatto che alcune leggi possano essere emanate, procedendo dalla percezione del comune sentire, o meglio del sentire della maggioranza.

Ci sono quindi due risvolti, uno filosofico e uno giuridico. Sul primo è in atto un'ampia riflessione, incentrata sull'importanza del corpo e sulle modalità attraverso le quali esso, soprattutto quello femminile, può essere manipolato da parte delle varie forme di Potere. Non basta affermare la libertà di ciascuno di agire come gli sembra più opportuno, occorre anche chiedersi fino a che punto un essere umano sia effettivamente "libero", nel momento in cui compie certe scelte. Per esempio, una donna che fa il bagno vestita "per motivi religiosi", lo fa per scelta o per costrizione? Lo fa di sicuro per scelta, perché così è stata formata ed educata. Fino a che punto si ha il diritto o il dovere di imporre una visione culturale diversa dalla propria a chi si inserisce nella vita sociale di città e paesi, regolamentando anche aspetti ordinari della vita civile? Accettare che un marito imponga alla moglie di fare il bagno vestita per non mostrare agli altri uomini il proprio corpo, è rispettare la cultura di quella famiglia o assecondare un'odiosa costrizione? 

Sul piano giuridico la situazione è paradossalmente meno complessa, a meno che non si ritenga che sia una valida soluzione emettere senza alcuna ulteriore riflessione inutili e quasi ridicole ordinanze oppure - mi si consenta - che possa essere effettivamente utile un flash mob che porti qualche decina di persone a inzupparsi i calzoni a pochi metri dalla spiaggia.

Un sindaco dovrebbe svolgere il proprio compito che è quello, secondo l'etimologia della parola, di "garantire la giustizia insieme a tutti i cittadini". Quindi la proposta è: perché non creare un tavolo di discussione, in Comune, dove affrontare insieme il tutto. Potrebbero essere invitati i membri della commissione pari opportunità del Consiglio Comunale, le/i rappresentanti delle associazioni dei musulmani presenti sul territorio, le rappresentanti delle associazioni che tutelano i diritti della donna, eventuali sociologi e filosofi di provata competenza. In questo modo ciascuno, con serenità e profondità, potrebbe spiegare il senso della propria posizione e tutti insieme si giungerebbe a fornire al/alla sindaco, gli elementi sufficienti per prendere una decisione seria, ponderata e rispettosa del parere di tutti.

Non sarebbe una buona idea, prima di offrire in pasto all'opinione pubblica le immagini delle donne che sono entrate in mare vestite, senza immaginare il putiferio che avrebbero scatenato e prima di impoverire la discussione su un problema serio con gesti folkloristici, utili non in sé stessi ma soltanto se accompagnati dalla proposta di un approfondimento condiviso del tema?

venerdì 18 agosto 2023

Le notti goriziane dei profughi sulla rotta balcanica

Mentre Gorizia si risveglia dal torpore provocato da una giornata calda e umida, qualche decina di persone si appresta ad affrontare la notte all'aperto. Nello spazio verde tra la Casa Rossa e la via Giustiniani è stata allestita una rudimentale tendina e i richiedenti asilo si ingegniano nel cercare il modo di dormire sulla nuda terra e di ripararsi da qualche improvviso acquazzone.

Chi va a fare benzina non li può non vedere, ogni sera. Affollano il terrazzino davanti agli uffici di polizia, presentano la loro domanda e poi si accampano. Molti portano i segni della fatica affrontata sulla rotta balcanica, tutti sorridono e rispondono ai saluti imbarazzati e un po' impotenti dei passanti.

Sono passati tanti anni dagli arrivi e dai soggiorni in galleria Bombi. Eppure è come se la cosiddetta emergenza non sia mai finita. Possibile che negli ultimi dieci anni non sia stata varata una legge decente sull'accoglienza e sui temi importanti dell'immigrazione? Possibile che il dibattito politico nazionale e locale sia ancora impantanato tra il buonismo della sedicente sinistra (che paga ora l'inerzia e l'inattività degli ultimi anni dei "suoi" governi) e il cattivismo di una destra che si rivela clamorosamente incapace di gestire la situazione? Possibile che l'assistenza a chi arriva sia gestita quasi esclusivamente da un lodevole volontariato allo stremo, per di più ridicolizzato da chi dovrebbe provvedere in ragione del ruolo amministrativo rivestito? Possibile che nell'ultimo decennio Gorizia non si sia dotata di un minimo di strutture di prima accoglienza per togliere queste persone dalla strada e offrire loro un po' di conforto e di assistenza?

È evidente come le priorità siano ben altre e come si ritenga che la mancanza di clamore mediatico significhi l'inesistenza del problema, o meglio, la trasparenza di esseri umani che transitano per la città senza far rumore. Se ne accorgono solo i pochi che si prendono cura di loro e quelli che guardano con preoccupazione ai sacchi di rifiuti abbandonati sui prati.

Sì, è possibile che non si sia fatto nulla. Ed è per questo che ogni minuscolo aumento dei flussi migratori riesce ancora a cogliere di sorpresa le istituzioni, alla ricerca di raffazzonate risposte all'ennesima, reiterata emergenza.

mercoledì 16 agosto 2023

Drži se Slovenija in prisrčno hvala! Forza Slovenia, e grazie per la testimonianza!

Legname accatastato a Most na Soči
La foto è stata scattata sull'Idrijca, dall'"altro ponte" di Most na Soči.

In questa zona non ci sono stati particolari danni al paese e alle sue strutture, ma l'immagine rende l'idea della forza della Natura che si è scatenata in buona parte della Slovenija settentrionale. Un'immensa catasta di tronchi, strappati alla montagna e trascinati a valle, ostruisce completamente l'ordinario corso del fiume.

Mentre ancora molti sono i paesi difficilmente raggiungibili e il lavoro di "gasilci", protezione civile, volontari coordinati, forze di polizia è ancora fervente, per poter ripristinare quanto prima i collegamenti e per liberare dal fango gli ambienti sommersi, vale la pena svolgere una breve riflessione.

Uno straordinario personaggio, poco noto in Italia ma molto conosciuto in Slovenija, è Pater Gržan. Intervistato in televisione, anche in quanto direttamente coinvolto nell'alluvione, ha sintetizzato ciò che sta succedendo con le parole: sono crollati i ponti sui fiumi, ma sono stati ricostruiti i ponti fra i cuori delle persone.

Al di là dell'ovvia - o di quella che dovrebbe essere ovvia, tanto più per chi vive al confine -manifestazione di solidarietà nei confronti di coloro che sono stati colpiti da quella che viene definita "la più grande catastrofe naturale della storia della Slovenija", è straordinario l'insegnamento che deriva dall'azione coordinata e sinergica di un intero popolo.

Con l'appoggio dell'Unione europea il governo ha guidato il momento dell'emergenza, operando in modo efficace e rapido attraverso un sistema di protezione civile in grado di operare con grande competenza professionale, ma anche usufruendo del sostegno di migliaia di operatori volontari. Le polemiche, alle quali si è fin troppo abituati in Italia, sono state lasciate da parte, rinviate concordemente al momento successivo alla messa in sicurezza delle persone, delle loro abitazioni e dei luoghi di lavoro.

Da tutte le regioni c'è stata una vera e propria gara di solidarietà, basata sia sulla racconta di materiali indispensabili - come è stato promosso anche e Nova Gorica dal centro KID e dalla protezione civile - sia sull'impegno personale, riservato soprattutto a persone in buona forza e salute, dal momento che l'azione richiesta, la rimozione dei residui induriti della piena dei fiumi esondati, è estremamente faticosa e in alcuni casi difficile.

Quello che colpisce è l'orgoglio di sentirsi parte di un unico grande organismo, nel quale l'impegno dello straordinario corpo volontario dei "gasilci", va di pari passo con quello dei vicini di casa che cercano di sopperire come possono alle esigenze di chi è stato più sfortunato. E' stata una vera gara di solidarietà, che ha unito comunità e famiglie nel comune sforzo di vincere con serenità e convinzione la battaglia del pieno ripristino di ciò che è andato distrutto.

Grazie Slovenia, Hvala Slovenija, per questa testimonianza di forza, di fraternità e di un'amicizia costruttiva capace di affrontare e superare ogni avversità!

domenica 13 agosto 2023

Onorare i disertori e ripensare la nonviolenza

Le guerre, prima o poi, finiscono. 

Ogni Stato è disseminato di monumenti alla memoria, file interminabili di nomi, di fronte ai quali ci si inchina, eroi i propri morti, nemici quelli degli altri. I reduci ritornano trionfanti, alcuni perfino orgogliosi delle ferite riportate e chi li ha inviati nei campi di battaglia e ha raggiunto i propri squallidi obiettivi, se ne frega altamente della loro vita. Meglio onorare i caduti, tanto non possono più parlare.

I vincitori sono eroi, gli sconfitti sono terroristi neutralizzati, salvo repentine riabilitazioni, al rapido mutare delle alleanze e delle relazioni, con conseguente modifica delle lapidi in pietra.

Chi esce dalla trincea - avanti Savoja! - perché non vuole uccidere i propri simili, viene ucciso dai carabinieri che hanno l'ordine di non tollerare la diserzione. Per lui non ci sarà un monumento, neppure lo straccio di un ricordo, migliaia di giovani che hanno preferito morire piuttosto che uccidere, ottenendo in cambio riprovazione e vergogna.

Eppure, in ogni guerra, questi disertori sono quelli che avevano ragione, che con il loro sacrificio dimostravano quanto sarebbe stato molto chiaro alla fine di ogni conflitto. La guerra è un'inutile strage, un'orrenda carneficina, le cui "ragioni" potrebbero benissimo essere risolte con la trattativa e la diplomazia. "Potrebbero", appunto, se non fosse che le vere motivazioni non sono quelle per le quali generazioni di ragazzi vengono inviati periodicamente al macello, ma quelle dei signori dell'economia che giocano con le esistenze altrui.

dio patria e famiglia, rigorosamente scritti con l'iniziale minuscola, sono gli assoluti ai quali i potenti del mondo sacrificano nel sangue i popoli, obbedendo all'insaziabile unica vera loro divinità, l'interesse economico e la gestione del potere.

Sarebbe ora di innalzare i monumenti ai disertori, in particolare della prima guerra mondiale, ai tanti dei quali si conosce il nome e ai tantissimi di cui non si sa più nulla, inghiottiti dalla propaganda e ormai dimenticati. Hanno ritenuto che Dio non potesse chiedere loro di spegnere il dono della Vita, che la Patria non fosse un mattatoio al servizio di pochi potenti e che la Famiglia dovesse essere la culla e non la tomba di ogni esistenza.

Il ponte sulla Neretva a Jablanica
Come direbbe don Milani, c'è un'eccezione e si riferisce alla guerra partigiana. Ha ragione, proprio perché essa ha una caratteristica tutta particolare, almeno nella sua essenza originaria. Non è stata combattuta per difendere una nazione contro un'altra, né per tutelare gli interessi di una parte del mondo rispetto a un'altra. E' stata combattuta per portare al mondo intero la libertà e la giustizia, soffocate dal mostro nazista e fascista. Questo aspetto non è da dimenticare, neppure nelle manifestazioni nelle quali si celebra la Resistenza. Chi ha combattuto il fascismo non l'ha fatto solo per difendere la propria patria, ma per sconfiggere un'ideologia perversa fondata sul razzismo, sul nazionalismo e sulla violenza sistematica. L'antifascismo non è patriottismo, ma internazionalismo della giustizia e della libertà. Per questo occorre essere grati, in questo caso, a chi non ha disertato, ma ha dato la propria vita per difendere e affidare ai posteri tali valori. Questo almeno era l'ideale da cui è partita la lotta all'invasore, come ricordato a Jajce, nella sala dove il 29 novembre 1943 è nata la prospettiva della Jugoslavija e a Jablanica, presso il ponte sulla Neretva, dove i partigiani sono riusciti a salvare i feriti e i malati, resistendo in un'epica battaglia contro le forze numericamente e tecnologicamente superiori degli eserciti italiano e tedesco.

Certo, il loro esempio e quello di molti altri che sono "saliti in montagna", anche in Italia, pone qualche problema alla purezza della proposta della nonviolenza attiva. Il tema è certamente da sviluppare, ma anche negli ambienti pacifisti dovrebbe essere quanto prima affrontato. Certo, io posso scegliere di morire piuttosto che uccidere, di essere ferito piuttosto che ferire, ritenendo questa una strategia vittoriosa, proprio perché fondata sul sacrificio del mio sangue. Ma cosa devo fare quando vedo la violenza esercitata su qualcuno altro, sotto i miei occhi? La resistenza passiva è davvero sostenibile quando il mio mancato intervento non impedisce a qualcuno di far del male a qualcun altro, magari a un bambino inerme e indifeso? E se ci si trova davanti a un dittatore sanguinario che vuole portare folle immense alla rovina, posso fermarlo soltanto con il mio enunciato di principio? 

E' logico che il fine ultimo di ogni azione nonviolenta è portare i contendenti al tavolo della trattativa. Ed è anche logico come non sempre sia chiaro chi sia l'aggressore e chi l'aggredito, in situazioni complesse e cariche di risvolti storici ai più sconosciuti. Così è per esempio nel caso dell'attuale guerra in Ucraina, dove l'invio di armi e l'esplicito sostegno di USA e UE non sostengono una lotta per la giustizia e la libertà, ma rendono possibile il prolungamento di una tragica spirale di estrema violenza, nella quale i due protagonisti principali, Putin e Zelensky, fanno a gara per portare alla rovina russi e ucraini.

In conclusione, questo breve scritto caldeggia due proposte, rivolte in particolare al mondo pacifista: onoriamo i disertori che hanno perso la vita disobbedendo agli ordini impartiti dai rispettivi eserciti; apriamo una profonda discussione sul ruolo della nonviolenza attiva in contesti di grave sopraffazione della vita e della libertà di singoli individui e di interi popoli.

mercoledì 9 agosto 2023

A Ohrid, in Macedonia, conversando con il filosofo Slavko...

Quello di Ohrid non è soltanto uno dei più grandi laghi della penisola balcanica, ma è riconosciuto dagli scienziati anche come il più antico d'Europa. Vivono nelle sue acque centinaia di specie endemiche e sulle sue sponde si possono godere belle spiagge che attirano un numero sempre maggiore di turisti. Ci si può immergere in memorie archeologiche risalenti all'età della pietra e all'epoca di Roma, soprattutto è possibile ammirare alcuni fra i più suggestivi monasteri ortodossi del mondo, in particolare San Naum con i suoi splendidi affreschi medievali, San Giovanni evangelista (nella foto), inserito in uno scenario incantevole e San Pantaleone, circondato da recenti assai interessanti scavi che hanno rivelato la sovrapposizione di numerosi luoghi di culto, precristiani e paleocristiani.

E' qui che si incontra una guida d'eccezione, Slavko, che si presenta alquanto umilmente come "un filosofo che in cambio di qualche moneta vuole raccontare qualcosa riguardante il sito che si sta per visitare". Appena inizia a parlare, ci si rende conto di avere a che fare con una specie di angelo, un messaggero misterioso capace di comunicare e condividere idee e riflessioni che non soltanto illustrano, ma anche inducono a profondi pensieri. Parla bene l'italiano, il tedesco, l'inglese, il francese, oltre ovviamente tutte le lingue slave che ritiene essere quelle all'origine di tutti gli idiomi europei.

Per rendere più vivo il racconto, qui viene presentato nella forma diretta della specie di dialogo socratico che si è svolto con grande intensità, dimenticando per un momento il calore dell'estate e i programmi di viaggio.

Slavko, perché questi luoghi di culto proprio qua, su questo colle che domina il lago nella sua interezza?
In realtà sotto i nostri piedi le testimonianze architettoniche del sacro sono come minimo 32, realizzate in un periodo di quasi tremila anni. Perché qua? Perché il lago è la più grande sorgente d'acqua dolce dell'Europa. Questa Europa che è stretta tra due mari caldi, quello del Nord e il Mediterraneo. L'acqua salata e quella dolce trovano una singolare sintesi proprio in questo posto, dove si congiungono nel calore del Sole, l'origine del nome del quale - in quasi tutte le lingue -  coincide con quello dell'essere divino.

Nel battistero del V secolo, da pochi anni scoperto e aperto al pubblico, ci sono degli strani simboli. Cosa possono significare?
Quella che tutti conoscono come il tragico simbolo della svastica, è in realtà un'antichissima stilizzazione proprio dei raggi del Sole che vorticosamente si intrecciano per generare il mistero della Realtà. Gli altri trasmettono i quattro elementi costitutivi, aria acqua terra e fuoco, mentre le scene di lotta che precedono il fonte battesimale indicano la necessità di lottare contro il male per poter essere purificati dall'acqua e risalire verso Oriente, in una dimensione di nuova esistenza. E' straordinaria la forza del primo cristianesimo che, lontano dalle prescrizioni successive, mantiene vive le tradizioni precedenti arricchendo il loro significato. Ora ti faccio io una domanda...

Puoi dirmi...
Lo sai perché si gettano le monete nell'acqua, in tante realtà religiose ma anche non religiose?

No, non ho mai pensato che ci potesse essere un significato nascosto...
Ma è da millenni che questo accade! Le monete sotto acqua luccicano e in questo modo rappresentano di nuovo il connubio fra gli elementi del fuoco (Sole/luce), della terra (materiale della moneta), ovviamente dell'acqua e dell'aria che ci permette di respirare. Gettare le monete nell'acqua è esprimere il desiderio di partecipare pienamente al Mistero dell'Essere, sentirsene totalmente parte come in un paradiso nel quale tutti i viventi trovano la loro origine e il loro fine. Sai, c'è una tradizione della chiesa ortodossa, soprattutto qua in Macedonia, che prevede il lancio di una croce di legno e metallo nell'acqua di un lago e di un fiume. E' un immenso onore quello di essere scelti per immergersi nell'acqua e recuperarla. Sì, perché la croce nel lago è il simbolo dell'unità cosmica percepita pienamente nel grembo materno, cioè nella Natura.

A proposito di ortodossia, ci dici qualcosa su questa forma del cristianesimo?
Vedi, le rovine sotto i nostri occhi sono di un'immensa basilica che fino all'inizio del secondo millennio dominava il paese e l'intero lago. Poi c'è stato un terremoto e, dopo la distruzione, gli ortodossi hanno ritenuto di non ricostruirla, ma di creare tante piccole chiese e tanti monasteri per significare la necessità di essere umili, piccoli. I cattolici hanno invece scelto di proseguire con le imponenti cattedrali, come a voler dire a Dio che le strutture umane lo possono celebrare, ma anche quasi superare. Ciò si vede anche nel rapporto con la politica. Gli ortodossi seguono Giustiniano, l'ideale di una fede libera di essere vissuta e professata senza interferire con il Potere, i cattolici sono ancora legati al sogno che attribuiscono a Costantino, una Chiesa che diventa in sé stessa Potere. In questo e in molti altri sensi, si potrebbe dire che l'ortodossia approfondisce la dimensione femminile della fede, il cattolicesimo quella maschile, riconoscibile sotto il titolo di "patriarcato".

Riesci a spiegarmi meglio questo concetto?
Quando entri in una chiesa o in un monastero ortodosso, accanto al Pantocrator, il reggitore dell'universo, c'è la rappresentazione della madre che porta in seno il bambino. Non è Maria, ma la Sofia, cioè la sapienza del divino, ovvero la Madre Natura, generatrice di tutto ciò che esiste. Al centro della riflessione ortodossa è proprio il rispetto per questa madre che ci fa nascere, ci accompagna nella vita e ci accoglie al termine del nostro segmento esistenziale. Ecco, è un altro collegamento stretto tra le religioni antiche professate intorno al lago e il cristianesimo, come forma attuale del culto naturale.

Parlami un po' della tua visione dei Balcani.
I greci sono indoeuropei, quindi un po' a parte. Tra tutti gli altri, condividiamo la lingua slava e ci possiamo sostanzialmente comprendere, pur dentro le diversità che ci caratterizzano. Da questo punto di vista sentiamo di avere una missione storica per l'Europa e per il Mondo, dimostrare cioè come l'unità linguistica possa essere un elemento fondante, in grado di consentire una convivenza nella pace e nella concordia anche in situazioni di forti differenze religiose e ideologiche.

Quindi l'intuizione di Tito è stata costruttiva? Cosa ne pensi?
Penso che qualsiasi tentativo di federazione tra realtà diverse, ma con alcuni elementi in comune, sia essenzialmente da sostenere. La Jugoslavija era un progetto di questo tipo, quindi, con tutte le limitazioni del caso, ritengo che non si possa guardare che con ammirazione al tentativo di sottolineare i motivi di convergenza e di unità piuttosto che le comunque esistenti divisioni.

Il ruolo delle religioni, compresa l'ortodossia, non ha evitato a questo affascinante territorio, terribili guerre, anzi, esse stesse hanno spesso fomentato l'odio degli uni contro gli altri...
Vedi, il divino è essenzialmente Amore generativo. L'Amore non può avere nulla a che fare con il Potere, che postula la sopraffazione dell'altro. Le religioni sono state e sono spesso formidabili strumenti di Potere e come tali non possono promuovere realmente opere di concordia e di pace, a meno che non accettino l'umile ruolo di chi sa di essere una parte e non certamente il tutto. Vedi come luccica in questo momento il grande lago? Ecco, se ognuno di quei luccichii ritenesse di essere l'unico, saremmo immediatamente accecati dalla luce riflessa del Sole. Se invece ciascuno rimane umilmente collocato nel suo fragile spazio e nel suo istantaneo tempo, allora la visione d'insieme che il lago ci trasmette è davvero meravigliosa.

Grazie Slavko, per i tuoi tanto rimuginati pensieri. Si può essere d'accordo o meno con quello che ci hai comunicato, quello che resta è la sensazione di aver incontrato un Uomo.

martedì 8 agosto 2023

Slovenija, the day after

 

Ecco uno dei tanti meravigliosi paesaggi della Slovenia, la confluenza tra la Sava Dolinka e la Sava Bohinjka, nella regione della Gorenjska.

E poi accade l'imprevedibile.

Una giornata di pioggia torrenziale sull'intero arco delle montagne slovene e i fiumi si sono riempiti di acqua e hanno travolto tutto ciò che stava nella parte inferiore delle valli. Ci sono state alcune vittime, per fortuna e per la velocità dei soccorsi poche, interi paesi sono stati sommersi e rimasti per lungo tempo isolati, le strade di collegamento sono state invase da innumerevoli frane, sono crollati antichi ponti e pittoresche passerelle di legno. E' stato un disastro epocale, come mai accaduto a memoria d'uomo, sembra che una mano pesante abbia voluto accanirsi sulla bella Repubblica, colpendo praticamente quasi ovunque, nella parte centrale e settentrionale.

Di giorno in giorno si rendono più chiari i contorni dell'alluvione. I fiumi rientrati nel loro corso hanno lasciato ovunque montagne di fango, i tronchi degli alberi si sono accatastati intorno a qualsiasi ostacolo naturale o artificiale, le cantine e i primi piani delle case sembrano irrimediabilmente perduti. "Sembrano" - è il caso di dire così, perché ancora una volta il popolo sloveno si sta dimostrando straordinario. In piena alluvione i "gasilci" - quelli che erano stati decisivi nello spegnimento degli incendi del Carso lo scorso anno - si sono prodigati per ridurre al massimo possibile i disagi. Non appena diminuita la pioggia la gente si è messa immediatamente al lavoro, aiutata dagli interventi dell'amministrazione centrale e delle locali strutture di protezione civile. Ovunque si vedono persone al lavoro, prima per aiutare a salvarsi i tanti che erano rimasti intrappolati nelle case, invitati a stendere lenzuola bianche sui tetti per invocare soccorso, poi per liberare gli scantinati e le case dalle suppellettili rovinate dalle acque e per raccogliere da ogni dove aiuti per sopperire alla mancanza di acqua, di cibo e di generi di prima necessità. I più forti si mettono a disposizione dei più deboli, in una gara di solidarietà che stupisce e suscita ammirazione.

E' strano che se ne parli poco in Italia e in particolare a Gorizia, che si prepara a condividere l'onore di essere capitale europea della Cultura con Nova Gorica e con la Slovenia intera. L'esempio che si sta ricevendo è importante. In una singolare sintonia, tutti si rimboccano le maniche, lasciando ad altri tempi eventuali polemiche ed espressione di perplessità. E' il momento dell'emergenza e tutti - dal capo del governo a ogni singolo cittadino dello Stato - si prodigano in tutti i modi per salvare il salvabile e per porre le basi di una complessa e difficile ricostruzione. In realtà ci sarà tantissimo da fare, ponti da riedificare, case da restaurare, boschi da ripiantumare. Ci vorrà tempo per riportare i paesaggi naturali della Slovenia a quella bellezza che rallegra il cuore degli abitanti e che attrare visitatori da tutta Europa. Ma l'impegno di tutti renderà possibile il miracolo. Le ferite si rimargineranno, la vita tornerà a scorrere normalmente, le strade saranno sistemate, il controllo sull'ambiente sarà incrementato e i versanti dei monti saranno di nuovo in sicurezza. 

Per chi lo desidera, a Nova Gorica si raccolgono alimenti, acqua e vestiti, presso il centro umanitario KID, Gradnikove brigade 9, dalle 9 alle 17, tel. +386 31 817 785.  

lunedì 7 agosto 2023

A Srebrenica, dolore e silenzio

 

Il monumento ripreso in questa fotografia induce sentimenti di serenità e di pace. I bambini danzano sul mappamondo bronzeo, sostenuto da mani gentili rinfrescate dall'acqua zampillante, simbolo dello scorrere giocoso della vita.

Per un istante ci si dimentica del luogo in cui è collocato, all'entrata del paese di Srebrenica, dove si è perpetuato il genocidio di 8372 uomini (il numero è destinato a un continuo aumento, man mano che si trovano i resti degli uccisi nei boschi della zona), appartenenti alla comunità musulmana del territorio.

Anche se tutti conoscono la storia, vale la pena richiamarla a grandi linee. Siamo nel 1995, nel cuore della terribile guerra nel corso della quale la autoproclamata repubblica serba di Bosnia attua una vera e propria pulizia etnica, con l'obiettivo di cancellare la presenza musulmana. I racconti di tutti convergono. Prima che altri interessi internazionali - tuttora molto evidenti nei Balcani - mettessero gli uni contro gli altri, si conviveva tranquillamente, se non in amicizia, almeno in reciproco rispetto. Poi la catastrofe. La direttiva del sedicente presidente Karadžic, fatta propria dal generale Mladič, determina la necessità di "liberare" le città di Zepa e Srebrenica dalla presenza musulmana. Nei giorni precedenti l'11 luglio la gente fugge e chiede rifugio presso un'ex fabbrica di batterie, sede del locale presidio delle Nazioni Unite a presidio della cittadina. Si tratta di migliaia di persone assiepate negli oscuri capannoni, unite nella speranza di evitare la strage programmata dalle milizie filoserbe. 

L'11 luglio è il giorno della vergogna, non soltanto per chi si è macchiato di un immenso crimine di guerra, ma anche per l'Europa che avrebbe dovuto vigilare e per le Nazioni Unite che in questo caso hanno toccato il punto più basso e meschino del loro impegno nei teatri di guerra. Si dividono le donne e i bambini, dagli uomini - ragazzi e adulti. Questi ultimi vengono fatti salire su camion e autobus, con i soldati UN olandesi che decidono incredibilmente di dare fiducia alle parole rassicuranti di Mladič e dei suoi collaboratori. Vengono trascinati lontano, portati tra la boscaglia che riempie le colline e le montagne circostanti e vengono uccisi, per lo più a fucilate, senza pietà. Una parte riesce a fuggire prima della deportazione, si forma una colonna di profughi spinti dalla disperazione, attaccati da ogni parte, che cerca di raggiungere Tuzla e le zone non controllate dai serbi. Solo poche decine di persone riescono a resistere nel corso di questa "marcia della morte", migliaia perdono la vita nei frequenti scontri armati oppure a causa della fame e del freddo provocati da una miseria estrema.

Tra Srebrenica e Bratunac, a circa cinque chilometri dall'uno e dall'altro centro, è stato eretto il memoriale della strage. Da una parte c'è un immenso cimitero, con le tombe allineate, sormontate da una lapide che annuncia che coloro che sono morti in Dio in realtà vivono per sempre. Al centro una piccola moschea all'aperto e diversi monumenti che ricordano al mondo ciò che è accaduto. Dall'altra c'è il grande capannone dove in un primo tempo tutta la popolazione era stata rinchiusa e dove sono ancora visibili gli automezzi con l'inequivocabile scritta delle Nazioni Unite. Il tutto è stato trasformato in un grande museo memoriale, dove è possibile ricostruire la storia di quei terribili giorni attraverso fotografie, documenti, filmati d'epoca e le toccanti testimonianze dei sopravvissuti. Man mano che ci si inoltra tra le tombe o tra gli spazi dell'antica sede di quelli che avrebbero dovuto tutelare la vita di migliaia di esseri umani inermi, il respiro si fa affannoso e si perde ogni desiderio di parlare. E' la stessa sensazione che si ha quando si visita ciò che resta della Risiera di san Sabba a Trieste o dei campi di sterminio nazisti. Pesa il pensiero che quel "mai più" che si ripete ritualmente ogni anno, nel ricordo del 27 gennaio 1945, in realtà è soltanto un modo di dire, da allora fino a oggi ci sono stati tanti altri massacri, anche nel cuore stesso di quell'Europa che continuiamo a definire faro di cultura, bellezza e civiltà.

Il sogno di una Jugoslavia, o meglio degli interi Balcani uniti nelle loro diversità, intuito e programmato a Jajce il 28 novembre 1943 naufraga sotto la spinta dei neonati nazionalismi e integralismi religiosi e svanisce per sempre nei boschi di Srebrenica, cinquanta anni dopo, l'11 luglio 1995.

E adesso? Il ragazzo che vende dei piccoli ricordi per non dimenticare la visita al memoriale, alla domanda se ci potrà essere pace, risponde senza esitare, indicando con la mano la distesa di candide tombe: "come potrei mai perdonare chi ci ha fatto tutto questo?". Nel paese vicino, sono affissi alle pareti i manifesti rigorosamente in cirillico che invitano a celebrare gioiosamente la "liberazione di Srebrenica", con accanto una foto di un Putin dallo sguardo particolarmente compiaciuto. D'altra parte a Bratunac Rada Zarkovič continua la sua impresa, mirtilli e lamponi coltivati e lavorati da donne ortodosse e musulmane che lavorano insieme e inviano in tutto il mondo i loro "frutti di pace". E la signora che sta filando una calza di lana, forse la madre del giovane di prima, spiega il simbolo stilizzato del dramma di Srebrenica: "le donne, vestite di bianco, colore delle spose e della vita, si uniscono e formano un cerchio. Con una mano nascosta si stringono fra loro, con l'altra toccano una bara verde, il colore della speranza. Siamo convinte che i nostri cari non siano morti invano, ma che il loro sangue sarà la base di una nuova Bosnia, nella quale nessuno dovrà più soffrire a causa della diversità di lingua, cultura o religione." 

Sì, le donne. Ancora una volta sono loro a riflettere un raggio di luce nelle tenebre della guerra, dell'odio e dell'esplosione di una violenza senza limiti.

Il ponte sulla Drina, ricordando Ivo e Radovan

 

Di solito, quando ci si aspetta molto da un luogo, quando lo si raggiunge si resta un po' delusi, la realtà a volte si presenta meno poetica dell'immaginazione.

Non è così per il ponte sulla Drina, la cui vista, ma soprattutto il cui attraversamento, suscita un'emozione straordinaria.

Sarà per essere stato quasi il punto di arrivo di un meraviglioso viaggio nei Balcani, sarà per aver dormito nella stanza utilizzata da Ivo Andrič per scrivere il suo capolavoro, sarà per tanti altri motivi, i nove archi rispecchiati nell'ampio fiume rimangono inevitabilmente impressi nella memoria.

Certo, la lettura del famoso libro aiuta a comprendere meglio il paesaggio, cominciando dal quasi manzoniano "fiume che esce dalla valle tenebrosa come dal nulla", per passare alla ricerca delle case antiche e delle rovine del caravanserraglio, fino a rivivere le gesta eroiche e tragiche dei vari protagonisti letteralmente dipinti con straordinario acume e straordinaria umanità.

Tuttavia camminando su quelle pietre levigate dal tempo, tentando di interpretare la lapide dedicatoria al "pasha" che l'ha voluto, sedendo sul "divano" insieme alla gente del luogo, non si può che pensare a quanto lo scrittore avrebbe potuto aggiungere, se avesse potuto continuare la sua opera. Oltre alla leggendaria costruzione, all'indescrivibile sorte del guastatore impalato, al passaggio degli eserciti dall'una all'altra sponda, agli eventi internazionali che si sono succeduti mentre il ponte continua a sovrastare il corso d'acqua, alla triste vicenda della promessa sposa che si getta tra i vortici dall'alto per sfuggire a una vita non desiderata, quante altre storie collettive e personali si sarebbero potute scrivere, dagli anni '50 in poi? Il ponte sulla Drina avrebbe visto consolidarsi il sogno federale della Jugoslavija di Tito, il suo dissolversi nella disgregazione degli anni '80, la tragedia delle guerre balcaniche e la frammentazione della Bosnia "a macchia di leopardo", l'avvio di una lenta e difficile ricostruzione della speranza, il nuovo isolamento con il covid, il timido rilancio di un turismo in questo caso culturale e letterario. Si potrebbe aggiungere anche cinematografico, visitando la "città di Andrič", una specie di Portopiccolo di Sistiana in salsa balcanica, voluto e finanziato dal regista Emil Kusturica.

Fatto sta che il "ponte" insegue il visitatore ovunque egli si muova, di giorno e di notte, offrendosi a scatti fotografici come una vamp dello spettacolo, parlando con le parole della storia mentre lo si percorre con un brivido di commozione, penetrando talmente dentro l'anima e l'animo da continuare a sopravvivere, molto tempo dopo aver lasciato la Bosnia, quando gli occhi si chiudono o quando l'inconscio genera sogni avvincenti e incubi paurosi, incastonati nel magico scenario delle sue armoniose arcate.

Sì, sono molti i luoghi simbolo di questo incredibile crocevia di popoli, culture, lingue, caratteri linguistici, religioni, ideologie che è la penisola balcanica. Ma difficilmente se ne può trovare una sintesi più eclatante rispetto al ponte di Višegrad, collegamento tra le sponde del fiume dell'essere, del collettivo e dell'individuale, della guerra e della pace, della capacità umana di costruire e di distruggere, della gioia e del dolore, della bellezza e dell'inquietudine. 

C'è anche lo spazio per un nome, per un incontro personale. Radovan offre il suo servizio, portare una borsa, custodire l'auto, indicare una trattoria nelle vicinanze. E' il custode dei bagni dell'unico albergo della zona, costruito proprio a poche decine di metri dal famoso ponte. Ha 64 anni, è stato gravemente ferito durante la guerra, a metà degli anni '90 e non può svolgere alcun lavoro pesante. Riceve una sessantina di marchi bosniaci (circa 30 euro) ogni mese, come pensione di invalidità. Sopravvive grazie alle mance degli utenti della "tualet" e con grandi sforzi è riuscito a far studiare i quattro figli, tutti diplomati e con un buon lavoro, tre a Belgrado e uno in Russia. Quando parla del ponte, gli occhi si inumidiscono, lo sente come proprio, da giovane è stato il trampolino dal quale si è gettato molte volte nel fiume gareggiando in coraggio con i suoi coetanei. Ha imparato a suonare la chitarra e la fisarmonica e spesso suona alle feste, dei bosniaci serbi e di quelli musulmani. Non odia nessuno, neppure chi gli ha sparato addosso, sente la guerra come un'assoluta assurdità. "L'obiettivo della mia vita è essere cordiale e volere bene a tutti coloro che incontro. Forse per questo tutti vogliono bene a me". Come tanti altri incontrati lungo la via delle ex repubbliche della Jugoslavia, ricorda con nostalgia il tempo in cui si era uniti e non c'erano confini, le persone religiose si rispettavano tra loro e non si combattevano e Tito aveva portato il Paese a una rilevanza internazionale ormai persa per sempre. Adesso la crisi economica, l'inettitudine politica e la corruzione hanno portato a una situazione nella quale "chi ha le gambe per camminare è costretto ad andare via" e le giovani generazioni hanno abbandonato definitivamente la città che oggi sopravvive solo grazie allo scarno turismo. La conclusione della chiacchierata con Radovan è molto "Andričiana": "Da centinaia d'anni il ponte è lì e ha visto migliaia di donne e uomini, amici e nemici, tutti convinti di essere molto importanti e di essere decisivi per le sorti del mondo. Poi sono morti e della quasi totalità di essi ci si è dimenticati. Oggi siamo noi, qui a parlare insieme della mia cittadina e della nostra Europa. Ce ne andremo come loro e il ponte sarà ancora lì a vegliare, stabile sui suoi nove pilastri e forte nell'affrontare le piene del fiume e della storia. Forse nessun altro al mondo lo saprà, ma rimarranno impressi nelle sue pietre anche i nostri sguardi odierni, la gioia di esserci incontrati e di aver potuto pronunciare la parola "amici".

giovedì 3 agosto 2023

Don Alessio Stasi, un prete, un uomo.

Vorrei dedicare n ricordo e un pensiero per don Alessio Stasi, che a soli 47 anni ha lasciato ieri questo mondo.

Il ricordo rigiarda la sua straordinaria umanità. Dotato di un'intelligenza vivace e profonda, si è dedicato agli studi storici con coraggio, consapevolezza e acume scientifico. I suoi numerosi testi e le appassionate e chiare conferenze testimoniano ampiamente questo importante aspetto della sua vita. Io desidero ricordare la sua forza interiore che ne ha fatto un ricercatore della verità e un vero amico di chiunque abbia saputo apprezzarne la delicatezza e la sempre leale e a volte pungente sincerità. Prima di diventare professore e accademico, è stato uno studente di teologia d'eccezione, capace di spaziare dalla teologia alla filosofia, dalla letteratura alle lingue moderne e antiche, riuscendo a mantenere sempre un'umiltà di fondo, abbastanza rara negli ambienti di studio e di impegno ecclesiale da lui frequentati. Il suo sorriso, simpatico e ironico, richiamava l'interlocutore a evitare ogni superficialità, con Alessio non ci si poteva fermare alle battute e alle enunciazioni generali. Occorreva sempre andare fino in fondo, rispondere alle domande che si sovrapponevano l'una all'altra, comprendere che dietro alle parole si nascondeva l'inavvicinabile senso della vita.

Il pensiero va a un uomo che ha impegnato tutta la sua vita nel confronto con il mistero di Dio e con la parola del Vangelo di Gesù. La sua è stata una fede inquieta e sofferta, sospesa tra la certezza di una conversione matura e la sistematicità del dubbio che deve caratterizzare l'uomo di scienza. In questo senso il suo impegno è stato indomito, non è riuscito mai ad accontentarsi di una lode accademica, di un incarico sacerdotale adeguato o degli effimeri entusiasmi della gente. Ha voluto essere fedele a Dio e a sé stesso, affrontando l'aspro cammino di chi non vuole scendere a compromessi in nessun ambito. 

Il suo ruolo è stato importante anche per la città di Gorizia, dove ha portato nella sua stessa parabola esistenziale le radici culturali slovene, italiane e friulane, cercando di offrire il proprio convinto e anche in questo caso sofferto contributo a quell'unità nella valorizzazione di ogni diversità che dovrebbe caratterizzare questo territorio.

Grazie per la tua testimonianza di vita, grazie per la forza interiore con la quale hai affrontato tanti momenti belli e tanti istanti difficili, grazie per la tua preziosa amicizia. E grazie per tanto altro...

mercoledì 2 agosto 2023

Gli inestricabili confini tra le religioni

 

La santa Trinità, Črnagora
Il cristianesimo ortodosso è molto diffuso nei Balcani, sospeso tra le influenze storiche serba, bulgara e greca.

In effetti, anche al viaggiatore più frettoloso, non può sfuggire la mescolanza religiosa, cupole e torri con croci a braccia uguali accanto a campanili sormontati da quelle latine e naturalmente, a un passo, moschee con alti minareti proiettati verso il cielo. Il canto del muezzin rincorre il suono delle campane e migliaia di candele di sego si consumano nelle apposite grate. Quando gli interessi economici dei potenti di turno favoriscono dialogo e reciproca se non stima almeno accettazione, questa diversità è piacevole e offre capolavori d'arte straordinari. Altrimenti i volti pacifici dei frequentatori dei luoghi sacri si riempiono di freddezza e odio, le parole dell'armonia cosmica si incanalano verso l'abisso dell'integralismo, della presunzione di essere gli unici depositari della Verità, della cancellazione dell'esistenza dell'altro. Intendiamoci, così accade ovunque, il leone di san Marco presenta il libro del vangelo aperto o chiuso a seconda del momento in cui viene costruito e collocato sui portali di torri e castelli. Tuttavia nei Balcani la storia sembra aver giocato a unire e a dividere, trasformando un'intera grande Regione dell'Europa in un permanente affascinante e drammatico confine tra persone, lingue, religioni e culture. Non è da dimenticare il ruolo dell'ateismo di Stato che nel XX secolo ha portato un ulteriore contributo, cercando in alcuni Paesi di estirpare le presenze religiose, uscendone sconfitto e ottenendo a lungo andare soltanto l'inasprirsi delle loro forme più chiuse e meno inclini al dialogo.

In ogni caso le chiese e i monasteri ortodossi sono veramente degli scrigni di bellezza. Il cristianesimo orientale sceglie una delle due vie presenti fin dall'inizio della storia della Chiesa. Se da una parte si privilegia il 'logos" dall'altra si sottolinea la forza dell'"eikon", cioè dell'immagine. Rigorosamente obbedienti alle norme emanate nel corso dei primi sette concili ecumenici, i pittori, soprattutto monaci, dipingono le tavole di legno e affrescano i muri delle chiese rappresentando le vite di Gesù, di Maria e dei santi. La luce sembra provenire dall'interno dei volti e dei corpi, quasi traboccasse da essi un raggio del sole divino. Ogni singolo particolare è denso di simboli, ogni tipologia di icona è di per sé stessa un piccolo (o anche grande) trattato di teologia. Le iconostasi, con la loro abbondanza di immagini dividono la parte riservata ai celebranti delle liturgie da quella dei fedeli che percepiscono questa distanza come un invito a rispettare il Mistero e ascoltano meravigliosi canti antichi in lingue ormai sconosciute, lasciandosi penetrare dallo sguardo profondo che scaturisce dagli occhi grandi incavati nei mille volti dipinti. Tanta gente entra con venerazione, anche nei luoghi più famosi il silenzio è impregnato della dolce cantilena delle anafore. Tutti si segnano unendo le dita in modo da comunicare la propria fede nella natura umana e divina di Gesù Cristo e nel dogma del Dio uno e trino. Si baciano le icone dei personaggi più amati, si onorano le tombe dei campioni che hanno dato la vita per la fede cristiana, i martiri e i fondatori di monastero e santuari, come pure, eh sì anche loro, i difensori dell'ortodossia che, come l'Arcangelo Michele, hanno indossato l'armatura e impugnato la spada.

Insomma, è un mondo avvincente che sembra dimostrare la tesi secondo la quale la pace nel mondo è una questione di priorità. Se vengono prima la Vita e la Persona, ogni identità individuale o collettiva genera meraviglie. Se invece prevale il senso di appartenenza a una cultura, a una fede religiosa o anche ideologica, l'esito è la volontà di sopraffazione e di distruzione, nel nome di interessi che altro non fanno che mascherare l'assolutismo dell'egoismo, della presunzione e della disumanità.