martedì 30 marzo 2021

Ritornano le frontiere, si interrompono i con-fini

Non è una rete invalicabile, soltanto un nastro con la scritta "polizia". Molte persone attraversano senza farsi troppi problemi, chi in bici chi a piedi.

E' comunque un ostacolo, una barriera che evidenzia l'assenza di con-fine, cioè di comunanza di obiettivo e di consapevolezza.

In nome della salute, ancora una volta si crea una frontiera, si viene posti gli uni davanti agli altri. Si è costretti alla trasgressione, affinché possa esistere la relazione.


Si può andare in vacanza pasquale alle Canarie o alle Baleari, ma non si può attraversare la Trg Evropa o Piazza della Transalpina, simbolo continentale di vicinanza, amicizia e fraternità. E' lecito raggiungere gli aeroporti per volare verso gli Oceani, non si può raggiungere la stazione ferroviaria, per raggiungere Bohinj o Bled.

Mah, con tutto rispetto delle prescrizioni e delle ordinanze, in tutto questo c'è qualcosa che  non quadra!

Oggi pomeriggio (martedì) il ministro della salute ha firmato una nuova regola. Chi rientra dall'estero non dovrà più soltanto aver effettuato il tampone, ma anche trascorrere una quarantena di cinque giorni, seguita da nuova tampone (costo sui 70-80 euro cadauno). Si capisce se uno va a Tenerife, ma se si vogliono fare due passi tra Gorizia e Nova Gorica...

Covid-19. Il rischio di assuefarsi alle dinamiche di un mondo virtuale

I dati ufficiali annotano, fino a oggi, circa 3.540.000 persone contagiate dal coronavirus in Italia. 108.000 hanno purtroppo perso la vita, "per" il covid-19 o "con" il covid-19.
Chi lo avrebbe immaginato, un anno fa, all'inizio di questa terribile vicenda? Politici, uomini di spettacolo, anche scienziati e giornalisti, tutti avevano sottovalutato il rischio, prendendo atto solo molto tardi di ciò che esso esattamente avrebbe comportato.
Dal mese di marzo 2020 si è in emergenza e sono stati chiesti enormi sacrifici, le cui conseguenze si possono soltanto intravvedere. Si è partiti con l'obbligo di distanziamento, poi con quello delle mascherine, peraltro nei primi due mesi praticamente introvabili. Si è cancellata un'intera primavera, con la costrizione in casa di quasi tutta la popolazione. Gli operatori sanitari sono finiti loro malgrado in una vera e propria trincea, migliaia si sono ammalati e tanti sono morti, molti di essi all'inizio senza pgli indispensabili presidi e le protezioni. Si è chiusa la stragrande parte delle attività produttive e soprattutto bambini e ragazzi sono stati impediti ai contatti fisici, di fatto per un intero anno solare. Sono stati vietati per mesi i rapporti tra gli anziani nelle case di riposo e i loro parenti più stretti. Decine di migliaia di persone sono morte senza il conforto dei propri cari, spesso anche senza un ultimo saluto terreno. Un numero esorbitante di esercizi commerciali ha dovuto abbassare definitivamente le serrande, la crisi occupazionale e quella economica bussano alle porte della storia. Gli anni '20 del XXI secolo portano all'umanità grandi sfide e le preoccupazioni sono tante.
A Pasqua si diceva che le restrizioni avrebbero salvato l'estate, in estate che bisognava prepararsi a un difficile autunno, in ottobre era necessario fare sacrifici per salvare il Natale e a Natale tutti erano in zona rossa per salvare la primavera... e così via. Nonostante tutti questi grandi sacrifici, i "numeri" sono elevatissimi. Certo, qualcuno potrebbe dire che senza i vari dpcm e dl la situazione sarebbe stata senz'altro molto più grave. Tutto questo era indispensabile in attesa della soluzione, l'attesissimo arrivo dei vaccini che avrebbero finalmente cancellato l'incubo.
Anche su questo, qualche dubbio comincia a serpeggiare. Presentati come privi di qualsiasi rischio ed emblema del disinteressato amore della Scienza per l'essere umano, hanno di fatto suscitato tali perplessità da arrivare a bloccarne per alcuni giorni la distribuzione in numerosi Paesi europei. Per quanto riguarda inoltre gli aspetti di "giustizia", ogni giorno emergono scandali nella guerra commerciale tra le diverse case che tendono ad accaparrarsi il mercato. Là dove si cerca di pensare a una sorta di democratizzazione e internazionalizzazione degli interventi sanitari, come a Cuba, subito interviene l'interesse del Grande Capitale e i Paesi del Nord del mondo - anche l'Italia, clamorosamente non riconoscente - votano un assurdo embargo, nel momento più sbagliato possibile.
Anche le regole attuali, peraltro seguite con sempre minore convinzione da parte dei cittadini, fanno acqua da molte parti. In teoria, in zona rossa, non si potrebbe neppure uscire di casa se non per una piccola passeggiata nel proprio isolato o per una corsa a piedi e in bicicletta, rigorosamente da soli. Non si può andare al cinema o a teatro, neppure con tutti i contingentamenti previsti dal caso, ma si può andare tranquillamente a Messa o partecipare ai funerali, riempiendo di folla i cimiteri e perfino varcando i confini regionali. Non è possibile svolgere una camminata in (piccola) compagnia, ma si possono tenere manifestazioni statiche, senza limite di partecipazione, nelle piazze. Si può andare in vacanza all'estero, senza alcun divieto di assembramento e con l'unica avvertenza di un tampone 48 ore prima del rientro in Italia. Non si possono visitare i genitori anziani che risiedono oltre il confine di una Regione, ma si può andare a ballare nelle discoteche delle isole Baleari. Si rischia una solenne multa se si beve un caffè in piedi nelle vicinanze del bar, ma si può andare in auto fino all'aeroporto per raggiungere destinazioni esotiche.
Gli scienziati nel frattempo continuano a litigare su tutto. Dall'origine del virus a Wuhan alle previsioni per il futuro, dall'efficacia dei vaccini alla validità delle prescrizioni, dalle regole sanitarie e igieniche alle forme di prevenzione. I media, abilmente gestiti dalle centrali politiche, sostengono una tesi o l'altra, cambiando parere a ogni giro di vento, per offrire posizioni importanti ai concorrenti in permanente campagna elettorale.
Tutto ciò per dire che al fondo si accetta ormai tutto, con una sorta di rassegnazione e di fatalistica speranza in un qualcosa che dovrà accadere "nel prossimo futuro", la fine naturale della pandemia, l'immunità di gregge, il ritorno delle condizioni precedenti, i ristori o rimborsi alle aziende, la luce che splende nelle tenebre e così via. 
Ci si sta abituando all'impensabile, a relazionarci nelle riunioni tramite le mille piattaforme informatiche, alla didattica a distanza, al non salutarsi più per strada perché non ci si riconosce, a rinchiuderci nelle case, obbligati dal divieto di farsi trovare in strada dalle 22 alle 5 o da una sorta di assuefazione all'inedita situazione di isolamento, di solitudine e di irreale silenzio.
Senza essere tacciati di negazionismo o irresponsabilità, si possono ancora evidenziare questi problemi e chiedere a chi deve decidere di non trascurare questo cambiamento degli stili di vita che potrebbe diventare irreversibile? Si possono individuare anche gli elementi costruttivi, legati a una riscoperta della propria soggettività? Si può nel contempo evidenziare come lo smarrimento della dimensione comunitaria potrebbe portare facilmente all'obbedienza acritica al padrone del vapore di turno? L'enfatizzazione del "virtuale" non rischia di rinchiuderci tutti in un mondo alternativo, in una specie di fiction in grado di rovesciare pericolosamente il senso stesso della realtà, ma anche del pensiero? La domanda sul "chi sono io?", svincolata da un "chi sei tu?" fondato sull'accoglienza dell'altro nella sua integralità, non rischia di essere ridotta all'identificazione di un'immagine su un teleschermo?

domenica 28 marzo 2021

Patior ergo sum, la realtà del dolore contro la presunta verità dell'immaginazione

Yuval Noah Harari nota che quasi tutto ciò che concerne la vita individuale e sociale è frutto dell'umana immaginazione.

In effetti, se ci domandiamo chi siamo, ci accorgiamo immediatamente che le nostre risposte non hanno nulla a che fare con una realtà indipendente dai nostri "inventati" concetti.

Ciò ha permesso all'homo sapiens uno strabiliante cammino nella storia che lo ha portato da debole animale braccato a signore incontrastato della natura. Ma gli ha consentito anche di incrementare la propria forza attraverso la costruzione di immagini e sistemi simbolici dei quali è divenuto schiavo.

Alla base delle religioni, delle ideologie, delle intuizioni sociali c'è una narrazione mitologica, resa costantemente viva e presente attraverso ritualità e liturgie che hanno la finalità di offrire alle persone linguaggi comuni e obiettivi condivisi. Ciò vale dalla protostoria fino ai nostri giorni, passando dalla collaborazione tribale al nazionalismo razzista, dalla lotta per la sopravvivenza allo strapotere delle multinazionali.

Nel nome di simboliche totalmente inventate - la patria, la religione, la bandiera, il denaro, il potere e così via - milioni di esseri umani hanno creduto, si sono riconosciuti in un'identità, hanno parlato diverse lingue, si sono ferocemente massacrati, hanno realizzato opere d'arte, hanno generato cultura, hanno costruito imperi e hanno dato forme ai concetti astratti di libertà, di giustizia, di verità, di pace.

La questione, se così posta, ha il vantaggio di relativizzare tutto ciò che si crede fondamentale e di portare alla luce quelle pochissime "realtà" costitutive e indipendenti della famiglia (altra interessante "invenzione") umana. Quali sono? Essenzialmente due, il dolore e l'amore.

Per esempio, dopo una guerra combattuta per difendere una "nazione", correndo dietro a una "bandiera", per stabilire dei "confini" o dei nuovi "sistemi economici", i sopravvissuti vincitori onorano gli "eroi" e disprezzano le "vittime" sconfitte del "popolo" contro il quale si è combattuto. In realtà, cosa c'è di reale in tutto ciò che ha provocato, riempito di sangue e poi risolto un conflitto? Il dolore dell'individuo concreto. Questo è ciò che rimane, al di là della patria e della sua retorica, ma anche al di là dei "morti" e dei "feriti". Rimane Giacomo, Francesco, Maria, Giovanna... Anzi, neppure i loro nomi, soltanto il dolore acuto della carne straziata o del cuore oppresso dalla sofferenza per la perdita e per l'abbandono.

Tutto ciò non vuole contrastare l'avventura dell'immaginazione, senza la quale non sarebbe mai esistito il computer con il quale sto scrivendo o il drone di Perseverance che cerca le tracce della vita su Marte. Anzi, al contrario, è un invito alla filosofia ad avviare una nuova narrazione su ciò che è l'uomo e sul curarsi di lui, per parafrasare il salmo 8 della Bibbia ebraica. 

Se si procede con Cartesio al dubbio sistematico intorno alla "realtà", si giunge alla celebre costatazione del "cogito ergo sum" e si può rifondare l'esistente sulla base del rovesciamento delle "certezze" di Aristotele e Tommaso d'Aquino. Se si accetta la lezione di Harari, ci si può avviare verso una nuova rivoluzione del pensiero, procedendo dal "patior ergo sum" o - se si preferisce - dall'"amo ergo sum".

In questo modo, si potrebbe davvero procedere alla ricerca di un dialogo simpatetico di "simboliche costruttive", a partire non dalla venefica assolutizzazione dell'invenzione dell'uno o dell'altro, ma dall'immediata condivisione del "dolore individuale", dalla quale solo possono nascere i sentimenti della compassione  e della solidarietà. Oppure, ma in fondo non è poi così diverso, si può ricostruire ciò che l'analisi ha demolito, a partire dall'amore interpersonale, fondamento istintuale, ma anche carico di significati culturali, di ogni autentica relazione finalizzata alla costruzione di una nuova immagine di "società".

sabato 27 marzo 2021

Il programma del "Libro delle 18.03"

La nuova edizione degli incontri del "Libro delle 18.03" offre straordinarie occasioni di incontro e di approfondimento. Si inizia con Matteo Femia, bravissimo giornalista del territorio goriziano, con il libro Il letargo degli orsi a Sarajevo. Lo presenterà, in diretta streaming, giovedì 1 aprile, il giornalista del Piccolo Marco Bisiach.

Giovedì 8 aprile, compatibilmente con le prescrizioni anti covid, sarà la volta di Pietro Spirito, autore di Gente di Trieste, intervistato da Elko Burul.

Poi ci saranno Hans Kitzmuller che parlerà di Dora Bassi con Stefano Cosma e la sindaca di Mossa Emanuela Russian. Poi Fabiana Dallavalle con Claudio Mezzelani, Maria Silvia Bazzoli e Anna Piuzzi, Andrea Maggi con Alex Pessotto. A suo tempo saranno da cogliere, come fior da fiore, le intuizioni e le suggestioni di tutti questi bellissimi incontri.

Sono proposte anche due uscite a piedi (con partenza alle 10.03). La prima è dedicata alle Gorizia e ai ricordi, un itinerario attraverso i volti scolpiti nei parchi e nelle vie di Gorizia e Nova Gorica. La seconda porterà fino alla cima del Monte Calvario, alla ricerca degli aspetti storici, culturali, naturalistici e archeologici. 

giovedì 25 marzo 2021

Memoria, tra mito e storia...

Molto interessante è stato il dibattito online dell'altra sera. Il tema è scottante: verità, pace, giustizia, tra memoria e desiderio. I relatori sono stati al di là delle aspettative, Angelo Floramo, Marinetta Cannito Hjort e don Alberto De Nadai. Non è possibile sintetizzare tutto ciò che è stato detto, per un approfondimento si rinvia alla registrazione, accessibile tramite link youtube https://www.youtube.com/watch?v=VLWJ4R5_tRA.

In questo contesto sembra urgente riprendere una riflessione di Alessio Sokol, relativa al tema della memoria, in rapporto alla storiografia e alla prospettiva politica. L'argomento è veramente decisivo e la condivisione di Angelo Floramo ha soltanto aperto la porta di un edificio molto grande, tutto da scoprire o da riscoprire.

"E' fondamentale - è stato detto - che alla base di tutto ci sia la ricerca storico-scientifica, senza la quale gli eventi del passato e del presente rischiano di essere costantemente strumentalizzati".

Come non essere d'accordo? Tuttavia, l'amara constatazione non è quella della valorizzazione, bensì della persecuzione di chi si dedica a un autentico e libero esame sistematico delle fonti. Ciò accade soprattutto quando il processo della memoria investe antiche e recenti, irrisolte conflittualità.

In questi casi sembra prevalere l'emozione e la narrazione politico-culturale - intesa in questo contesto come costruzione o imposizione di una visione identitaria - coniuga la sicumera del più forte con le sensibilità ferite delle componenti numericamente maggioritarie. Ci sono voluti 60 anni per istituire un "Giorno della memoria" e la sua celebrazione è generalmente approvata dalla stragrande parte della popolazione. Dopo oltre 75 anni, crea invece ancora ogni anno una scia di polemiche la "Giornata del ricordo". 

Perché accade ciò? Forse perché, dal punto di vista sociale, la tragedia dei campi di sterminio nazisti (e fascisti) è in-condizionata. La storiografia, in questo caso, è diventata la base della memoria popolare e politica, ma perché i suoi risultati fossero comunemente accettati dalla politica ci sono voluti oltre 60 anni. Prima se ne parlava poco e mal volentieri. Se si chiedevano informazioni per raggiungere i lager la gente nicchiava, faceva finta di non sentire. Perfino i documenti sul dialogo interreligioso pubblicati negli atti del Concilio Vaticano II non fanno alcun riferimento esplicito alla Shoah, limitandosi a un generico accenno - "spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica" - alle persecuzioni subite dagli ebrei "in ogni tempo e da chiunque". C'era bisogno che la generazione degli oppressori scomparisse, che la Germania facesse i propri conti con il nazismo, che l'umanità si interrogasse sui limiti dell'obbedienza agli ordini piuttosto che ai dettami della propria coscienza. Solo a quel punto la consapevolezza storica si è trasformata in racconto fondante l'identità multipla. Fin troppo, si potrebbe dire, dal momento che il generalizzato accordo trasforma la storia in mito, proiettandola in una realtà astratta e sostanzialmente virtuale, in grado di reggere l'urto del tempo fin quando il rito viene ripetuto con la passione e la forza dei "martyroi", cioè dei testimoni diretti. In ogni caso il "mito" antinazista, alimentato anche da miriadi di libri, film, conferenze a tutti i livelli, ha annientato il mito nazista, confinandolo nella miseria umana di pochi nostalgici abbastanza controllati.

La situazione che viene ricordata il 10 febbraio, a livello solo italiano, è completamente diversa, anzi in un certo senso opposta. In questo caso le "vittime" non sono il frutto di un dramma sciolto da qualsiasi possibile giustificazione storica. La violenza è la conseguenza di altra violenza, la sofferenza anche dell'innocente è l'ultimo frutto della pianta del fascismo che ha prodotto i frutti velenosi della cancellazione dell'identità culturale di un popolo, delle fucilazioni e dei rastrellamenti, dei villaggi bruciati senza pietà, delle deportazioni. In questo caso lo scontro tra i miti - e cosa c'è di più irrisolvibile dei conflitti tra religioni o tra sistemi mitologici? - non è esaurito, perché l'antifascismo italiano non è riuscito a estirpare il fascismo, l'Italia non ha mai fatto fino in fondo i conti con la tragicità del proprio "ventennio" di dittatura. In questo caso gli storici hanno vita dura, fanno fatica a perforare la cappa buia calata sull'informazione, anche attraverso la letteratura, il cinema strappa-emozioni, perfino il teatro e i discorsi dei rappresentanti dello Stato. E ogni "vittima" si allinea dietro al proprio racconto, contrapponendolo a quello dell'altra. E se il ricercatore riesce a smentire i caratteri del mito attraverso la forza del documento, deve venire azzittito perché non c'è nulla da dimostrare nella verità che si è fatta mito, esiste e basta.

Del resto, se è vero che non si ricordano più i gerarchi fascisti anche se si ricevono solennemente i reduci sopravvissuti della X Mas e della repubblica di Salò, è altrettanto vero che città come Gorizia continuano a essere intrise di un'insopportabile retorica militarista. I nomi delle vie, i monumenti nei Giardini, le scritte sulle lapidi ripropongono in modo potente l'epica mitologica della prima guerra mondiale, nonostante l'ormai assodata documentazione storiografica relativa a quella orrenda carneficina che ha sottratto all'Europa una generazione di giovani. Certo, pochi oggi esalterebbero il macellaio Cadorna o penserebbero con ammirazione agli "eroi" annichiliti nelle trincee. Tuttavia altrettanto pochi affronterebbero il lieve disagio di un cambio di carta d'identità pur di cambiare i nomi alle vie e di indicare altri esempi da seguire, donne e uomini di un territorio Goriziano in grado di guardare un futuro "unito nella bellezza delle sue diversità". 
 

martedì 23 marzo 2021

Una serata da non perdere...

Sembra tutto molto semplice, le parole riempiono il cuore ancor prima di essere pronunciate. Chi ritiene di essere "falso"? chi si autodenuncia in quanto "in-giusto"? Chi non vuole la "pace"?
La risposta è immediata: nessuno!
Eppure mai come nell'epoca della comunicazione globale ci si sente lontani dalla Verità. Ovunque si constata un permanente vilipendio della giustizia. Decine di guerre insanguinano tuttora il Pianeta, ma il permanente conflitto sembra essere presente anche nella nostra quotidianità.
Dove sta l'inghippo? Qual è la radice della contraddizione tra ciò che si desidera ardentemente e ciò che in realtà si sperimenta? Come mai anche dentro di noi le belle espressioni che usiamo, spesso non corrispondono affatto a ciò che pensiamo e la nostra vita è dominata da gesti - spesso inconsapevoli - non veritieri, iniqui e violenti?
Sono domande che trovano una loro inconsueta drammaticità in questo periodo di pandemia, nel quale la quotidiana relazione con il mistero di un Male fisico non provocato - almeno direttamente - dall'uomo ci pone di fronte alla madre di tutte le questioni, quella riguardante non genericamente ma molto concretamente la "nostra" morte corporale. Il linguaggio umano esprime la complessità della vicenda utilizzando lo stesso sostantivo - "Male" appunto - sia riferito al tema della fisicità che a quello della moralità. Male è il virus in quanto produce sofferenza, male è la cattiveria che genera fame, conflitto e persecuzione.
Citando il titolo di un celebre libro di Lenin, ci si chiede: "Che fare?"
L'incontro online che si terrà mercoledì sera, come da locandina allegata, vuole approfondire questi temi, parlando di essi nel contesto speciale di un territorio di cum-fines (Angelo Floramo), nell'orizzonte di una giustizia riparativa (Marinetta Cannito Hjort), nell'esperienza di un'esistenza dedicata al servizio degli oppressi (Alberto De Nadai).
Il punto di vista, in grado di superare d'un balzo le imposizioni forti dell'assolutismo medievale e le incertezze deboli del relativismo post-moderno, è quello della "memoria" e del "desiderio".
La prima non è il semplice ricordo di ciò che è già accaduto, ma la capacità di svincolarsi dalla linea inesorabile del tempo per ritrovare il passato nel presente, possibilmente trasformandolo nella sua essenza. Da ciò deriva la possibilità che il Male sia cambiato in Bene, la Menzogna in Verità, la Violenza in Perdono.
Il secondo, il "de-siderio", è mosso dall'assenza e dalla mancanza, dal "vuoto" e dall'"im-perfezione" che suscitano un'ansia inesauribile di pienezza, uno squilibrio cosmico il cui esito può essere soltanto quella che gli antichi padri chiamavano "anakefaleiosis", cioè ricapitolazione di tutte le cose nell'orizzonte infinito ed eterno.
Se il presente è memoria che diventa desiderio, il passato non è irrimediabile, ma la fonte del rinnovamento. E se presente e passato si alleano in una nuova dimensione di verità, giustizia e pace, allora essa diventa il fondamento dell'etica e della politica, cioè della modalità di interpretazione delle relazioni individuali e sociali che determinano il nostro essere.
A domani allora, cari 2,5 lettori...
 

domenica 21 marzo 2021

La consolazione della filosofia


E' da oltre un anno che la pandemia sta dominando la nostra vita. Le relazioni tra le persone sono limitate all'essenziale, intere categorie lavorative sono costrette a casa e guardano come a un incubo il prossimo futuro. Ai ragazzi e ai giovani, insieme alla scuola "in presenza", sono sottratti anche la normale socializzazione, l'intensificazione delle prime amicizie, i primi battiti del cuore che si apre all'affetto. Agli anziani nelle case di riposo, dopo le stragi autunnali che ne hanno coinvolte così tante, sono ancora vietati gli incontri con i propri cari. Migliaia di persone hanno lasciato questo mondo senza un saluto, un abbraccio, un sorriso. 
Si è appesi alle notizie, che si succedono una dopo l'altra, rassicurazioni, raccomandazioni, prescrizioni. I Governi lanciano messaggi contraddittori, la speranza nel vaccino, la paura del vaccino, i numeri ormai fuori controllo, l'impossibile tracciamento. I contagi aumentano e il senso di impotenza cresce, gli scienziati fanno a gara per confondere ulteriormente le idee, parlano di "scienza" come di una nuova "religione", come se fosse possibile la "certezza" di una "comunità scientifica" continuamente richiamata come la sede della "Verità", salvo poi dimostrare anche alla più superficiale analisi un'impressionante frammentarietà di posizioni. Chi ci può guadagnare ci guadagna con introiti astronomici. E chi ci perde, cioè quasi tutti, deve fare come i soldati nel canto del Piave: "tacere bisognava e andare avanti".
Anche le proposte di un sguardo trascendente sembrano latitanti. Le religioni sono dilaniate tra una totale immersione nelle problematiche mondane e un violento rifiuto della "nuova società". Si preoccupano di sostenere, assistere, accompagnare, ma spesso non riescono ad aiutare una riflessione più alta, sul senso della vita e della morte.
Anche le filosofie non sembrano trovare il posto che meriterebbero. Il pensiero sembra incantarsi nel tran tran che accelera clamorosamente lo scorrere del tempo e omologa l'intuizione dello spazio. Perché viviamo? Perché amiamo? Perché comunichiamo? Perché soffriamo? Perché moriamo?
Ecco, tutti i perché soffocati dalla necessità di sopravvivere, di sperare nel vaccino, nel tampone, nel tracciamento, nell'estate imminente. Tutto viene riportato all'unica battaglia contro il virus e nel frattempo, si perdono l'orizzonte del senso, la dinamica esistenziale del desiderio, la gioia dell'incontro, il dramma della solitudine e dell'abbandono, anch'esse ridotte a un particolare del generale, non al mistero dell'essere in quanto tale.
La paura della morte impedisce la gioia della vita. C'è il rischio di essere come zombie, morti viventi incapaci di respirare una nuova primavera.
Uno dei sintomi del contagio avvenuto è l'incapacità di percepire i profumi e i sapori. Ecco, sembra una metafora di ciò che ci potrebbe accadere, se non impariamo a resistere: tutto diventa uguale, sono cancellate le emozioni, come nel film L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel o nel 1984 di George Orwell.
Se questa è la situazione, l'unica forza che potrebbe essere in grado di rovesciare il banco è quella dell'Amore, in tutte le sue dimensioni e le sue forme. Mai come oggi, l'amore è rivoluzionario, mette in gioco sistemi consolidati e la cultura che da esso deriva fonda una nuova visione della persona e della società, un incrocio di Etiche e - derivata - una grande Politica.  

sabato 20 marzo 2021

Equinozio di Primavera, Pomladni dan, Fiesta da viarta, Giornata internazionale della Poesia

Oggi, alle 10.37, c'è stato l'equinozio. E' iniziata astronomicamente la primavera. In concomitanza con l'evento, al quale sono associati importanti cicli di feste religiose e popolari, è stata istituita dall'UNESCO, dal 1999, la Giornata internazionale delle Poesia.

"Parzè vaì li' fuèis ch'a' colin, se colin a ogni siarada par tornà ta viarta?" Così il grande scrittore friulano Celso Macor offre un respiro di attesa e di speranza: "Perché piangere le foglie che cadono, se cadono ogni autunno pe ritornare in primavera?" 

"Tisti pomladni dan je bil lep, svetal in zveneč, kakor iz čistega srebra ulit," Nel bel libro Pomladni dan, così Ciril Kosmač propone la propria intuizione di primavera: "Quel giorno di primavera era bello, splendente e risonante, come fosse dall'argento puro fuso." 

Ecco qualche ricordo, sotto lo sguardo della Primavera di Botticelli, perla della Galleria degli Uffizi di Firenze, una poesia di Giacomo Leopardi e un lampo di bellezza del poeta sloveno Ivan Minatti.

In tempi come questi, c'è tanto desiderio di bellezza e di poesia...
 

Primavera d'intorno.
Brilla nell'aria
e per li campi esulta,
si' ch'a mirarla intenerisce il core
odi greggi belar, muggire armenti
e gli altri augelli contenti
a gara insieme,
per lo libero ciel
fan mille giri,
pur festeggiando il lor tempo migliore


V mladih brezah tiha pomlad...

V mladih brezah tiha pomlad,
v mladih brezah gnezdijo sanje –
za vse tiste velike in male,
ki še verjejo vanje.

20-21 marzo 2021: XXVI Giornata della memoria e dell'impegno, nel ricordo delle vittime innocenti delle mafie

Il 21 marzo è un momento di riflessione, approfondimento e di incontro, di relazioni vive e di testimonianze attorno ai familiari delle vittime innocenti delle mafie, persone che hanno subito una grande lacerazione che noi tutti possiamo contribuire a ricucire, costruendo insieme una memoria comune a partire dalle storie di quelle vittime. È una giornata di arrivo e ripartenza per il nostro agire al fine di porre al centro della riflessione collettiva la vittima come persona e il diritto fondamentale e primario alla verità, diritto che appartiene alla persona vittima, ai familiari della stessa, ma anche a noi tutti
 

venerdì 19 marzo 2021

Chiuso il Cinema Azzurro Scipioni di Roma. La fine di un grande ricordo.

Oggi propongo un ricordo personale, legato a una notizia letta ieri sul Manifesto.

Roma, gennaio 1985. Dopo la memorabile nevicata che aveva per qualche ora reso incantevole la città eterna, prima di piombarla nella confusione e nella paralisi dei trasporti, un senso di sottile malinconia aveva suscitato in me il desiderio di vedere un bel film. Vivevo in Via Pompeo Magno, nel quartiere Prati. Sfogliando il Tempo ero rimasto stupito. C'era un cinema che non avevo mai sentito nominare, nella via parallela dalla quale prendeva una parte del nome, Azzurro Scipioni.

Spinto dalla curiosità, decisi di andare a vedere. Dalla strada si vedeva solo un cancello che nascondeva una semplice scala che conduceva in un seminterrato. Era una specie di club, per cui occorreva una tessera. La sala era piccola, ma tutti coloro che si avvicinavano al tavolo per acquistare i biglietti dimostravano grande interesse e passione. Non meno di tre decenni dopo scoprii che il tutto era nato da un'intuizione del grande Silvano Agosti, indimenticabile regista della "Seconda ombra", il film dedicata all'esperienza di Franco Basaglia. Allora non mi interessava troppo da chi fosse stato avviato, studente venticinquenne di teologia cercavo un luogo dove potermi immergere nell'immenso mare della Cultura.

Mi colpì prima di tutto Il Pianeta Azzurro, intenso inno d'amore alla Natura e alla Vita in tutte le sue dimensioni. prodotto dagli autori che avevano voluto la sala cinematografica. Poi mi sconvolse Jarmusch, Stranger than paradise, rigorosamente in lingua originale con sottotitoli. Ad affascinarmi furono poi Werner Herzog, Dove sognano le formiche verdi e le rassegne su Jean Luis Godard e naturalmente Andrej Tarkovskij, nell'86, con il suo Sacrificio. Pochi avrebbero immaginato che fosse una specie di testamento a pochi mesi dalla prematura scomparsa del regista russo. Indimenticabile la leggenda della fortezza di Surami, ispirato alla leggenda sulla fondazione della Georgia, del regista Sergej Paradjanov. E' un film straordinario, ricordo che quando uscii dalla sala, scorrevano lacrime di bellezza, ai pochi con i quali avevo condiviso l'esperienza. Sì, l'Azzurro Scipioni era anche la chiacchierata, sorseggiando il caffè o un bicchiere di bianco dei Colli Romani, con persone che non avresti mai più visto e con i quali, per un paio d'ore, si volava da Bergman a Pasolini, da Godard a Kusturica fino a Costa Gravas e all'allora affermato Krzysztof Zanussi.

Dopo il 1986 e il mio definitivo ritorno a Gorizia, l'Azzurro Scipioni è rimasto nel substrato quasi mitologico della mia vita. E' stato protagonista del più convinto avvicinamento all'arte cinematografica, sulla scia delle prime esperienza quasi nascoste presso il Modernissimo di Gorizia. Non ci sono più entrato, ma ogni volta che ho camminato per le belle vie del quartiere Prati, non mi sono mai dimenticato di transitare in Via degli Scipioni e di gettare uno sguardo, a quel cancello, a quella scaletta verso il seminterrato, ai manifesti ancora invitanti con tutti i colori del Pianeta Azzurro. Da allora non è mai venuta meno la passione per l'arte del cinema, anche se il tempo della vita - o meglio delle diverse vite - ha cominciato a scorrere in un altro modo, lontano dai fasti, ma anche dalle opportunità nascoste della Capitale.

Oggi Azzurro Scipioni chiude, Roma perde un punto di riferimento culturale di enorme importanza. Se lo portano via le regole anti-covid19 e forse anche il sempre meno marcato interesse per l'autentica riflessione esistenziale. Grazie a Silvano Agosti e a tutti coloro che hanno reso possibile questa piccola grande avventura. Come tante persone, romane e non romane, non la dimenticherò mai.  

mercoledì 17 marzo 2021

L'urgenza di un nuovo Concilio, per ricomporre lo scisma tra prassi pastorale e pensiero teologico

La questione delle unioni omosessuali, ritornata alla ribalta negli ultimi giorni a causa di un documento della Congregazione per la dottrina della fede, rileva il limite strutturale del pontificato di Francesco e nel contempo evidenzia l'urgenza di una radicale riforma del pensiero e dell'azione della Chiesa cattolica.

Francesco ha inaugurato una prassi pastorale del tutto innovativa e, per usare un'espressione giornalistica, "al passo con i tempi". Con i suoi gesti e le sue parole ha di fatto messo in discussione dottrine e perfino dogmi consolidati, realizzando di fatto le indicazioni di quella parte del dettato del Concilio Vaticano II che ha aperto sentieri da lungo tempo trascurati. Ciò vale per la linea del dialogo interreligioso, certo più sulla scia della Dichiarazione Nostra Aetate che sulle tracce della Costituzione dogmatica Lumen gentium. Lo stesso si può dire del confronto ecumenico con le altre confessioni cristiane, soprattutto con alcune espressioni del protestantesimo più che con la maggior parte delle chiese autocefale ortodosse. Molto importante è il dialogo propugnato con il mondo laico, con il forte accento pacifista e sottilmente antimilitarista che ha radice in alcuni capitoli della Costituzione pastorale Gaudium et spes. In questo quadro si innesta la passione comunicativa e l'impegno a farsi percepire come "primus inter pares", dove i "pares" non sono i vescovi o i sacerdoti, ma ogni essere vivente, da accogliere e amare in quanto "persona". La sua proposta è quella di una comunità ecclesiale non ripiegata su sé stessa, ma aperta alla condivisione dell'avventura della vita con ogni compagna e compagno di strada, indipendentemente dalla sua fede e dalla sua situazione di vita.

Tutto bello e nuovo insomma? Sì, se ci si limita alla figura simpatica, paterna e accogliente di Francesco, pastore che - come lui stesso spesso richiama - è in contatto con tutto ciò che è autenticamente umano e "odora delle pecore". Meno, se ci si domanda che cosa resterà della sua testimonianza.

Ciò che sembra più debole è la dissociazione fra la prassi pastorale e la riflessione teologica. La prima affascina credenti e non credenti, pur suscitando qualche rumorosa ma minoritaria perplessità da parte di riconoscibili e ristretti gruppi di tradizionalisti ultraconservatori. La seconda, per lo più celata dalle mura vaticane e delle facoltà accademiche pontificie, a lungo andare può contribuire a diffondere un senso di malessere. Proprio come è accaduto in occasione della pubblicazione del documento nel quale viene (assurdamente!) vietata la benedizione delle unioni omosessuali, suscitando l'impressione di una dissociazione tra il pensiero di un apparato ecclesiastico retrogrado e la parola/azione di un papa "progressista", peraltro per diritto canonico capo assoluto anche della struttura organizzativa della Chiesa stessa. 

In realtà, come non si possono porre in alternativa la filosofia e la prassi, così non si possono scindere la teologia e la pastorale. La relazione con la persona in quanto tale, consapevolmente o (di solito) meno, è molto influenzata dalla concezione del mondo che ciascuno di noi ha progressivamente costruito nella propria vita. Essa orienta la coscienza morale, individuale e sociale, come pure le scelte esistenziali e politiche. La Chiesa cattolica, anche in buona parte del dettato del Concilio Vaticano II, è ancora ancorata alla concezione della Creazione e della Rivelazione ispirata all'aristotelismo tomista e dogmaticamente definita nel Concilio Vaticano I. Esistendo un'unica Natura, espressione del "principio e fine di tutte le cose", essendo il "primo motore immobile" lo stesso Dio che si è rivelato in pienezza attraverso Gesù Cristo ed avendo questi affidato agli apostoli e ai loro successori il compito di interpretare autenticamente la parola divina presente nella Creazione e nelle Scrittura, il magistero della Chiesa ha il ruolo di determinare non solo ciò che compete alla vita dei fedeli, ma anche ciò che è conforme alla Natura e ciò che non lo è. Tutto ciò stride evidentemente con tutto il pensiero moderno e postmoderno, dove di postula all'opposto l'accettazione del fatto che esistono diverse concezioni del mondo e di conseguenza diverse visioni della natura e della morale che ne consegue. Dal punto di vista politico, è in fondo il principio della democrazia, dove la sempre fragile verità è determinata essenzialmente dal consenso della maggioranza. Non è l'ideale, certamente, ma è il superamento del suo opposto, cioè dell'assolutismo. 

Ora, una Chiesa che si presenta pastoralmente relativista e teologicamente assolutista, vive in sé stessa un'inevitabile dissociazione che crea disagio (non necessariamente negativo) fra i fedeli. Come superare questa distinzione? Con un nuovo Concilio, urgente. Esso deve essere molto aperto, secondo l'orizzonte inclusivo della persona di papa Francesco, ma anche molto determinato a superare l'impasse dogmatico, mettendo in discussione radicalmente la Tradizione codificata, senza necessariamente cancellarla, ma sicuramente superandola. 

Certo, c'è un rischio da correre. Una Chiesa cattolica che rinunci a essere la coscienza morale di tutti, che non si ritenga esclusiva (o piena) depositaria della Verità, che non attribuisca al suo capo la prerogativa dell'infallibilità, che cessi di essere potenza politica ed economica, smantellando il sistema di potere capillarmente diffuso in tutte le Nazioni, pronta a perdere tutti i propri immensi privilegi... perderebbe la maggior parte della sua forza profana. A quel punto, senza tanti riflettori planetari, potrebbe dissolversi nel nulla oppure, ben più probabilmente, dovrebbe semplicemente tornare alle origini, povere, umili, apparentemente perdenti, del suo fondatore e dei suoi primi discepoli. Perchè non provarci?

lunedì 15 marzo 2021

Non si possono benedire le unioni omosessuali. Uno scivolone nell'era Bergoglio...

E' stato pubblicato oggi un documento della Congregazione per la dottrina della fede, nel quale vengono dichiarate "illecite" le benedizioni alle persone che vivono un'unione omosessuale.
Il testo farà sicuramente discutere, in quanto il divieto - addirittura di una semplice benedizione, non soltanto di un sacramento! - è fondato su un concetto filosofico che da tempo non veniva invocato tra le mura Vaticane: l'unione omosessuale non sarebbe "ordinata al disegno del creatore". In altre parole, esiterebbe un ordine naturale riconoscibile nella creazione e pienamente manifestato nella rivelazione. Pertanto il magistero della Chiesa - in questo caso la Congregazione per la dottrina della fede con un pronunciamento che deve essere necessariamente approvato dal Papa - può dettare le regole da seguire non solo in campo teologico, ma anche filosofico, è in qualche modo "custode della Natura".
Il duro documento vaticano sembra contraddire la più volte esplicitata volontà di Francesco, che in una famosa intervista aveva affermato che "gli omosessuali hanno il diritto ad avere una famiglia", senza peraltro specificare, se intendesse quella costituita con la loro unione o quella di provenienza che li dovrebbe accogliere cordialmente. "Sembra", appunto, perché in realtà l'attuale Vescovo di Roma non si è mai espresso su questo argomento in termini in grado di intaccare l'attuale situazione della teologia morale, limitandosi a qualche battuta - non sempre del tutto cristallina - nel corso di qualche dialogo con i giornalisti. Aveva anche insistito sulla necessità che gli Stati riconoscano le unioni civili, garantendo così una tutela legale, guardandosi bene dall'avviare un iter legislativo di questo tipo nel "suo" Stato Vaticano, nel quale egli detiene il potere legislativo, esecutivo e giurisdizionale. 
C'è di più. Viene detto che "la Chiesa benedice l'uomo peccatore", ma "non può benedire il peccato". Con queste parole si definisce l'omosessualità un peccato, riportando indietro le lancette della storia della Chiesa almeno di 60 anni, prima cioè del Concilio Vaticano II.
Certo, non si capisce bene il senso di un pronunciamento del genere in questo particolare momento. Potrebbe trattarsi di un "siluro" a Francesco, costringendolo ad approvare una posizione molto distante dai suoi atteggiamenti e dalla più volte conclamata vicinanza ai diritti delle coppie omosessuali. Ma in questo caso, dovrebbe avere il coraggio di smentire i propri stessi uffici, anche per non creare una riprovevole confusione tra chi riconosce nelle sue parole nuovi accenti e chi rimarca che il documento della Santa Sede, dato per approvato, sembra essere stato scritto nel Medioevo prossimo venturo.
Oppure potrebbe essere un'ulteriore prova di una sensazione più volte espressa. Francesco sembra disinteressarsi alle questioni della classica teologia morale, preferendo insistere sulla centralità della persona, in qualunque situazione essa si trovi. I suoi gesti - compreso l'ultimo, straordinario viaggio di pace in Iraq - sono così eclatanti e potenti da suscitare ben maggior plauso e interesse nel mondo rispetto alle questioni di lana caprina enucleate dalle Congregazioni Vaticane.
Se così fosse, però, sbaglierebbe. Certi insegnamenti del passato, soprattutto nell'ambito della sessualità, hanno rovinato letteralmente la vita a milioni di credenti che hanno ritenuto loro dovere obbedire a prescrizioni, a volte molto discutibili, a volte evidentemente assurde. Dotarsi di un buon gruppo di studiosi in grado di riformare, attualizzando sulla base dei fondamenti biblici, i diversi settori della teologia, potrebbe permettergli di continuare a essere un punto di riferimento saggio e spontaneo, ma anche di consentire alle sue intuizioni personali di trasformarsi in insegnamento e in struttura in grado di perdurare al di là del suo stesso percorso esistenziale.
Per esempio, sul tema specifico, perché non accettare l'amore omosessuale come un sacramento? Perché non può esserci un matrimonio tra persone dello stesso sesso che sia "segno visibile dell'amore di Cristo con la Chiesa, di Dio con l'umanità"?
Certo che potrebbe esserci! Ma appunto sarebbe necessario superare l'aristotelismo tomista dell'attuale Congregazione per la dottrina della fede e lasciare spazio a tutte le correnti influenzate dal pensiero moderno e postmoderno.
Ce la farà Francesco a riformare radicalmente la Chiesa o lascerà soltanto un buon esempio, nella speranza che qualcun altro porti avanti, in un nuovo Concilio, le istanze da lui soltanto suggerite?   

domenica 14 marzo 2021

Tamara Lunger e la spedizione invernale sul K2

K2 sta per Karakorum 2. E' la seconda montagna più alta della Terra, certamente la più difficile, unendo le problematiche legate al meteo e alla rarefazione dell'aria tipiche dell'Everest e degli altri "8000" a quelle più strettamente tecniche. Non a caso è rimasta fino a quest'anno l'unica vetta importante mai scalata in veste "invernale". La prima bandiera a sventolare su una sommità a lungo ritenuta inviolabile è quella italiana, grazie alla memorabile e molto discussa impresa di Achille Compagnone e Lino Lacedelli, il 31 luglio 1954, un anno dopo la conquista dell'Everest da parte di Edmund Hillary e Tenzing Norgay.

L'intervista rilasciata qualche giorno fa ad Avvenire dall'alpinista Tamara Lunger, oltre a essere un avvincente e drammatico racconto dell'assalto alla cima realizzato da diversi gruppi nel corso di questo inverno, è un toccante documento relativo alla sfida dell'essere umano alla natura "estrema" di certe montagne. 

La storia è cronaca già ampiamente documentata dai media. Gli sherpa nepalesi, normalmente provette guide e accompagnatori di scalatori provenienti da tutto il Mondo, questa volta hanno fatto tutto da soli e la prima assoluta del K2 invernale appartiene a loro. Tanto di cappello, successo straordinariamente meritato.

E' per tutti gli altri che il sogno si è trasformato in un incubo. Il tentativo di cordate multinazionali è finito in tragedia, con la morte di almeno cinque persone, annientate dal gelo, dalla stanchezza, dalle imprevedibili condizioni della montagna. La Lunger, una delle più esperte nell'ambito dell'alpinismo italiano, già "padrona" di alcuni 8000 e di altre imponenti e ardite vette, si è trovata nel cuore del dramma. Ha assistito da vicino, accompagnandola con la parola e il conforto, alla morte di un compagno di avventura scivolato. Ha trascorso molte ore nella solitudine degli oltre 7000 metri, senza sapere nulla degli amici che si erano inerpicati verso il passaggio chiave, detto "Il collo di bottiglia", dal quale non sarebbero più tornati indietro. A differenza di molti che in simili condizioni, a un passo dal coronamento del desiderio di una vita, hanno deciso di proseguire "costi quello che costi", Tamara è tornata indietro, portando sulle spalle, insieme allo zaino e alla solitudine, l'angoscia per il destino degli altri e la delusione per il fallimento dell'obiettivo.

Sono tanti gli alpinisti che hanno perso la vita, in questi ultimi anni, sulle montagne dell'Himalaya e del Karakorum. Il corpo di molti non è più stato trovato, alcuni sono stati lasciati nel luogo della morte, spesso triste richiamo ai limiti di chi transita, proseguendo il proprio cammino verso la meta. Un po' ciò dipende anche dall'incoscienza legata alla spedizioni commerciali che, con cifre astronomiche sborsate da chi si può permettere emozioni ad alto costo, accompagnano sulle più alte vette persone poco preparate o comunque costrette a lunghissime soste in fila oltre gli 8500 metri, quella che viene definita significativamente la "zona della morte". Non è a questi che va il pensiero, ma a coloro che hanno la montagna nella mente e nel cuore, per i quali il rischio del salire coincide con il mistero della vita. Sono i portatori e le guide che vivono sulle falde di tutte le più alte montagne del mondo e che dal loro lavoro traggono l'unica possibile fonte di sostentamento in luoghi dominati dalla povertà. E sono coloro che sfuggono al tran tran del quotidiano per sfidare essenzialmente sé stessi, affrontando con consapevolezza e competente prudenza l'ineliminabile possibilità di non ritornare mai più a casa.

Tra essi senz'altro Tamara Lunger che ricorda la spedizione invernale al K2 come un sogno divenuto incubo ma che nello stesso tempo si dichiara pronta a ripartire, nel ricordo di chi non c'è più, sospinta dal desiderio di andare sempre più in là degli angusti confini della comune ordinarietà. A Mallory, l'alpinista che con Irvine tentò nel lontano 1924 la scalata all'Everest, scomparendo entrambi senza aver lasciato alcuna prova di una possibile violazione della vetta, fu chiesto perché volesse scalare l'Everest. Rispose: "Perché è lì!" Forse a ogni alpinista che tenta di conquistare una cima si può porre una domanda simile: "Perché vuoi arrivare lassù? Perché tanta fatica? Perché mettere a repentaglio il dono più prezioso?". Chissà cosa ognuno potrebbe rispondere... Forse in modo simile: "Perché è lì e perché io sono qua". E' un altro modo per celebrare il fascino misterioso e arcano dell'Essere.  

sabato 13 marzo 2021

Zonarosseide...

Non è simpatico criticare "a prescindere". Ma in procinto di entrare in zona rossa, qualche perplessità la si può anche esprimere, come ai vecchi tempi (del presidente Conte). Si obbedisce, per carità, a prescindere, ritenendolo un dovere morale, anche se la trasformazione radicale del nostro modo di vivere e relazionarsi - ormai pian piano data per scontata e consolidata - qualche conseguenza comincia a portarla e qualche preoccupazione comincia a far capolino dalle pieghe di una sostanziale accettazione di tutto ciò che fino a questo momento è stato imposto.

Non si capisce la logica che porta alla chiusura dei musei i quali, purtroppo senza molte eccezioni, non sono certo luoghi di maggior assembramento rispetto ai negozi di alimentari. Si possono tenere "manifestazioni statiche", ma è vietato partecipare a eventi teatrali e cinematografici. 

E' proibito muoversi (senza necessariamente fare sport) se non nelle vicinanze di casa e in assenza di altri "concorrenti", ma si possono riempire - sia pur contingentate - le chiese e addirittura i cimiteri in occasione dei funerali, dove si può andare anche se non si è residenti nello stesso Comune.

Si raccomanda di restare a casa, quando è risaputo che l'aria del bosco o della montagna non può portare altro che giovamento. E si è ben lontani dal controllare la situazione dei trasporti pubblici e dei luoghi di lavoro dipendente, spesso assai penalizzati e penalizzanti per chi deve andare in fabbrica o in ogni caso non possiede un mezzo di locomozione privato.

Si possono vendere nei mercati in piazza gli alimentari e il vestiario, ma solo per acquirenti che abbiano meno di sedici anni, senza pensare che un sedicenne del terzo decennio del XXI secolo ha taglie non inferiori a quelle di un adulto. Che regola strana!

Rimane ancora aperta la questione dei confini, in particolare nell'Unione Europea dove ancora non ci sono regole uguali per tutti. Per rimanere nella zona goriziana, per andare in Slovenia senza doversi sottoporre alla quarantena, un italiano attualmente deve effettuare un tampone - a pagamento - valido sostanzialmente per una settimana, per entrare o rientrare in Italia, oltre che l'avviso all'autorità sanitaria territoriale, è necessario un tampone effettuato almeno 24 o 48 ore prima (a seconda della tipologia di test). Se poi una persona affettivamente legata a un'altra si trova a vivere in un Paese fuori dall'Unione europea, non c'è modo di incontrarsi, il legame non rientra nelle casistiche di eccezione alle regole.

Di fatto, in quest'anno trascorso, ci si è abbastanza dispersi in torrenti di regolette sempre più difficili da discernere e interpretare, ma non si è troppo investito in sicurezza sui luoghi più sensibili di vita - case di riposo, ospedali, scuole, fabbriche e luoghi di lavoro - lasciando alle sole restrizioni il compito di affrontare il diffondersi del virus. I risultati sono stati molto scarsi, se dodici mesi dopo sembra di trovarsi più o meno allo stesso punto, fatta salva la diffusione dei vaccini, anch'essa non esente da problemi.

Chissà perché è garantita la messa, mentre è impedito il teatro; è possibile riempire un parco giochi ma non un'ampia sala di cinema; si può partecipare a un funerale ma non salire su una montagna, si può stringersi su un autobus di città ma non uscire di casa se non per motivi di assoluta necessità.

Poi in realtà, accanto al divieto c'è sempre un "salvo..." che consente a qualcuno di cavarsela in ogni caso, senza per questo alleviare il disagio di chi non può più lavorare, incontrare i propri cari lontani, costruire nuove relazioni. 

giovedì 11 marzo 2021

Governo Draghi e pandemia. Il re è nudo?

Per il momento, non è molto chiaro che cosa sia cambiato nel passaggio dal governo Conte a quello Draghi. 

E' vero, sono stati cambiati i "vertici" tecnici e vengono risparmiate le leggendarie conferenze stampa a reti unificate, ma il balletto di notizie di questa settimana riporta l'orologio al tempo precedente. Per una settimana i giornali si sono prodigati nel comunicare che cosa accadrà, zone rosse rinforzate, week end chiusi in casa, settimane di lockdown per permettere la vaccinazione di massa, ecc. Da mercoledì, no da venerdì, no da sabato, forse da lunedì... Certo, ci sono da interpellare le Regioni, le categorie lavorative e chi più ne ha più ne metta, ma anche i più entusiasti del nuovo Governo non possono che constatare le stesse difficoltà e le stesse forme di (non) comunicazione precedenti.

Intanto il virus dilaga e si è giunti a un numero di contagi veramente impressionante, soprattutto dopo che si sono almeno leggermente affinate le modalità di trasmissione dei dati. Tuttavia, se le decisioni politiche vengono prese sulle basi della situazione di una settimana prima, è difficile pensare di poter contenere il contagio.

Anche per ciò che riguarda il piano vaccinale, non si capisce bene cosa ci sia di nuovo. La priorità va agli ultraottantenni, poi tocca ai 70-80nni e alle categorie vulnerabili, poi ai 60-70nni, ai vulnerabili leggeri sotto i 60 anni, a chi ha meno di sessanta anni. Il tutto dovrebbe svolgersi lasciando la precedenza alle realtà lavorative maggiormente esposte all'incontro con le altre persone a rischio. A parte che più o meno lo schema ricalca il precedente, in realtà il vero problema è la presenza o meno dei vaccini, dal momento che si possono impostare tutti i progetti possibili, ma se manca la materia prima è tutto inutile.

Una differenza purtroppo c'è e non è certo positiva, anzi, se ulteriormente confermata darebbe ragione a chi vede nel Governo Draghi una possibile svolta verso i più evidenti interessi macroeconomici e finanziari dell'Unione Europea. Si tratta della propugnata proposta di stabilire delle priorità in ambito planetario, favorendo i Paesi più ricchi e penalizzando quelli dei Continenti più poveri. Alcuni plaudono a tale prospettiva, altri la definiscono semplicemente immorale oltre che controproducente dal momento che la globalizzazione non pone certo confini ai virus e una situazione grave in una zona non può che ripercuotersi in tutte le altre. La posizione di Draghi ricalca di fatto quella, criticatissima, della Moratti in Lombardia e allarga il funesto salviniano "Prima gli italiani" a un sostanzialmente identico "Prima gli europei".

Ma (per ora) quasi tutti tacciono, Draghi non si tocca. Prima o poi qualche bambino dirà: "Il re è nudo"?

domenica 7 marzo 2021

Grazie don Renzo!

Questa notte il covid si è portato via don Lorenzo Boscarol, attuale parroco a Ronchi dei Legionari e referente dell'Arcidiocesi di Gorizia per la pastorale del lavoro.

Al di là dei tanti incarichi e delle importanti responsabilità, la parola che maggiormente sintetizza il suo cammino è, nel senso etimologico del termine, la Com-passione. Presente in ogni circostanza e in ogni settore della vita sociale, politica e culturale, ha sempre trovato il tempo per comunicare una straordinaria forza di lealtà, condivisione e vicinanza, soprattutto nei momenti di sofferenza e di difficoltà. Caratterizzato da un'onestà e da una coerenza indefettibili, non ha avuto paura di prendere posizioni anche scomode e di essere dichiaratamente di parte. Dalla parte dei più deboli, degli oppressi, dei poveri. 

E' stato prete appassionato, affascinato dalla persona di Gesù di Nazareth, criticamente obbediente alla Chiesa universale e locale, un'immagine viva della realizzazione del Concilio Vaticano II nelle città e nei paesi del territorio. Ha saputo indicare la strada ma anche mettersi in discussione, insegnare per tantissimi anni ma anche imparare da ogni incontro, denunciare le ingiustizie ma anche accogliere e perdonare chi le compiva. Ha costruito costantemente ponti, soprattutto cercando di mettere a disposizione il proprio tempo e le proprie energie per la concordia e la pace tra le popolazioni slovene, friulane e italiane provate dalle tragedie del XX secolo. Ha contribuito, anche con incarichi specifici in ambiti amministrativi, allo scioglimento delle barriere confinarie del territorio Goriziano e a una rinnovata stagione di amicizia e collaborazione.

E' stato un bravo giornalista, collaboratore e poi direttore per molti anni di Voce Isontina e di altri strumenti di comunicazione sociale. Ha saputo portare la stampa diocesana dagli angusti limiti della cronaca ecclesiastica alla dignità di media in costante collaborazione con tutti, proponendo una scrittura sempre efficace, a volte tagliente, in ogni caso in grado di suscitare interesse, discussione e spesso anche esplicita opposizione. Con una passione indomita per la verità, don Renzo ha vissuto sulla propria pelle le incertezze e i dubbi della post-modernità, tentando una complessa sintesi tra il discutibile fascino di una Tradizione al tramonto e le contraddittorie potenzialità dell'era informatica. Pur essendo chiaramente ed esplicitamente schierato in diversi ambiti della socialità, anzi forse proprio per questo è stato sempre molto aperto al dialogo i sostenitori delle stesse istanze di condivisione e accoglienza dell'altro, anche se appartenenti ad altri versanti e istituzioni, a livello politico e ideologico. 

Con uno sguardo sempre attento alla storia, ne ha saputo ricavare gli insegnamenti più intensi e drammatici, senza per questo rinunciare mai a guardare in avanti, alle nuove generazioni alle quali non si è mai stancato di raccomandare impegno e responsabilità. La sua attenzione nei confronti della persona, prima di qualsiasi giudizio sulle idee e sulle azioni, lo ha portato a credere nell'amicizia e a lasciarsi circondare da un affetto intenso e sincero da parte di tutti coloro che lo hanno conosciuto e amato.

La "partenza" di don Renzo segna una tappa importante per la storia dell'Arcidiocesi di Gorizia ma anche di tutti coloro che lo hanno conosciuto e apprezzato. Da laici e da credenti - sempre che si possa dare un significato a tali virtuali distinzioni - si tratta ora di raccogliere il testimone e di portare avanti il suo messaggio, essenzialmente incentrato sull'annuncio del Vangelo della Misericordia e dell'Amore. 

sabato 6 marzo 2021

Numeri, numeri, ancora sui numeri...

Ci sono due schieramenti contrapposti. Da una parte chi ritiene che la pandemia sia una gigantesca tragedia arrestabile soltanto con il vaccino, sostenendo la propria tesi attraverso l'elenco di numeri impressionanti. Da un'altra parte, all'opposto, si relativizza l'impatto del virus proponendo altre cifre o un'interpretazione diversa delle stesse. I primi ritengono che l'unica soluzione possibile sia il vaccino obbligatorio per tutti, i secondi invocano la libertà di scelta nel rispetto delle comunque da quasi tutti riconosciute necessarie prescrizioni ordinarie individuali. I primi richiedono una chiusura generalizzata di quasi tutte le attività umane, nell'auspicio che tale sacrificio affretti la soluzione del problema. I secondi, al contrario, pensano che sia sbagliato serrare tutte le porte, soprattutto ma non solo quelle degli spazi scolastici, immaginando le conseguenze psico-fisiche di una troppo prolungata privazione delle relazioni sociali.

Tra questi e quelli c'è il mistero dei numeri, facile da rilevare a livello microscopico, più difficile a livello nazionale o planetario.

Sempre riferendosi a un paese qualunque del Friuli, ieri il dato ufficiale fornito puntualmente ogni giorno dal Dipartimento di Prevenzione competente proponeva n.4 persone risultate positive al controllo e n.3 in isolamento precauzionale, per lo più parenti. La Protezione Civile, peraltro esplicitamente in ritardo sulla fornitura dei dati di 20 giorni, dava 19 casi conclamati. Nel dubbio, l'ascolto dei medici di medicina generale ha fornito un dato ben più allarmante, indicando in "alcune decine" le persone contagiate, tra sintomatiche e asintomatiche. Come spiegare queste discrepanze? Con la difficoltà di accelerare gli accertamenti attraverso tampone. E' infatti difficile che l'asintomatico, chiamato a verificare la sua situazione dieci giorni dopo aver incontrato una persona contagiata, senza peraltro ricevere alcuna ingiunzione di quarantena, rimanga tranquillamente chiuso in casa per tutto il tempo. In ogni caso, deve almeno espletare le necessità quotidiane, dalla spesa alla posta a tutte le altre incombenze di ogni giorno.

Si può ben capire che una situazione del genere sicuramente non aiuta la lotta contro il virus che si diffonde in questo modo a macchia d'olio.

Ciò vale anche per le decisioni politiche regionali e nazionali, in certi casi anche comunali. Sulla base di quali criteri si stabiliscono i colori delle zone? Dilatando il caso in questione, se avesse ragione il Dipartimento si dovrebbe determinare una zona "gialla", se invece la protezione Civile una zona come minimo arancione. Se invece si ascoltassero le esperienze dei medici di base non ci sarebbe alcun dubbio, occorre decretare la zona rossa. Ci si può immaginare l'umore della gente, nel momento in cui le regole di una zona corrispondono a un livello molto leggero di rischio, mentre gli operatori sanitari dimostrano che in realtà la minaccia è molto grave. Il Sindaco dovrebbe prendere decisioni molto impopolari, almeno sul momento, ma i suoi poteri sono in ogni caso alquanto limitati e più che un controllo sugli spazi di proprietà comunale può esercitare qualche efficace divieto.

Ecco, in questo guazzabuglio è indispensabile che ci sia chiarezza. Altrimenti - esclusi gli "esperti", anch'essi tuttavia molto divisi - le posizioni dei "vax", dei "no vax" e dei "forse vax" non supereranno mai il livello della pura chiacchiera. 

venerdì 5 marzo 2021

Francesco e i cristiani dell'Iraq

Oggi Francesco incontra le comunità cristiane dell'Iraq, onorando in particolare quante e quanti hanno perso la vita, rimanendo fedeli fino all'ultimo agli insegnamenti evangelici della carità, del perdono incondizionato, della nonviolenza attiva. La visita va al di là dell'onore alle vittime e coinvolge altri aspetti forse meno noti, ma molto significativi, della recente storia del martoriato paese.

Nel mese di marzo 2003 è iniziata la seconda guerra del Golfo. Gli Stati Uniti, con il pretesto poi rivelatosi del tutto falso della presenza di armi di distruzioni di massa sul territorio iracheno, hanno scatenato una guerra che non è finita con la cacciata del dittatore, ma è durata praticamente fino a oggi con uno stillicidio di tragedie. Il popolo iracheno ha dovuto subire attentati, bombardamenti, distruzioni, isolamento, rapimenti, conseguenze a lunghissima scadenza del fallimento delle diplomazie del tempo o della piena riuscita degli squallidi obiettivi di controllo delle rotte del petrolio nel Medio Oriente.

Saddam Hussein è stato sostenuto dagli USA fino agli anni '80, riuscendo in un'azione di laicizzazione e modernizzazione del Paese i cui segni, ormai consunti dal tempo, si possono ancora riconoscere nelle strutture urbanistiche, nell'organizzazione sanitaria e nelle infrastrutture viarie. Impoverito dall'interminabile guerra contro l'Iran e successivamente messo in ginocchio dall'embargo internazionale seguito all'invasione del Kuwait, il Paese ha subito l'inasprirsi del regime dittatoriale di Saddam Hussein, il quale ha combattuto senza esclusione di colpi i rappresentanti filo-iraniani dell'Islam scita e le minoranze curde nel Nord, mentre ha sostenuto con convinzione i "suoi" sunniti e anche i cristiani.

Tra questi ultimi, rappresentati in almeno quattro diverse confessioni nell'ambito del cattolicesimo, dell'ortodossia e del protestantesimo, ci sono anche i Caldei, diffusi soprattutto nella zona centro settentrionale dell'Iraq. Come già segnalato, sono orgogliosi di aver preservato, almeno nella liturgia, la lingua aramaica parlata da Gesù. Per ragioni di strategia geo-politica, Saddam Hussein non aveva solo tollerato, ma anche favorito tale minoranza (circa il 2,5% dell'intera popolazione), consentendole di vivere senza problemi in un contesto certamente difficile. Molti diritti erano a essi riconosciuti, perfino il libero insegnamento della religione cattolica nelle scuole e una specie di concordato che consentiva libero culto ed efficace sostegno. 

Gli anni seguiti all'inizio della guerra del 2003 sono stati tragici e la "caduta" di Saddam Hussein e del suo fido ministro cattolico caldeo Tarik Aziz, ha segnato di fatto un ribaltamento di fronte. Mentre gli USA rafforzavano il loro potere economico e l'influenza politica sull'area, i nuovi governanti procedevano al più classico dei "repulisti", procedendo in forma ufficiale con le condanne a morte - non tutte poi eseguite - dei gerarchi di Hussein e in forma non ufficiale chiudendo gli occhi di fronte allo scatenarsi della violenza estrema propugnata dall'ISIS, cioè dal cosiddetto Stato Islamico.

Francesco oggi rende omaggio ai cristiani dell'Iraq che hanno perso la vita nei conflitti, nel ricordo di quanti - a cominciare da papa Wojtila e dall'allora Arcivescovo di Baghdad Warduni - si erano adoperati per evitare l'esplosione della furia bellica. Ma dovrà anche prendere atto di come purtroppo qualsiasi "sostegno" implicito o esplicito all'"uomo della provvidenza" di turno, non sia pagato dai vertici ecclesiastici, ma dai poveri fedeli, innocenti vittime sacrificali su altari da essi stessi sconosciuti. Il dramma tra l'accettazione del compromesso che consente di sopravvivere e la fedeltà fino alla morte alla propria coscienza ha trovato e trova nella storia dei cristiani dell'Iraq un ennesimo misterioso capitolo.

giovedì 4 marzo 2021

Francesco in Iraq, il coraggio di affrontare la Storia

Non mi ritengo proprio un "fan" dell'attuale vescovo di Roma, ma questa volta Francesco è stato davvero coraggioso e ha proposto un segno al di là ogni aspettativa. Il viaggio in Iraq, che si svolgerà in questi giorni, è veramente un evento di enorme importanza, sotto molti punti di vista.

E' certamente la visita a un Paese martoriato, devastato da guerre ininterrotte che hanno provocato milioni di vittime e hanno provocato violenza, divisione e stragi senza fine. La visita di un personaggio noto in tutto il mondo, le sue parole di pace che travalicano sempre il confine della cattolicità, si auspica portino un contributo importante alle relazioni tra le persone portatrici di culture, lingue, religioni, visioni del mondo alquanto differenti fra loro. 

E' il ritorno alle origini delle religioni del Mediterraneo, con la visita a Ur dei Caldei, il luogo da cui partì Abramo, forse introno a 4000 anni fa, per raggiungere la Terra di Canaan e divenire il capostipite dell'Islam, tramite il figlio Ismaele e dell'Ebraismo, tramite Isacco. Il significato interreligioso della visita in Iraq è immediatamente evidente, si tratta di riproporre ancora una volta il fatto religioso come un protagonista nell'edificazione della giustizia e della concordia fra i popoli e non nella distruzione della vita e del futuro. Ciò avviene non ad Assisi, serena e tranquilla città della pace francescana, ma a Baghdad e dintorni, dopo trenta anni di guerra, attentati, bombardamenti, violenze incredibili d'ogni sorta, dal massacro perpetuato da Saddam Hussein contro i curdi a Erbil al pazzesco conflitto decennale tra Iran e Iraq, dall'embargo internazionale che ha piegato i più poveri alle persecuzioni anticristiane dell'ISIS nella regione di Ninive, dai siluri americani sui rifugi dei profughi iracheni alle mine esplose nei pressi delle moschee, alternativamente scite e sunnite. La speranza è che la voce del papa sia ascoltata, che si portino avanti nuove relazioni, che si approfondisca una via di memoria in grado di oltrepassare le ingiustizie, senza calpestare la Verità.  

Ed è il passaggio lungo i sentieri della più antica storia "occidentale", la mezzaluna fertile dell'inizio della civiltà mesopotamica, dei miti legati alla torre di Babele ma anche alla simbolica della formazione dalla terra di Adamo ed Eva, alle vicende del simpatico profeta Giona, costretto suo malgrado ad annunciare la salvezza alla città (non in territorio di Israele!) di Ninive. Lì vivono i Caldei, un popolo numericamente esiguo - circa 600mila persone - che hanno attraversato i millenni fieri della loro appartenenza a un popolo e consapevoli di essere gli unici al mondo a parlare l'aramaico, la lingua parlata da Gesù, la cui versione antica, proprio quella originaria, continua a essere viva nella solennità della liturgia.

Nell'agenda di Francesco non potrà non esserci una parola riguardo ai diritti del popolo curdo, calpestati da tutti gli Stati nei quali è diffuso. Non potrà mancare un appello alla libertà nel Rojava e una sottolineatura della grande esperienza democratica, per lo più al femminile, soffocata nel sangue con la complicità dell'intera comunità internazionale.

Ci dovrà essere infine un richiamo allo svolgersi dei fatti. Ci sono precise responsabilità in ciò che è accaduto in Iraq e nella destabilizzazione dell'intero Medio Oriente seguita alla terribile "guerra preventiva" voluta da Bush. Gli attentati delle Torri Gemelle, l'11 settembre 2001, avrebbero potuto portare una riflessione generale sull'ingiustizia sistemica planetaria. Si è voluto scegliere una strada diversa, quella del "conflitto infinito" che all'inizio del nuovo millennio sembrava essere un'infelice battuta e che si è invece rivelato essere una tragica e permanente realtà.

Il Nord del mondo, i paesi più ricchi e potenti, con la scusa di "esportare" la democrazia non hanno fatto altro che garantirsi gli interessi economici e petroliferi, nonché seminare ovunque morte e devastazione, con una progressione impressionante che ha reso tutto il mondo molto poco sicuro. Ecco, forse questo Francesco in qualche modo dovrà proprio dirlo e se lo dirà il suo viaggio in Iraq potrebbe davvero segnare una pietra miliare nella storia. Il riconoscimento dei disastri provocati dal capitalismo, denunciati in uno dei più significativi luoghi simbolo e in un momento straordinariamente importante come quello segnato dalla pandemia, potrebbe essere davvero il germe spazio-temporale da cui potrebbe fiorire e fruttificare una nuova civiltà. Un po' come accaduto il giorno in cui Abramo decise di lasciare la propria terra (Ur dei Caldei appunto) per dirigersi verso un'altra landa ignota, con il coraggio e il desiderio intenso e profondo di fare della propria vita un'immensa avventura, nel contempo umana e divina. 

mercoledì 3 marzo 2021

Con-fini in comune. Uno scritto di Francesca Giglione

Francesca Giglione ha scoperto negli ultimi anni il fascino e la particolarità della città di Gorizia. E' un vero onore ricevere un suo scritto, particolarmente avvincente, intorno alle "nuove barriere", fisiche o giuridiche, imposte dalle regole finalizzate al contrasto della diffusione del coronavirus. L'impedimento non impedisce l'incontro, ma sollecita la riflessione. Un grazie grande a Francesca per questo intervento, nell'auspicio che sia il primo di una lunga serie...
ab


Mi avvicino piano al confine.

Lei poggia i piedi in Italia, lui in Slovenia. Saranno due amici? Due amanti? Sorella e fratello?

Che importanza ha: per la prima volta mi accordo più di quel che separa che di quel che unisce.

Una pattuglia dei carabinieri dal lato italiano sembra “controllare” che ognuno stia al suo

posto.

Qual è il tuo posto?

Sono certa che se l’avessi chiesto ai due che si sono dati appuntamento in Transalpina (per

incontrarsi senza trasgredire alle attuali regole) probabilmente mi avrebbero risposto che il

loro posto era rispettivamente “di là”, oltre la “linea di confine”.

Un confine che non avevo mai visto come separazione. Nulla contro quel che regola questo

particolare momento delle nostre vite, ma sono certa che per chiunque vedere qualcuno

separato, crea una sensazione inspiegabile. Anche per chi come me è nato “senza confini

divisori”, per chi non li ha mai vissuti se non sui libri di storia certe divisioni.

Italia e Slovenia, italiano e sloveno, Stara Gorizia e Nova Gorica: la vecchia e la nuova Gorizia.

Le Gorizia insomma. Due luoghi che forse solo con il duale della lingua slovena sarebbero

davvero definibili come un unico insieme.

Decidere di fermarsi in queste città di confine porta ad interrogarsi costantemente sulle

bellezze e sulle contraddizioni che questi territori vivono. Se da un lato è estremamente

affascinante condividere, dall’altro è surreale vivere, ancora oggi, difficoltà di integrazione,

marginalità e disuguaglianze dettate proprio da quella linea invisibile che si fa per qualcuno

ponte, per altri filo spinato.

Voglio continuare a camminare lungo questo confine consapevole di appartenere ad ambo i

lati e a nessuno dei due nello stesso momento.

Vorrei, in questo cammino, tendere mani a giovani e meno giovani per interrogarci insieme sul

perché non si respiri ancora, a pieni polmoni, aria di unione e comunione di idee, valori e vita.

Confini. Con fini in comune.

Quali i nostri fini in comune?

Francesca Giglione

martedì 2 marzo 2021

La Storia di Rosa, due esistenze intrecciate nello spazio del Mistero

E' uno di quei libri che lasci sul comodino, uno di quelli che "appena ho un attimo di tempo lo leggo".

Come tutto ciò che è importante, passa il tempo e quando meno te lo aspetti, te lo trovi in mano e cominci a sfogliarlo. Solo un istante di acclimatamento e poi, via... il libro scorre senza più poterlo fermare, zigzagando fra la mente e il cuore.

L'immagine cha la lettura mi ha ricordato è quella del catino dell'abside della Basilica  di Aquileia, l'elemento artistico della mandorla medievale. E' l'intersezione di due cerchi, lo spazio rivelativo, ciò che si può intravvedere, una specie di porta spalancata che introduce al mistero del divino e a quello dell'umano, nel loro distanziarsi e nel loro intrecciarsi. 

Nella Storia di Rosa, di Paola Cosolo Marangon, i due cerchi sono le vite di due donne, una madre e una figlia, raccontate ciascuna con un proprio tratto, originale e differente da quella dell'altra. Tra le due sfere esistenziali c'è uno spazio di intersezione. E' il mistero insondabile della morte. Il legame che si genera con il concepimento e il parto, diventa definitivo e inscindibile nell'istante della morte, vero elemento che collega il passato al futuro e in una condivisione di essere consente alla Vita di continuare a scorrere sulla Terra.

Il racconto "a due piani" è affascinante, scritto con tratto lieve, avvincente e sottilmente ironico. Si affacciano i problemi dei tempi, dal fascismo alla guerra da una parte, dalla ricostruzione postbellica al tempo di pace dall'altra. Ma sono come piccole cornici che incastonano perle di esistenza. La vita raccontata è sempre semplice, non ci sono luci e suoni, se non nelle descrizioni delle nozze che sconquassano il ritmo della quotidianità. Non c'è bisogno di una trama fantascientifica o straordinaria, perché, come scriveva Benedetto (il santo!), "è il quotidiano che diventa eroico e l'eroico quotidiano". 

Nella sottile ragnatela che caratterizza l'"io" e il "tu", a cominciare dal divenire costante del noi, nei rapporti fondanti tra genitore e figlio, di generazione in generazione, si svolge la maestà della Vita, la sublime avventura umana. Il concepimento, la nascita, la fanciullezza, l'amore, la maternità, la malattia, la morte si rinnovano incessantemente, in una ruota nella quale, per dirla con Terzani, ogni fine è un nuovo inizio. E così via.

Nella profondità delle parole di Paola Cosolo Marangon non mancano riferimenti culturali interessanti, dalla grandi letture delle protagoniste, con il prevalere solenne dei classici alle semplici canzoni italiane dei vari periodi, quasi delle discrete colonne sonore a scandire il proseguo delle narrazioni.

Al di là delle dissertazioni e delle analisi che ogni lettore ovviamente può trovare, scavando in questo piccolo tesoro letterario, resta un aspetto che a volte è difficile ammettere, chissà perché soprattutto procedendo da una sensibilità maschile. Il libro è commovente e in alcuni passaggi, non ci si accorge subito, ma una lacrima spunta, nel realizzarsi di una com-passione profonda che consente anche al lettore di affondare le proprie radici, come quelle dei fiori, nel profondo della terra, per incontrarsi o almeno immaginare di poter ritrovare, i volti dimenticati dei propri cari.

Un libro assolutamente da leggere,.

PAOLA COSOLO MARANGON, Storia di Rosa, Forum 2020