mercoledì 28 febbraio 2024

L'Orsigna, Tiziano Terzani, la pace e la politica...

La strada Porrettana congiunge Pistoia con Bologna, valicando l'Appennino Tosco Emiliano all'altezza del Passo della Collina. Segue poi la stretta valle del fiume Reno. Qualche chilometro prima di Ponte della Vetturina, si dipana sulla sinistra una stretta strada che tra curve e tornanti consente di raggiungere in sicurezza il pittoresco abitato di Orsigna. Oltre l'agglomerato di case, si continua a salire, si passa accanto alla casa di Tiziano Terzani e si prosegue fino a dove finisce la carreggiabile. Venti minuti di cammino nel bosco e si arriva all'albero con gli occhi, una sorta di santuario tra il buddista e il laico, venutosi a creare nel tempo nei pressi dell'albero sotto il quale il grande giornalista amava soffermarsi e meditare. Ci sono tanti segni di una forte presenza spirituale che emana dalla natura, ma anche dalle pietre, dalle bandierine simili a quelle che si vedono nelle foto delle spedizioni alpinistiche nel Nepal. sono come ex voto che raccolgono le ansie, le speranze, i dubbi e le certezze di migliaia di persone che sono arrivate fino quassù, sulle orme di un uomo la cui religione fondamentale è sempre stata quella della concordia e della pace fra i popoli.

Ed è proprio pensando a Tiziano Terzani che sotto l'albero con gli occhi abbiamo collocato anche noi la nostra piccola pietra simbolica, con la speranza di raccogliere il suo testimone e di essere sempre, almeno più possibile, costruttori di pace. E questo è possibile se si è capaci, proprio come diceva Terzani, di ascoltare le ragioni dell'altro. Il che non significa condividerle, ma porre le basi per chiedersi se abbia un senso un intervento violento, a livello personale o internazionale, al fine di risolvere una determinata questione. Quanto questo sia facile a parole, ma difficile in realtà, lo si sperimenta ogni giorno, quando si invoca la pace partecipando a manifestazioni e a gesti eclatanti di protesta e poi non si è capaci di superare neppure le piccole incomprensioni quotidiane, vanificando di fatto la richiesta ai governanti di cessare il fuoco e di sedersi al tavolo della trattativa.

E allora? Allora la strada da seguire implica un impegno, da una parte personale, dall'altra collettivo. Dal punto di vista individuale, è logico che in un tempo drammatico come l'attuale occorre un soprassalto di responsabilità. E' necessario cioè che nel piccolo contesto dell'ordinario scorrere della vita, si ribaltino situazioni incancrenite, si riaprono percorsi di dialogo precedentemente bloccati, si percorrano con nuova convinzione sentieri interrotti. Dal punto di vista collettivo, mai come ora è necessario credere nell'autentica Politica.

Cosa significa ciò? Significa che se accettiamo le attuali regole della democrazia, qualcuno deve prendere su di sé la croce e incamminarsi anche sulla via della rappresentanza. La democrazia - almeno come determinata dal dettato costituzionale - implica da una parte la partecipazione assembleare alla costruzione della società, dall'altra l'accettazione della regola della dimensione elettiva. Tutti possono fare pressione culturale e sociale per ottenere ciò che si ritiene giusto, ma è necessario anche eleggere i rappresentanti del popolo, in modo che essi portino negli spazi governativi e amministrativi le idee e le posizioni di chi li sceglie. Tra l'altro è questa l'etimologia della stessa parola "deputati".

Se si è convinti delle proprie concezioni del mondo, occorre esprimerle in forma partecipata e assembleare, ma anche in quella determinata dalla rappresentanza. Per esempio, se la mia idea di società è internazionalista e ritiene che le armi siano lo strumento principe per affermare le ragioni del Capitale, è giusto che io manifesti per far sapere al Governo di turno il mio disaccordo nei confronti di chi ritiene giusto produrre e vendere armi o inviarle in zone di guerra. Ma se le regole democratiche affidano a chi la pensa diversamente da me di avere una maggioranza che consente di decidere, il modo per cambiare le cose non dipende tanto dal mio costante scandalizzarmi, quanto dalla decisione di mettersi a disposizione del proprio gruppo di pressione culturale, presentandosi al giudizio degli elettori. Lo stesso vale, sempre in termini esemplificativi, per l'accoglienza dei migranti. Se sono convinto dell'umana fraternità o sororità universale, è logico che rifiuterò qualsiasi forma di rifiuto, di respingimento e di maltrattamento, mentre al contrario proporrà accoglienza, condivisione e sostegno. Ma perché la legislazione possa trasformare il mio pensiero in regola valida per tutti, devo cercare di vincere le elezioni. Insomma la concretizzazione della mia istanza morale passa attraverso la straordinaria fragilità della ricerca del consenso elettorale, con tutti i limiti tecnici e mediatici che influenzano in modo determinante un'opinione pubblica ben poco avvezza alla lettura e all'approfondimento.

C'è un'alternativa a tutto questo? Mah, è difficile dirlo. Tuttavia l'evidente spaventosa crisi della democrazia rappresentativa pone una questione decisiva: la situazione è questa per il deterioramento delle istituzioni o per un livellamento in peggio della cosiddetta classe politica oppure è l'inevitabile punto di non ritorno del sistema capitalista? Se la risposta è questa seconda, il problema diventa ben complesso. Come uscire dal capitalismo? Come immaginare e soprattutto realizzare un sistema alternativo? Per arrivarci, si può individuare un metodo che consenta una transizione abbastanza sostenibile e nonviolenta oppure c'è la necessità di agire una vera e propria rivoluzione? E' inevitabile il passaggio attraverso la morte per addivenire alla risurrezione, ben sapendo che lo sprofondamento nella guerra globale nel tempo della bomba atomica potrebbe portare alla stessa cancellazione della Vita sulla Terra?

Insomma, l'insoddisfazione del momento induce a meditare e il pensare deve portare all'azione, in modo concatenato e consequenziale. E' certo che non basti più il rituale stracciamento di vesti e l'indicazione del "mandante" di turno. Occorre piuttosto innestare la marcia e procedere spediti, affinché le proprie istanze non siano sistematicamente mortificate da rappresentanti che non rappresentano, ma che possano incidere sul cambiamento della società. Manifestando pubblicamente, anche correndo il rischio di essere ripagati con qualche manganellata o anche peggio. E gettandosi a capofitto nell'agone della politica rappresentativa. 

lunedì 26 febbraio 2024

Viaggio al Focardo

La dolcezza delle colline toscane è conosciuta in tutto il mondo. E' stato molto emozionante immergersi in esse, alla ricerca di una maggior comprensione degli eventi accaduti il 3 agosto 1944.

Il Comune è quello di Rignano sull'Arno, la frazione è quella di Troghi e l'agglomerato di case che interessa questa storia si chiama Il Focardo. Qualcuno ha pensato di allestire un piccolo "cammino", cinque chilometri in tutto, per contemplare la bellezza dei luoghi e per meditare sul mistero dell'umana crudeltà.

Si comincia dal piccolo cimitero della Badiuzza. C'ero già stato altre volte, la prima nel 1974, avevo 14 anni ed erano ancora presenti alcuni dei protagonisti della vicenda. In questo caso non ho potuto trattenere un moto di commozione. Rispetto al passato, il cimitero ha due ospiti in più, le seconde cugine Paola e Lorenza Mazzetti, scomparse nel 2020 e nel 2021. Sono le gemelle, originali e piene di creatività, che in tutta la loro esistenza hanno sublimato la tragedia, trasformandola in opera d'arte, il libro Il cielo cade, le frequenti regie cinematografiche, le mostre di pittura e di fotografia. Erano state quasi adottate dalla famiglia Einstein, Robert e Nina Mazzetti, hanno condiviso i momenti di terrore e la disperazione della separazione violenta dalle zia e dalle altre cugine, Luce e Cici. hanno trascorso una vita intera a rielaborare e a ricostruire, non soltanto per sé stesse ma anche per aiutare tante persone a superare la tentazione della vendetta, a far vincere il perdono, a costruire sempre una nuova possibilità. Mi è dispiaciuto averle conosciute solo negli ultimi anni, ma quanto entusiasmo hanno saputo suscitare in me, con la loro irresistibile simpatia e la travolgente semplicità e saggezza!

Il monumento è sempre lì, edificato almeno quaranta anni dopo gli eventi, slanciato verso l'alto come una fredda protesta verso il Cielo. Per un istante si scostano le nubi e un raggio di sole colpisce pietoso il ferro. Sotto da una parte riposano Nina Mazzetti, Anna Maria detta Cici e Luce Einstein, uccise senza pietà dai tedeschi che stavano per essere cacciati dagli Alleati. Cercavano Robert, volevano rapirlo per ricattare il cugino Albert in America. Ma Albert non era nella villa, si trovava con i partigiani nei boschi. Nina gridava: Robert vieni, vogliono ucciderci tutti! Ma Robert non aveva sentito e i suoi compagni di lotta lo avevano trattenuto, forse convinto che nessuno avrebbe fatto del male. E invece no, il soldato che separava le une, inviate a nascondersi nella stanza alta e le altre, trascinate nella sala rossa. Poi solo gli spari, e poi la fuga, il fuoco, i contadini pietosi che si prendevano cura della zia Seba, di Paola, di Lorenza, di Anna Maria che poi è mia madre. La corsa nei boschi e da lontano, il bagliore dell'incendio. Poi il ritorno di Robert, la muta disperazione, forse un ingiustificato senso di colpa. Robert Einstein, l'ingegnere, vende i suoi beni, sistema il futuro delle gemelle, scrive parole profonde a ogni persona cara e decide di chiudere la parentesi della sua vita. E chiede di stare lì per sempre, accanto alla moglie e alle figlie, diciassette e ventisei anni.

Il cammino riprende. Si passa vicino a laghetti intorno ai quali d'estate pascola il bestiame, si vedono cancelli che introducono a ville sontuose, si sente ovunque l'abbaiare dei cani e dopo un po' si arriva al Focardo. C'è la casa del Peppone, il capo dei contadini che aveva accolto per primo i fuggiaschi dalla casa in fiamme. Lo ricordo cinquanta anni fa, alto, solenne, alle lacrime nel riconoscere mia madre, detta "La Picchia". ora ovviamente non c'è più, ma la figlia abita ancora la stessa casa e c'è il tempo per un breve, fuggevole saluto. E ora la casa, bellissima, dei miei prozii, Nina, sorella di mia nonna Ada e Robert Einstein. Per un varco si riesce a entrare nel giardino, sembra di sentire le risate, le ampie discussioni, di vedere arrivare ospiti illustri. Poi cala soprattutto un silenzio strano, il posto è intriso di un dolore che permane, quasi incollato alle pareti, alle finestre chiuse dai pesanti serramenti. E' una sofferenza immensa, il rumore degli spari, l'odore del sangue, il componimento dei corpi straziati. Ma è come se fosse rimasto lì, una parte penetrata in Robert fino al gesto estremo, una parte prigioniera del Focardo. Ha lasciato liberi tutti gli altri, ciascuno a suo modo, di vivere una vita piena di intensità, di umanità. c'è il tempo per sbirciare un stanza, quasi una cantina con le finestre rotte. 

Dentro ci sono dei disegni, sembrano quasi messaggi pompeiani. La mano è forse di Paola o di Lorenza, a un grazioso uccellino può darsi che abbia collaborato anche mia madre. Sono sprazzi di luce, memoria di un tempo di grande gioia, stroncata da una sparatoria, una manciata di giorni prima della "Liberazione". Ma sanno suscitare anche adesso un sorriso. E permettono di uscire dalla villa, sorprendentemente, con nel cuore un'improvvisa sensazione di Speranza.

Basta uno sguardo, tra i presenti, per capirsi al volo. L'emozione lascia spazio alla gioia dello stare insieme. La vita è bella e vale la pena di essere vissuta. Chi l'ha persa così drammaticamente non soffoca, con una falsa idea di ricordo, la possibilità di continuare a sorridere. Al contrario, il ricordo, lungi dal suscitare l'odio, si trasforma in impegno. E in un abbraccio di pace.

lunedì 19 febbraio 2024

Aquileia e l'Europa, un contributo a Nova Gorica con Gorizia, "capitale europea della Cultura 2025"

Anche quest'anno l'Università della Terza Età di Cervignano del Friuli propone un cassai interessante corso gratuito, aperto a tutta la cittadinanza, dedicato alla storia di Aquileia. Si svolgerà ordinariamente ogni MERCOLEDI', dalle 15.30 alle 17, presso la SALA CONSILIARE del Comune di AQUILEIA

Il tema di questa edizione è particolarmente avvincente. Si affronterà la realtà di "Aquileia e il mondo patriarcale nel medioevo", con alcuni approfondimenti particolarmente utili per comprendere l'eredità europea della storia aquileiese e le radici profonde della Capitale europea della Cultura 2025, Nova Gorica con Gorizia.

Si inizierà con l'archeologo Luca Villa che parlerà del ruolo del Patriarcato nel mondo tardoantico e altomedievale. La sua riflessione - particolarmente raccomandata in vista degli eventi del 2025 - sarà completata dall'intervento del direttore della So.Co,B.A. (cioè il sottoscritto), sul rapporto tra collocazione storico geografica e origini della cristianizzazione del mondo sloveno, in rapporto alla storia di Aquileia. La professoressa Silvia Blason spiegherà il ruolo del patriarca Poppone "uomo europeo", mentre l'esperta Elena Menon introdurrà il tema del pellegrinaggio ad Aquileia. Con Marino Del Piccolo, in un'uscita straordinaria presso l'hospitale di San Giovanni a san Tomaso di Majano, si parlerà degli hospitali e dei ricoveri per i pellegrini medievali. Seguirà un approfondimento relativo soprattutto al Cammino di Santiago, di nuovo da parte di Silvia Blason, del Gruppo Archeologico Aquileiese, con un breve riferimento al Cammino di San Martino, da parte di Marino Del Piccolo. L'ultimo incontro in loco si svolgerà presso il Museo Paleocristiano e sarà curato dall'archeologa Marta Novello, direttrice del Museo Archeologico Nazionale. Alla fine del corso, il 10 aprile, è prevista una visita di studio ai laghi di Bled e Bohinj, sulle orme dei leggendari Bogomila e Črtomir, protagonisti del Krst pri Savici, battesimo presso le sorgenti della Sava, il noto poema del grande poeta sloveno France Prešeren.

Per qualsiasi informazione, ci si può rivolgere alla segreteria dell'UTE di Cervignano (tel. 0431-34477).

domenica 18 febbraio 2024

In ricordo di Johan Galtung (1930-2024), costruttore di pace

Il giorno 17 febbraio 2024 ha lasciato questo mondo Johan Galtung, uno scienziato dedicato alla costruzione della pace, in tutto il mondo. Per gentile disponibilità dell'autore, si pubblica qua un intenso e profondo ricordo, tracciato da Gianmarco Pisa, grande esperto di tematiche corrispondenti, in particolare di corpi civili di pace europei. Galtung è stato diverse volte a Gorizia, l'ultima nel 2008, in un periodo particolarmente attivo, grazie all'impegno della Provincia di Gorizia con Marko Marinčič, Silvano Buttignon, Paolo Zuliani e tanti altri, come pure della Regione Friuli-Venezia Giulia con Roberto Antonaz, Michele Negro, Gianfranco Schiavone, Francesca Tessaro, Alessandro Capuzzo e collaboratori. Mi scuso con chi non ho nominato, è solo per ricordare un tempo fecondo da far rivivere, nei nuovi attuali contesti locali e globali. Il testo è un po' lungo, ma assicuro che vale la pena affrontarlo nella sua interezza.

Johan Galtung (24 ottobre 1930 - 17 febbraio 2024).

Con la scomparsa di Johan Galtung, l’intera comunità degli uomini e delle donne amanti della pace, e della «pace con giustizia», e al suo interno la comunità, di elaborazione e di pratiche, degli operatori e delle operatrici di pace, a tutte le latitudini, è, da oggi, più sola. Se ne va una figura essenziale, seminale, un imprescindibile, della modalità con la quale guardiamo (e interpretiamo) i conflitti, micro, meso, macro, persino mega, come talvolta amava richiamare, e della modalità con la quale interveniamo (e trasformiamo) nei conflitti, alimentando, sul sentiero della ricerca e dell’azione da lui tracciato, la speranza del “trascendimento”.

Nato a Oslo nel 1930, dottore di ricerca in matematica (1956) e in sociologia (1957), è stato docente di Scienze per la pace ed esperto nella mediazione e risoluzione dei conflitti. È il creatore del Metodo Transcend per il trascendimento dei conflitti e il fondatore della Rete Transcend per la pace, lo sviluppo e l’ambiente, nonché, precedentemente, dell’Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace di Oslo (1959) e del Journal of Peace Research (1964). Ha insegnato in numerose università in tutto il mondo, ad esempio ad Oslo, Berlino, Parigi, a Santiago del Cile, a Buenos Aires, ma anche a Princeton, alle Hawaii, e ad Alicante. È stato professore onorario alla Freie Universität di Berlino (1984-1993), dal 1993 professore illustre di Studi sulla pace alla Università delle Hawaii e dal 2005 illustre “visiting professor” presso la John Perkins University.

Il suo impegno si è svolto sia nel campo della ricerca sia nell’ambito della mediazione e della risoluzione dei conflitti. Sono oltre 150 i conflitti, sia di carattere internazionale, sia di ambito sociale, in cui è stato impegnato. È autore di 96 libri e di oltre 1700 tra articoli e capitoli. Tra i vari riconoscimenti, ha conseguito nel 1987 il «Right Livelihood Award», il Nobel per la Pace alternativo e, tra i più recenti, il titolo di laurea honoris causa in scienze politiche presso la Universidad Complutense di Madrid (2017). Importantissima, d’altro canto, anche la sua frequentazione italiana: indimenticabile la lectio magistralis da lui tenuta al convegno del Centro Studi SOUQ del 13 dicembre 2013, nell’Aula magna dell’Università degli Studi di Milano; non meno indimenticabile la sua lectio magistralis (“Necessità e importanza di un Centro per la prevenzione dei conflitti armati”) in occasione del Convegno nazionale su “La prevenzione dei conflitti armati e la formazione dei corpi civili di pace”, tenuto a Vicenza il 3-5 giugno 2011 e che rappresentò un contributo decisivo per rilanciare il percorso per la costruzione dei corpi civili di pace e per riaffermare l’importanza cruciale della formazione degli operatori e delle operatrici. Fu, al tempo stesso, un vero e proprio incontro di pace e di cittadinanza.  

Con lui se ne va la figura, sia consentita una simile digressione, di un vero e proprio “rivoluzionario”: per le sue teorie, profonde e innovative, riguardanti l’analisi “sul” conflitto e l’intervento “nel” conflitto, e in quanto fonte di ispirazione nei vasti campi della costruzione della pace. Il suo contributo sull’importanza determinante, retroagente, degli orientamenti culturali (attitudes) e delle contraddizioni strutturali (contradictions) nella dinamica dei conflitti; la sua interpretazione del conflitto come manifestazione di “incompatibilità” causate dall’azione di «culture profonde» e «strutture profonde»; il suo approccio, olistico e razionale, alla dinamica del conflitto e alla costruzione della pace, restano contributi decisivi sui quali si fonda una moderna ricerca per la pace, e a partire dai quali occorre impostare una coerente iniziativa di trasformazione e di trascendimento.

Tanto è arduo sintetizzare in poche righe il contributo di Galtung alla ricerca e alla prassi della costruzione della pace, quanto è impensabile tacere di altri suoi contributi, per alcuni versi più specifici, per altri più generali, della sua elaborazione intellettuale, della sua ricerca concreta. Nessun operatore o operatrice di pace potrebbe oggi fare a meno degli elementi fondamentali indicati da Galtung per il lavoro di pace: empatia, nonviolenza, creatività. La creatività (innovazione) concepita come «la capacità di andare oltre le cornici mentali delle parti in conflitto, aprendo la strada a nuove modalità di concepire la relazione sociale». L’empatia (sentire insieme) intesa come «la capacità di una comprensione profonda ... dell’Altro». La nonviolenza, in definitiva, come «la duplice capacità di resistere alla tentazione di affidarsi alla violenza e di proporre soluzioni nonviolente concrete». Questa capacità agisce sia ai fini della risoluzione del conflitto, sia nella prevenzione della violenza.

Attraverso questa filigrana, si legge un altro contributo imprescindibile ispirato da Galtung per il lavoro di tutti gli attivisti e le attiviste e di tutti i sinceri amanti della «pace con giustizia», un contributo cui l’intera, vasta e plurale, comunità di Pressenza, mai potrebbe restare indifferente: il “giornalismo di pace”. «Per parlare di giornalismo di pace, bisogna parlare di pace. Per parlare di pace, bisogna parlare di conflitti e della loro risoluzione. Per parlare di risoluzione dei conflitti, bisogna parlare del profondo coinvolgimento degli Stati Uniti in molti conflitti globali. Il ruolo del giornalismo non è solo quello di raccontare il mondo, ma anche di rendere gli attori chiave - Stati, capitali, persone - trasparenti gli uni agli altri. Il ruolo del giornalismo di pace è quello di identificare le forze e le controforze a favore e contro la pace e di renderle visibili con la loro dialettica, creando risultati che potrebbero rappresentare potenziali soluzioni» (Galtung, 2015).

Ci lascia un patrimonio, di ricerche e di pratiche, vastissimo per quantità e inestimabile per qualità. Il suo Metodo Transcend è stato tradotto in italiano grazie al prezioso lavoro degli amici e delle amiche del Centro Studi Sereno Regis (Torino, 2006); il Centro Gandhi ha pubblicato il saggio Alla scoperta di Galtung (Pisa, 2017); l’Università di Pisa il suo Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare (Pisa, 2014). Se ne va un grande costruttore di pace; resta il suo messaggio prospettico, profondo, di nonviolenza, di pace e di giustizia. 


venerdì 16 febbraio 2024

I racconti del pellegrino Jorge

"Stancarsi, bagnarsi, avere freddo, avere tagli sulla pelle, stare per strada e non disperare. Ridi di ogni situazione strana e difficile. Divertiti sotto la pioggia. Cerca, aspetta, trova. Parla con tante persone. Essere luce, essere presente, essere il messaggio, essere un cammino per gli altri".

A pensarci bene, è un meraviglioso programma per ogni umana esistenza. ma in questo caso sono le parole di Jorge, un pellegrino di 32 anni che è partito dalla sua abitazione, nel sud della Spagna e sta andando a piedi verso Gerusalemme.

Oggi è passato per Aquileia, dove si è fermato per contemplare le meraviglie dell'antica città e per una breve visita alla straordinaria Basilica. E' rimasto molto colpito dalla bellezza dell'arte e dalla forza della spiritualità che sgorgano da ogni frammento della chiesa. E ha raccontato volentieri la sua esperienza.

Ha raccolto un testimone da un familiare che non c'è più e avrebbe desiderato raggiungere questo obiettivo esistenziale. Si è sentito un po' oppresso dalla comodità di una società che offre ogni risposta alle domande materiali, ma che non sa favorire un approfondimento della dimensione spirituale e della conoscenza dell'altro. E si è messo in cammino, lasciandosi alle spalle relazioni affettive, esigenze del lavoro, preoccupazioni per il futuro. La sua casa è uno zaino contenente l'essenziale, le finanze consistono nella fiducia - assai ben ripagata, a sentire i suoi racconti - nella Provvidenza che porta il volto di tante persone incontrate lungo il percorso. A chi lo ospita, regala in cambio la sua simpatia, il suo sorriso e la sua interessante e profonda parola.

Ha voluto soffermarsi sulla riproduzione del Santo Sepolcro dell'XI secolo, sentendosi in qualche modo compartecipe del viandante Gisulfo che mille anni fa aveva seguito la stessa intuizione e si era diretto verso la Città Santa. Si affronta la fatica di una lunga strada, ci si imbatte in mille complesse o piacevoli avventure, si impara la pazienza di mesi e mesi scanditi dai passi, si tengono gli occhi aperti per contemplare il Mistero della Natura e dell'Uomo. La meta del più importante pellegrinaggio cristiano è paradossale. Se ogni altro "cammino" conduce in luoghi in cui si può venerare "ciò che resta (in latino reliquia)" di qualche personaggio che ha vissuto santamente o ha sperimentato l'incontro con il Maestro, quello in Terra Santa trova il suo pieno significato in un luogo in cui non c'è niente, un sepolcro vuoto dal "primo giorno dopo il sabato" di quasi duemila anni fa.

Dopo la breve sosta ad Aquileia, è ripartito, con lo zaino pesante, con il bastone in mano, con una gioiosa risata contagiosa, verso San Canzian d'Isonzo e poi verso la Slovenia, la Croazia, la Bosnia, il Montenegro, l'Albania, la Macedonia, la Grecia, la Turchia, il Libano e poi finalmente Gerusalemme.

"Ma perché fai tutto questo, non hai paura nell'andare così, tutto solo?" 

"Non mi pongo questa domanda, vivo ogni istante con intensità, mi sto abituando a vivere il presente. Per esempio, in questo istante, mi fa piacere parlare con te. A  tutto il resto penserò quando sarà il momento."

"Porti un grande messaggio, una vera alternativa alla civitas dei consumi che ci vuole soffocare."

"Non porto un particolare messaggio, ma mi rendo conto di essere io stesso il messaggio. Molte persone che mi incontrano mi scrivono successivamente per dirmi che quei minuti trascorsi insieme sono stati importanti, hanno in qualche modo risposto a domande impellenti che si ponevano nell'ordinarietà della loro vita."

Anche il nostro incontro è stato bello e mi ha lasciato nel cuore un senso di autentica pace. Grazie, pellegrino Jorge e buon Cammino!

lunedì 12 febbraio 2024

Il "ricordo", fra ragione e sentimento

Ricordo delle torture degli antifascisti, carceri di Gorizia 
In questi giorni si è parlato molto di memorie e di ricordi. E se, come qualcuno dice, questi fossero ancora vissuti come momenti nei quali si  rende di nuovo vivo e presente ciò che è accaduto, sarebbe onesto riconoscere l'impossibilità di una "memoria condivisa". Anzi, la memoria non potrebbe altro che essere sempre "divisiva", in quanto le emozioni e i sentimenti delle persone coinvolte determinerebbero - come di fatto accade - l'inevitabile unilateralità dei punti di vista.

Non c'è da farsi illusioni, le "giornate" non potranno fare altro che rinfocolare le polemiche, almeno fino a quando coinvolgeranno la sfera emotiva di chi le celebrerà. C'è anche da dire che, nel momento in cui ciò non accadesse più, esse si trasformerebbero in riti formali, incapaci di mobilitare la testa e il cuore. E' un po' il caso della "Memoria" del 27 gennaio, ridotta a un'ossessiva ripetizione di un "mai più" al quale - guardando come va il mondo - ci si crede sempre meno. 

Come fare allora per rivalutare il senso di un'autentica ricerca storica che possa consentire la ricostruzione dell'intero contesto del XX secolo, all'interno del quale si sono svolti gli avvenimenti dei quali ci si vuole ricordare o fare memoria?

Il primo passo è assumere il metodo storico che necessariamente, se correttamente applicato, è per definizione svincolato dal coinvolgimento emotivo. Da una corretta e approfondita analisi dovrebbero emergere dati rigorosamente documentati e sguardi d'insieme in grado di evitare l'isolamento di alcuni particolari a danno del contesto complessivo. Per esempio, non si può studiare la prima guerra mondiale senza approfondire le conseguenze dei Trattati di Pace. Ricostruendo il ventennio del fascismo, non ci si può dimenticare delle persecuzioni e vessazioni subite dal popolo sloveno. E ponendo la lente sulla seconda guerra mondiale, è necessario ribadire le colpe oggettive di chi questo terribile conflitto lo ha voluto e sostenuto, cioè Hitler e il nazismo tedesco con Mussolini e il fascismo italiano. Quando si parla di foibe, occorre ricordare tutte le vittime di guerra - di tutte le parti coinvolte nel conflitto, a triste dimostrazione dell'inesistenza di una caratterizzazione etnica - che tra il 1943 e il 1945 hanno avuto la sventura di trovare in esse la loro tomba. Come poi non collegare agli eventi del maggio 1945 - non certo come giustificazione individuale, ma come spiegazione e giudizio storico - le "imprese" della Decima Mas durante l'occupazione nazi-fascista della Slovenia, i processi sommari, le fucilazioni, i paesi bruciati e la deportazione di donne e bambini sloveni nei campi di concentramento controllati dagli italiani? E pensando alla scelta di andarsene di migliaia di esuli "optanti" dopo gli Accordi di Parigi del 10 febbraio 1947, è inevitabile porsi anche dalla parte degli interlocutori che in quello stesso giorno potrebbero festeggiare la definitiva liberazione ufficiale della loro terra slovena, ingiustamente occupata dagli italiani sulla base del Trattato di Rapallo del 1920. 

Questa analisi, in termini sintetici ma coinvolgenti, è già stata avviata, con il documento pubblicato nell'anno 2000 dalla Commissione Mista di storici sloveni e italiani, costituita a livello delle due Nazioni nel 1993, più di 30 anni fa. Molte serie ricerche storiografiche, radicate in quel fondamentale testo, hanno permesso successivamente di scoprire nuovi elementi e di evidenziare la fondatezza o meno di precedenti ricostruzioni, riguardanti i luoghi, i tempi, i numeri relativi alla reale consistenza dei fenomeni legati all'immediato dopoguerra. 

La celebrazione della "Capitale europea della Cultura" può essere l'occasione per superare l'inevitabile scontro emotivo che caratterizza ogni passaggio del 10 febbraio? 

Lo può essere eccome, se si fugge da due tentazioni, entrambe venefiche. La prima è quella di evitare di affrontare l'argomento, proprio perché si sa in partenza quanto sia "divisivo": parliamo solo di ciò che ci unisce, lasciamo perdere ciò che ci divide. Invece l'appuntamento del 2025 è proprio quello giusto per rispolverare il Documento del 2000 - purtroppo sostanzialmente dimenticato come punto di partenza - e sulla sua base riprendere un dialogo intenso, attraverso conferenze di storici documentati, presentazione e pubblicazione di dati e di solide ricerche, approfondimento di fatti e di antefatti.

La seconda è quella, apparentemente innocua ma in realtà pericolosa, di equiparare tutto, in nome di un malinteso umanitarismo. Ciò si è verificato nel passato attraverso la dolce espressione della "riconciliazione delle memorie". Si è inteso con ciò affermare la dignità di ogni essere umano, il giusto pensiero di pietà per ogni caduto, il rispetto profondo per il dolore di ogni familiare che piange i propri morti, senza avere spesso neppure una tomba sulla quale versare le lacrime. Ma non andando oltre al livello emotivo riguardante i casi individuali, si è rischiato di cancellare il giudizio storico, equiparando le vittime e i carnefici, i liberatori e gli oppressori, quelli che hanno combattuto dalla parte giusta e quelli dall'ingiusta. 

Oppure - è il caso di questi giorni - si assiste a un processo di deresponsabilizzazione che in nome degli attuali buoni rapporti tra gli Stati confinanti, paradossalmente riconosce come colpevoli degli eventi connessi alla guerra nazi-fascista coloro che hanno contribuito in modo decisivo a portare alla conclusione tale conflitto e a cancellare dalla storia quelle dittature. Secondo questa vulgata, il fascismo e il nazismo - causa principale della guerra con tutte le sue conseguenza - sono assolti da ogni responsabilità relativa alle foibe, in quanto eventi accaduti nei giorni successivi la fine del conflitto. Le attuali Nazioni confinanti sono assolte in quanto non presenti all'epoca dei fatti. Gli unici colpevoli sarebbero quindi i "titini comunisti" (così sono stati chiamati anche ieri a Basovizza), animati da un incomprensibile e improvviso odio nei confronti di chi aveva collaborato con i sanguinosi regimi precedenti. E' fin troppo evidente quanto questa concezione sia un classico esempio di uso (distorto) politico della storia, in un momento di rinascenti nostalgie revisioniste.

La storia non si fa così, ma come ogni altra scienza, con dati e interpretazioni suffragate da documenti. Si lascino alla "memoria divisiva" le Giornate del Ricordo e si rispetti lo spazio individuale delle emozioni e dei ricordi dolorosi. Ma si affronti invece con serietà e metodo la Storia con la S maiuscola alla mano, un percorso collettivo di ricerca della verità per quanto possibile oggettiva, di approfondimento dell'intero contesto e di fondamento per un'autentica civile e costruttiva convivenza. Non con la costrizione del silenzio, ma con la parola frutto di uno studio intenso, il passato può divenire un tesoro di conoscenza dal quale attingere le risorse per costruire insieme un miglior presente e una prospettiva futura.

mercoledì 7 febbraio 2024

Sana pioggia di belle iniziative, verso il 2025

Quando meno te lo aspetti, là dove pensi di aver già visto tutto, scopri un gioiello del tutto inatteso. Ed ecco allora che si fa scoprire la stupenda cantina del santuario francescano della Kostanjevica, al termine di uno straordinario incontro di autentica cultura.

Nell'affollatissima sala principale del santuario sono stati presentati gli incunaboli custoditi nella biblioteca di Kostanjevica e nella knižnica Bevk di Nova Gorica. Oltre agli estensori dello straordinario lavoro di catalogazione portato avanti da un équipe composta da studiosi italiani e sloveni, hanno salutato i numerosi ospiti il padre guardiano del Convento e il sindaco di Nova Gorica Samo Turel. Il catalogo pubblicato e presentato è scritto in lingua slovena e in italiano, come a suggellare un passo importante del cammino verso la capitale europea della Cultura. Particolarmente interessante è stata la presentazione della diffusione degli incunaboli nel mondo e dello straordinario lavoro di identificazione e di raccolta portato avanti dai ricercatori nella biblioteche dell'intero Pianeta, al fine di giungere a un elenco completo di queste importantissime opere, che testimoniano il tempo intercorso tra l'invenzione della stampa e l'anno 1500.

Un'altra iniziativa significativa si è tenuto lo scorso lunedì al Trgovski dom di Gorizia. Curata da Zveza slovenskih kulturnih društev ETS e scritta da Aldo Rupel, è stata presentata la guida Slovenski obraz Gorice, Il volto sloveno di Gorizia, in sloveno, italiano e inglese. Si tratta di uno strumento molto agile, un ottimo tascabile che ha lo scopo di far conoscere ai visitatori alcuni aspetti di una Gorizia spesso meno nota, quella che testimonia l'importanza della presenza slovena nel territorio. In poche intense pagine si possono percorrere quattro suggestivi itinerari che consentono di conoscere nell'insieme la città e di accorgersi di quanti aspetti inediti si possano scoprire attraverso gli occhi e la penna di una persona esperta e competente come Rupel. Molto efficace l'elenco finale delle vie della città, riportate al toponimo originale cancellato dalla forzata italianizzazione.

Sono solo due tra le innumerevoli iniziative che accompagnano quest'anno la "Giornata della Cultura Slovena", particolarmente piena di prospettive, a un anno esatto dall'apertura delle celebrazioni relative alla capitale europea della Cultura 2025.

France Prešeren: una conferenza del prof. Miran Košuta

France Prešeren nasce a Vrba il 3 dicembre 1800 e muore a Kranj l'8 febbraio 1849. Nell'occasione, la Slovenija ricorda il suo grande poeta con una Giornata annuale di Festa nazionale. Per conoscere meglio la sua figura e comprendere il significato di tale celebrazione, si ripropone in questo contesto la magistrale riflessione offerta dal prof. Miran Košuta, un anno fa al Kulturni dom di Gorizia, in collaborazione con Il libro delle 18.03:  France Prešeren

sabato 3 febbraio 2024

Julius Kugy, a 80 anni dalla morte

Il 5 febbraio 1944, esattamente 80 anni fa, moriva Julius Kugy.

Era nato a Gorizia il 19 luglio 1858, nella casa dei conti Coronini, ma è vissuto sempre a Trieste, fino alla morte.

Ha dedicato la sua vita alla bellezza.

Ha iniziato da giovane, percorrendo in lungo e in largo il Carso, alla ricerca di qualche fiore o qualche pianta rara. Vedendo stagliarsi lontano le vette delle Alpi Giulie, fu letteralmente trascinato verso l'alto, raggiungendo per primo alcune cime, aprendo nuove vie e svelando molti segreti delle più straordinarie montagne. Non era mai solo. Si è circondato di alcune figure leggendarie di guide alpine, con il quale ha intessuto relazioni di stretta collaborazione, ma anche di sobria e profonda amicizia. Indimenticabili sono i ritratti di Andrej Komac, il silenzioso e affettuoso compagno delle più importanti ascensioni nel grippo del Triglav, di Anton Oitzinger, il vivace "re" di Valbruna, come pure delle guide valdostane. Affascinato dalla val Trenta, l'ha frequentata assiduamente, fino agli ultimi anni della sua vita, quando si sedeva proprio nel punto nel quale si erge ora la statua in sua memoria, contemplando il Veliki Ozebnik e l'inconfondibile Jalovec. Ha conosciuto nel profondo la gente della montagna che lo ha guidato anche nella ricerca del fiore mitologico, la Scabiosa Trenta, tra gli anfratti delle rocce scavate dai torrenti o sulle pericolose cenge affacciate sul vuoto che un tempo erano state le strade maestre di Zlatorog, il camoscio dalle corna d'oro, custode del regno fatato delle Rojenice, sotto la cuspide del divino Triglav.

Kugy era anche un ottimo musicista. Suonava regolarmente l'organo della chiesa evangelica luterana di Trieste ed era appassionato delle sonate di Bach, quanto delle "prime" sullo Jof di Montasio. La musica accompagnava la contemplazione della Natura e l'immersione tra i panorami alpini rafforzava la sua competenza musicale. Apprezzato da chiunque lo avesse incontrato, con l'amico Albert Bois de Chesne aveva collaborato all'apertura del meraviglioso giardino botanico "Alpinetum Juliana" presso la chiesa di Trenta, dove si possono trovare tutti i fiori presenti in quello che oggi è il più importante parco nazionale della Slovenia. Lì aveva conosciuto il parroco Josip Abram, talmente amato dai suoi parrocchiani da aver ottenuto da essi il soprannome di "Trentar". Kugy lo aveva definito "l'uomo più buono che avesse mai incontrato". Abram era un fine intellettuale, traduttore dall'ucraino allo sloveno, amico del grande pittore Tone Kralj, al quale aveva commissionato le pitture parietali di Trenta e si Soča, più tardi di Pevma, dove era stato trasferito al termine dell'esperienza montana.

Oltre a tutto ciò, Julius Kugy è ricordato perché non ha tenuto nascoste le sue passioni, ma le ha raccontate mirabilmente nei suoi libri. I tre principali sono La mia vita nel lavoro, per la musica, sui monti , Dalla vita di un alpinista e Le Alpi Giulie attraverso le immagini, pubblicati per la prima volta nella straordinaria traduzione italiana del grande Ervino Pocar, da Tamari Editori Bologna alla fine degli anni '60. Ciò che è stato per tutti Salgari, con i suoi libri di avventura che hanno spalancato a un paio di generazioni le porte dei mondi sconosciuti dell'estremo Oriente, è stato Julius Kugy per i ragazzi e i giovani amanti della Montagna. Con le sue parole ha preso per mano i curiosi e li ha convinti a salire i più impervi sentieri e ha aiutato a sognare coloro che per un motivo o per l'altro, non hanno potuto intraprendere la via delle limpide catene montuose. Ha unito avventura e spiritualità, ha celebrato con convinzione, nella fatica del salire come nella capacità di ascoltare e contemplare, l'autentica gioia della Vita. Non si può che ricordarlo con un immenso Grazie!

venerdì 2 febbraio 2024

Francesco ovvero la fine del cattolicesimo imperiale

La postmodernità sta inghiottendo uno delle più antiche polis del Pianeta. Il secolo XX proietta le sue ultime ombre. Dopo aver contribuito alla demolizione di gloriosi imperi, alla nascita e al tracollo delle più sanguinose dittature della storia, alla fine del sogno di una koinè ispirata dal comunismo, con un minimo ritardo prepara l'evaporazione del cattolicesimo.

Così strettamente legata all'evoluzione del capitalismo, la postmodernità sta svolgendo il ruolo delle macchine di distruzione che devono abbattere le case lesionate. Poi qualcuno toglierà le macerie ed edificherà un nuovo edificio, sempre che la fase di demolizione non sia tanto intensa da rendere impossibile la ricostruzione.

Jorge Bergoglio, contestatissimo Vescovo di Roma, con i suoi 87 anni, è in questo momento la persona più giovane del Pianeta. Ciò che sta compiendo, con un sempre meno marcato sorriso sulle labbra, è lo smantellamento delle colonne portanti che hanno consentito all'impero cattolico di sopravvivere per ben 1630 anni. Sì, tra il 5 e il 6 settembre 394, l'imperatore Teodosio sulle sponde del Frigidus (l'odierno Vipacco), sconfigge quello che i vincitori hanno definito l'"usurpatore" Eugenio, riunifica l'Impero Romano e applica all'intero enorme territorio l'editto di Tessalonica. Costantino e Licinio, nel 313, avevano proclamato l'editto di Milano, con il quale stabilivano - un po' come l'articolo 19 della  Costituzione Italiana - la libertà di espressione di ogni culto religioso. Teodosio e company, con l'Editto di Tessalonica, riferendosi alla fede cristiana, nella sua versione definita (sempre dai vincitori) ortodossa, stabiliscono che Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste. In pochi anni, da perseguitati i cristiani diventano perseguitanti e si avvia il processo di identificazione tra Chiesa e Impero che - in forme diverse - attraverserà tutto il Medioevo e resisterà strenuamente al sistematico attacco del pensiero moderno. Come ogni impero che si rispetti, anche quello cristiano aveva nella sua essenza la pretesa di essere eterno e universale, giustificando in questo modo qualsiasi aberrante forma di proselitismo e di conquista, postulando che fosse meglio morire piuttosto che disobbedire agli ordini del sovrano (nell'ordine, il Papa e l'Imperatore che si ritenevano diretta espressione della volontà di Dio). E come ogni impero che si rispetti, l'inevitabile percezione del fallimento del disegno egemonico a causa dell'intrinseca diversità degli umani e della limitatezza temporale di ogni loro impresa, ha portato a una lenta trasformazione che, passo dopo passo, ha raggiunto appena in questi anni la consapevolezza. Quello che si sta vivendo è il tramonto della Cattolicità, Papa Francesco si è assunto - consapevolmente o meno - il compito di avviare una notte dalla quale potrà forse finalmente sorgere un nuovo giorno.

Questo passaggio, già intravvisto nel complesso dettato del Concilio Vaticano II (1962-1965), ma sotto la forma di compromesso tra partiti sostenitori di tesi opposte, ha alcuni punti di riconoscimento molto importanti. Per avviare soltanto il discorso, se ne possono citare come esempio tre. 

Francesco - o Bergoglio comunque lo si voglia chiamare - propone il primato della verità relativa su quella assoluta. In termini semplici, afferma come venga prima il riconoscimento fraterno della persona nella sua concreta situazione esistenziale e sociale, rispetto all'affermazione di principi assoluti ai quali occorrerebbe conformarsi per realizzare la propria vita.

Francesco propone una visione della guida della Chiesa "secolarizzata". La percezione del Papa "uno fra i pari" (e i pari sono ogni essere umano, in particolare chi vive con maggior sofferenza lo stritolamento provocato dal capitalismo) e la famosa affermazione del "chi sono io per giudicare?", da una parte demoliscono il dogma (comunque sorprendente, data la difficoltà di sostenere una cosa simile!) del Vaticano I, secondo il quale "il Romano Pontefice", a determinate condizioni, non può sbagliarsi nel proporre la Verità della Rivelazione. Dall'altra parte afferma, in chiave essenzialmente postmoderna e personalista, che il supremo criterio per stabilire il bene e il male, non appartiene a un'autorità esterna, ma all'intimo della propria coscienza.

Francesco propone di fatto di equiparare i percorsi di fede e di ricerca del senso del trascendente, rilanciando il dialogo ecumenico e interreligioso non solo sul piano di una cordiale convivenza, ma di un reciproco riconoscimento della fantasia di un appello a Dio non monocratico, ma essenzialmente pluralista e multiforme. In questa prospettiva, la parola proselitismo perde ogni significato e viene sostituita dal "dialogo", metodo per eccellenza di costruzione della vagheggiata comunione nella valorizzazione di ciascuna diversità.

A leggerle con attenzione, le parole e le forme proposte da Bergoglio altro non sono che l'espressione di un profondo buon senso  e, forse, dell'intelligente percezione di un'inattesa possibilità di mantenere vivo l'annuncio fondante del Maestro. Portano a termine un lungo processo, iniziato nella Vipavska dolina, a pochi chilometri da Gorizia, alla fine dell'estate del 394. E' la fine del cattolicesimo imperiale o dell'impero cattolico, non certo del cristianesimo in quanto tale. Francesco riporta la Chiesa alle origini, realizza in un certo modo il sogno di Lutero o la "forma" realizzata da Francesco di Assisi: l'imitazione di Cristo attraverso il solo Vangelo, affidato all'interpretazione soggettiva e non alla mediazione dell'autorità ecclesiastica.

E' la speranza di ricominciare da capo, dalla misera grotta di Betlemme o dal dramma salvifico del Calvario. Sembra quasi di sentir dire "abbiamo capito male, ripartiamo dalle fondamenta". La strada è quella della contemplazione che non incide sull'azione, della fede radicalmente distinta dalla ragione, della città di Dio del tutto incompatibile con quella dell'uomo, della fine di ogni collateralismo in nome della purificazione dell'autenticità della fede, della libertà scevra da ogni commistione col Potere.

E' facile immaginare le conseguenze si questa visione "de-istituzionalizzante". I tempi attuali sembrano essere caratterizzati dalla rapidità del loro svolgersi. E' quindi presumibile che sulla scia delle intuizioni "francescane", verrà meno la necessità di un apparato strutturale mastodontico: la Città del Vaticano, gli immensi possedimenti, i nunzi apostolici, le banche, le assicurazioni, gli intrallazzi, il maschilismo, il sacerdozio sacrale... Tutto ciò, se si prolungheranno i fili tessuti in questo pontificato, sparirà dalla storia e la voce della Chiesa tornerà a essere totalmente svincolata da ogni interesse politico o economico, a interpellare l'anima e l'animo delle persone, a offrire loro la vera ed essenziale parola innovativa, proposta dall'esperienza esistenziale del Cristo: la vittoria dell'amore sull'odio, del perdono sulla vendetta e - massima aspirazione di ogni essere - della morte sulla vita. Ma per ora, de hoc satis.