Entra in uso ufficiale la prossima domenica 29 novembre, prima di Avvento, la terza edizione del Messale Romano in lingua italiana. Si tratta del libro da utilizzare nelle celebrazioni eucaristiche della Chiesa cattolica nel corso dell'intero anno liturgico.
Se ne è parlato molto in questi giorni, soprattutto per alcune variazioni che incideranno sulla vita e sulle abitudini dei praticanti. Per chi non è abituato a frequentare queste problematiche, può sembrare qualcosa di molto lontano dalle vicissitudini quotidiane, soprattutto in questo periodo di grandi preoccupazioni planetarie. In realtà, la solennità dell'evento e il risalto mediatico invitano a qualche breve riflessione.
Prima di tutto, si tratta della classica montagna che partorisce il topolino. Chi si aspettava una maggior apertura alla creatività e alla necessità di contestualizzare le celebrazioni, resterà deluso. La maggior parte dei sacerdoti cattolici non alzerà lo sguardo dal libro, scrutando con attenzione le rubriche e inforcando gli occhiali per non rischiare di sbagliare le parole. Tutto ciò è molto lontano dalla spontaneità dell'ultima cena di Gesù con i suoi apostoli. Tra l'altro la traduzione italiana delle parole di Gesù sul pane ("Questo è il mio corpo, offerto per voi") rimane la stessa, nonostante le attese contrarie e mantiene la dizione "in sacrificio", a differenza di tutte le altre lingue, compreso addirittura l'originale latino. Si sottolinea quindi una visione sacrificale, a scapito dell'ovvia realtà conviviale della memoria ritualizzata della cena del Maestro con i in suoi amici.
A chi poi ritenesse giunta abbondantemente l'ora dell'apertura al sacerdozio femminile, non potrebbe certo bastare l'aggiunta delle sorelle nel novero di coloro ai quali chiedere, supplicando, di pregare il Signore nel confiteor. Anche in questo caso, il minuscolo adeguamento ai tempi rischia di sconfinare nel ridicolo quando ci si chiede perché, subito dopo, si invoca l'aiuto solo dei santi e non delle sante, mentre sembra non suscitare alcun problema continuare a proclamare la propria colpa, la propria colpa, la propria grandissima colpa, in una visione tutt'altro che irenica di un Dio Padre che sembra voler richiedere la totale umiliazione delle sue creature.
Discutibile è anche il cambiamento nella preghiera del Gloria, da "pace in terra agli uomini di buona volontà" a "amati dal Signore". Da una parte, nel contesto attuale, che si vorrebbe più ecumenico e interreligioso, è difficile comunque ipotizzare che ci siano uomini (e donne, stavolta non citate!!!) che non siano "amati dal Signore". Quindi forse la fedeltà al significato del termine greco ευδοκια orienterebbe a preferire la tradizionale e correttamente ambigua traduzione antica di Girolamo: uomini "di benevolenza". Se poi si tratti di benvolenti o benvoluti, questa è problematica teologica di non poco conto, sfiorando le bimillenarie controversie relative alla volontà di Dio e al libero arbitrio. L'utilizzo del verbo italiano "amare" - del tutto inesistente nello specifico testo di Luca (2,14) - è sicuramente più dolce e attraente, ma anche meno complesso e meno drammaticamente equivoco rispetto alla "buona volontà". Di chi, appunto?
Si affronti ora il passaggio più importante, perché in grado di correggere la stupenda preghiera, ripetuta da milioni di cattolici italiani fin dalla prima infanzia. Il Padre Nostro, proposto da Gesù ai suoi discepoli e riportato in due diverse edizioni - giunte a noi in lingua greca - dagli evangelisti Matteo (5,9-13) e Luca (11,2-4). Finora, per la verità di solito senza pensarci su molto, verso la fine si è detto "non indurci in tentazione ma liberaci dal male". Effettivamente la locuzione, in italiano, non è felice e sembrerebbe attribuire al Padre una volontà di sollecitare verso la tentazione, quasi a godere della sua eventuale caduta. Ora il messale sostituisce con "non abbandonarci alla tentazione". Così posta, la traduzione del verbo αναγγαζω e del sostantivo πειρασμον diventa almeno dubbia. L'azione descritta non ha nulla a che fare con l'"abbandonare", bensì con lo "sforzare". E il sostantivo diventa più chiaro se al posto del molto connotato "tentazione" inseriamo il più letterale "prova". Inoltre, chiedere al Padre che non ci abbandoni "alla" tentazione potrebbe dare l'impressione di una personalizzazione di quest'ultima, quasi che essa sia in agguato, pronta a saltarci addosso per metterci in difficoltà. Volendo superare l'impatto indubbiamente negativo dell'induzione al male, forse sarebbe stato meglio tradurre letteralmente o semplicemente offrire una spiegazione più efficace. "Non ci sforzare nella prova!" sarebbe un'invocazione più comprensibile, evidenziando la debolezza umana in alcuni frangenti, non necessariamente peccaminosi, della vita, come per esempio una malattia, un momento di depressione o di fatica. Certo, in queste situazioni, per un credente avrebbe un senso chiedere di essere accompagnato dal Padre nella sofferenza e di essere liberato non tanto dal "male" - concetto ampio che coinvolge sia la volontarietà che la non volontarietà - bensì da una più probabile "cattiveria" o "malvagità", dipendente dalle scelte umane e non da un ente metafisico astratto.
In conclusione, ancora una volta le buone intenzioni si scontrano con la realtà. Questi discutibili cambiamenti daranno forza alle accuse dei "tradizionalisti" e non soddisferanno certo le attese dei "progressisti". C'è bisogno di un cambio di passo reale, fondato sulla fedeltà evangelica e su un'attenta interpretazione dei tempi. Non esiste motivo per esitare ancora nella reinterpretazione del ruolo presbiterale, da liberare dalla dimensione sacrale o addirittura "essenziale" e da condividere ovviamente anche con le donne. Non c'è motivo di insistere sulla strada del celibato obbligatorio, più legata a squallide motivazioni economiche ed ereditarie che a problematiche di ordine disciplinare. Occorre adeguare da subito i rituali dei sacramenti, concordandoli con le altre confessioni cristiane, aprendo la strada anche al matrimonio omosessuale. Almeno il primo piccolo passo, quello della condivisione eucaristica con chi è divorziato risposato, sia riconosciuto senza ulteriori prolungamenti, la "comunione" è un dono, non un diritto da acquisire.