lunedì 29 gennaio 2024

Alpinisti e pellegrini, rivoluzionari del nostro tempo


La pianura è orizzontale. Forse permette di conoscere meglio il singolo particolare, ma inevitabilmente impedisce la visione d'insieme. 

La montagna è verticale, consente di allargare lo sguardo, di cogliere ampi orizzonti, senza per questo costringere a rinunciare al particolare.

Lo sanno bene gli alpinisti che la sfidano - o forse accettano la sua sfida - contemplando dall'alto panorami incredibili, nello stesso tempo attenti alla minima incrinatura della roccia, possibile minimo appiglio o appoggio.

Cosa spinge un essere umano ad affrontare la fatica del salire verso una vetta, l'adrenalina di affidare la propria vita a un chiodo piantato in una fessura incerta, il rischio di scivolare sul ghiaccio o di essere travolti da una valanga?

La risposta più sensata l'ha forse offerta George Mallory. A chi gli chiedeva perché ci tenesse così tanto a  scalare l'Everest, diceva lapidariamente "perché è lì!". Era uno che se ne intendeva, forse con il compagno di cordata Andrew Irvine è stato il primo a mettere piede sulla cima più alta del mondo. E' un grande e irrisolto giallo alpinistico, prima di precipitare negli abissi nepalesi, l'8 giugno 1924, avevano provato la gioia di essere arrivati in vetta? Probabilmente non lo si saprà mai.

In fondo gli scalatori sono un po' come i pellegrini di una volta, quelli che, armati soltanto di bastone e fragile bisaccia, camminavano per anni o per tutta la vita, dipendendo totalmente dalle bizzarrie della Natura e dalla fragile fiducia negli esseri umani.  

Raccontano un'"altra" vita, rispetto a quella ordinaria, talmente diversa da non essere comprensibile a chi è immerso nello "squallido quotidiano", non riuscendo o non potendo alzare lo sguardo. La folla che si assiepa intorno ai binocoli del Rifugio Locatelli, segue con apprensione le avventure dei "ragnetti" che si inerpicano sulla parete strapiombante. Sono così piccoli, così indifesi, apparentemente spersi  nell'immensità della Cima Ovest di Lavaredo. 

Proprio l'assoluta inutilità del loro gesto mette in discussione l'obiettivo dell'ordinaria funzionalità di ogni istante. La monotonia dell'essere costringe e a pensare che non esistano alternative. Si nasce, si cresce, ci si innamora, si entra nel tran tran, quando la salute tiene si invecchia e poi si muore. Così è sempre stato e così sempre sarà.

E poi arriva lui, lo scalatore che, appeso al chiodo il seggiolino che ondeggia sull'abisso, si prepara a dormire nella solitudine della notte alpina, immaginando le difficoltà del giorno successivo. Oppure giunge il viandante, con la sola ricchezza dei suoi piedi scarnificati dalle piaghe e degli occhi grandi capaci di penetrare fin nell'intimo del cuore umano e al di là del velo che copre il segreto dell'esistenza dell'Universo.

Dove vanno? Perché gli scalatori rischiano la vita per conquistare l'inutile, quando ormai gli stessi meravigliosi panorami li si può contemplare, raggiungendo le montagne con l'auto o con al funivia? Perché i pellegrini, i profughi, i viandanti non hanno una casa, un lavoro, una famiglia? Cosa cercano nel loro instancabile cammino?

Cercano essenzialmente quello che ogni essere umano desidererebbe, ciò che la civitas del consumo ha atrofizzato, sostenendo e soprattutto convincendo ogni membro inconsapevole della società dell'opulenza, che il valore dell'avere sia più importante di quello dell'essere. Sì, ciò accade scindendo pericolosamente i due ausiliari della lingua italiana, contrapponendoli, così come i Nord del Mondo si contrappongono ai Sud, difendendo il diritto di possedere e negando quello di vivere. 

La banalità dell'esistere è la fonte della noia, radice profonda del sonno della ragione che genera mostri, come dal titolo di uno delle celebri acqueforti di Francisco Goya (1799). 

L'alternativa che riporta l'essere umano alla sua essenza è l'accoglienza della sfida, l'accettazione del rischio. Quello che lo scalatore e il viandante dimostrano, è che si può dare un senso non utilitaristico alla vita, anche senza far del male agli altri, ma sfidando sé stessi nell'orizzonte della Bellezza assoluta.

L'alpinista estremo e il pellegrino assoluto sono dei rivoluzionari, testimoni credibili del primato dello spirito sulla materia, proprio per questo sono un richiamo che inquieta l'anima degli stanziali, a riscoprire il senso del tempo e dello spazio, contrastando l'ingiustizia e cercando di essere ovunque costruttori di pace.

domenica 28 gennaio 2024

Lavori pubblici a Gorizia: se pòl saver qualcosa?

Nesuna intension de far polemike, solo me piasessi saver come che so 'ndade e come che andran le robe.

So bene, anche per esperienza personale, che i lavori pubblici sono la delizia e la croce di ogni amministratore e degli uffici che collaborano con lui. Per questo, sono consapevole di quanto spesso si verifichino incidenti di percorso, a volte imprevedibili, a volte meno, che ostacolano e prolungano all'infinito la durata delle operazioni.

Ciò non toglie che sarebbe interessante, per il normale cittadino, poter conoscere la risposta ad alcune immediate domande: per esempio, ammettendo e sperando che effettivamente gli ascensori al castello siano finalmente inaugurati entro la prossima estate, quanto è costata, nell'insieme, tutta questa vicenda, partendo dal 1999 e arrivando fino al 2024 (comprendendo ovviamente anche temi e costi relativi al personale del Comune impiegato nella lunghissima "via crucis"?). Nel 2011, quando fu "bocciato" dai tre saggi il referendum cittadino, proposto dal Forum per Gorizia, Legambiente e altre associazioni ambientaliste, si gridava allo scandalo perché un eventuale blocco dell'iter avrebbe comportato una penale di circa 200.000 euro. Quanti milioni di euro sono stati investiti in più, negli ultimi 13 anni, rispetto ai costi preventivati in quel tempo? Senza contare, ovviamente, i costi di gestione, dei quali peraltro si è parlato anche recentemente sui giornali locali.

Un'altra domanda riguarda i ritardi. E' bene aprire tanti nuovi cantieri, ma è necessario spiegare con chiarezza i motivi dei tanti ritardi che si accumulano sulle opere pubbliche. Certo, ci possono essere tante cause, la pandemia, la frana, il fallimento di una ditta, i materiali scadenti. E' però necessario dirlo, spiegarlo e, poi ognuno farà la sua parte nel portare il messaggio agli altri cittadini. Se non ci si scusa e non si spiegano le cose adeguatamente, è difficile contenere il malumore.

Ora, ecco fra gli altri, tre piccoli esempi, uno dei quali mi sembra essere stato portato all'attenzione dei consiglieri nell'ultima seduta del Consiglio Comunale, quello relativo alla paesaggisticamente assai bella e storicamente straordinaria strada del Calvario. Il cartello del lavori indica la conclusione del tutto entro il 3 febbraio 2023. E' passato un anno e l'accesso alla sommità del monte è precluso, così come la scalinata storica che attendeva effettivamente da anni di essere adeguatamente ripristinata. E' passato il centenario della prima guerra mondiale, sono trascorsi altri sei anni, la Capitale della Cultura sarà la volta buona per una sistemazione complessiva dell'intera area?

Gli spalti del Castello - non tutto ciò che si prevede e che si spera sia realizzato senza intoppi, ma solo la suggestiva balconata pedonale che si affaccia sulla Rožna dolina - sono chiusi dal tempo del lockdown. Sono in atto gli opportuni interventi di consolidamento e messa in sicurezza che avrebbero dovuto essere completati entro il 4 ottobre 2023. Sono passati da allora quattro mesi, siamo sulla dirittura d'arrivo oppure occorre aspettare ancora molto? 

Infine la Valletta del Corno, è stata presentata come il Central Park di Gorizia. La conclusione dell'intervento è molto attesa, il ripristino di una zona preclusa da decenni ai cittadini, al di là dell'iperbole, può effettivamente dare un grande respiro alla vita della città. E può anche restituire al povero fiume Koren, che tanto ha fatto di buono in passato per Gorizia e per i Goriziani, almeno una parte della dignità che indubbiamente si merita. In questo caso il cartello, anche se imbrattato, parla chiaro: la conclusione del tutto - non solo del primo lotto, la cui fine ancora comunque non si vede - avrebbe dovuto essere intorno al 31 maggio 2022. Sono passati quasi due anni, è lecito sapere quando si chiuderà questa vicenda e, se e quanto siano costati questi ritardi?

Ecco, alcune domande alle quali sarebbe bello ricevere risposta, come ci insegnavano la saggia Sonia Santorelli e la tenace Rosa Maria Forzi, quando ci istruivano su cosa fossero la trasparenza amministrativa e la partecipazione attiva dei cittadini alla tutela del bene e dei beni comuni.

sabato 27 gennaio 2024

Giornata della Memoria 2024

Begunje, monumento ai Sinti vittime del nazismo

Vi propongo oggi la mia riflessione, tenuta a Gorizia, davanti al Monumento dedicato ai Deportati nei campi di sterminio durante la seconda guerra mondiale. E' un po' lunga, ma può servire come spunto di approfondimento, in questa Giornata della Memoria 2025.

Lepo pozdravljeni vsi skupaj. Buona giornata a tutte e tutti voi qui presenti.

In realtà non stiamo vivendo buone giornate e mai come quest’anno la “Giornata della Memoria” si presenta da una parte come urgente occasione di riflessione, dall’altra come pietra d’inciampo che disturba la retorica del politicamente corretto.

Opravičujem se slovenskim tovarišem, govoril bom v italijanščini, z nekaj krajšimi poudarki tudi v slovenščini. Kolikokrat v teh dneh slišimo izreči besede s močnim čustvom: Jamais plus, Mai più, nikoli več!? Vendar se te besede vse bolj zdijo zgolj retorična vaja, ko jih postavimo pred dramatičnost sedanjosti.

Inizio modulo

Quante volte in questi giorni sentiamo pronunciare con vibrante emozione le parole: Jamais plus, Mai più, Nikoli več!? Ripeterlo tutti insieme, costantemente, non è tuttavia sempre il modo per evitare che i tragici eventi si possano ripetere. C'è invece il rischio che tale rituale stracciamento di vesti, trasformi il necessario ricordo in una melensa e deresponsabilizzante condanna di eventi che, se non interpretati nel contesto attuale, vengono confinati in un passato che per quanto terribile, non disturba di fatto più nessuno.

La realizzazione del »mai più« passa invece proprio attraverso il coraggio della scelta individuale, in particolare di quella che un tempo si chiamava obiezione di coscienza. Don Lorenzo Milani ricordava che »l'obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni«. I gerachi nazisti, a Norimberga, giustificavano i loro crimini sostenendo di »aver obbedito agli ordini«, o, in altra versione, di »aver applicato la legge«. Ecco, se ogni tedesco e ogni italiano non avessero compiuto scelte che hanno portato al nazismo e al fascismo e se poi non avessero obbedito agli ordini, Hitler e Mussolini non avrebbero avuto alcun ruolo nella storia della Germania e dell'Italia. Pensiamoci bene, quanto sia importante l'assunzione della responsabilità individuale...

In realtà la memoria, se è autentica, è sempre divisiva perché – come ci ricordava Stojan Pelko il 30 dicembre scorso citando le tele squarciate di Lucio Fontana – essa è come una ferita che strappa una parte dall'altra, che costringe ad attraversarla per poterla curare. Un po' come, citando un noto filosofo italiano, suggeriva: "Di fronte al peso della memoria dobbiamo essere irragionevoli (deraisonnable)! La ragione è l'eterno cartesianesimo. Contro Cartesio, bisogna scegliere Galileo: il più bello è pensare "contro", pensare "nuovo". Spesso il ricordo impedisce la resistenza, il rifiuto, l'invenzione."

E' proprio questo che vogliamo portare avanti oggi, in una Giornata che finalmente torni a non essere scontata e che ci metta di fronte a questioni delicate e scomode, che occorre affrontare: il genocidio che si sta consumando nella striscia di Gaza non ci consente di fare finta di niente. La »memoria divisiva« è l'unica che può consentire il riconoscimento e la denuncia dei semi di razzismo dai quali sono nate e purtroppo sono di nuovo cresciute, le venefiche piante del fascismo e del nazismo

E' con questa premessa che ricordiamo oggi le vittime di tante inenarrabili tragedie verificatesi nel corso del XX secolo. Il nostro pensiero va a 17 milioni di esseri umani, donne, uomini e bambini – ebrei, ma anche rom, sinti, omosessuali, oppositori politici, persone portatrici di varie disabilità, testimoni di Geova - tutti innocenti, indifesi e inermi, trascinati nelle camere a gas e, come cantava Guccini, »passati per un camino«. Facendo memoria della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, da parte dell'Armata Rossa, il 27 gennaio 1945, si devono ricordare anche tutte le altre vittime del nazismo e del fascismo negli altri campi di sterminio – anche nella »nostra« Risiera di San Sabba – e nelle ricorrenti stragi attuate in Italia e in Europa, dalle SS, ma anche dalla Wermacht, come pure dalla Decima Mas. Quest'ultima, con il golpista Junio Valerio Borghese, collaborò attivamente con i soldati tedeschi in tutto il nord Italia e si rese protagonista, anche autonomamente, di rastrellamenti, vessazioni, esecuzioni di civili, torture talmente gravi da suscitare perfino le proteste dei funzionari della Repubblica di Salò. Era questa l'organizzazione onorata dai »miti vecchietti« che lo scorso sabato sono stati ricevuti con i loro inquietanti labari e con tutti gli onori nel Municipio di Gorizia.

Lo sterminio voluto da Hitler con la complicità di Mussolini, rappresenta il male assoluto, ma è anche l'esito inevitabile dell'affermarsi delle ideologie che presuppongono l'intolleranza, il razzismo, l'ipernazionalismo, il crimine sistematico, che portano il nome di fascismo e nazismo.

Nella »memoria« odierna possiamo a buon diritto aggiungere il triste e purtoppo lunghissimo elenco delle stragi di innocenti, uccisi per rappresaglia o per appartenenza culturale e religiosa. Il »mai più« dovrebbe essere amplificato dal ricordo non solo degli enormi numeri, ma anche di ogni singola vittima dell'estrema violenza che ha generato i campi di sterminio.  

V Italiji na primer se spominjamo tudi na pokole nedolžnih civilistov leta 1944: Sant'Anna di Stazzema – stotine nedolžnih in neoboroženih mrtvih –, Marzabotto – skoraj dva tisoč nedolžnih in neoboroženih umorjenih in mnogo drugih krajev, katerih imena nas opominjajo na podobne tragedije.

(Dato che quest'anno ricorre l'ottantesimo anniversario dell'evento, consentitemi anche un ricordo più »personale«. Si tratta dell'eccidio della villa del Focardo, presso Firenze dove, alla vigilia dell'arrivo degli Alleati, il 3 agosto 1944, i soldati tedeschi hanno fucilato sul posto Luce e Anna Maria – di 26 e 18 anni – soltanto perché portavano un cognome ebreo e la loro madre Nina Mazzetti, moglie di Robert Einstein, cugino diretto di Albert. Le uccisero senza pietà, davanti agli occhi delle cugine, ospiti degli zii, risparmiate perché non ebree. Una di esse era mia madre.)

Come dimenticare inoltre ciò che hanno compiuto gli italiani nella Primorska durante il fascismo e in Slovenija durante la seconda guerra mondiale? Per chi non se le ricordasse, ripetiamo le inqualificabili parole razziste di Mussolini nel 1920, ben prima dell'emanazione delle vergognose leggi razziste del 1938: Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. Io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani. Ljubljana, tra il 1941 e il 1943, è stata trasformata in un campo di concentramento a cielo aperto affidato alla custodia degli italiani, da dove non si poteva né entrare né uscire. Facciamo memoria delle stragi di civili, del »si uccide troppo poco« di Robotti, dell'incendio di decine di paesi – recentemente documentato in un intenso film di Nadja Velušček e Anja Medved; non dimentichiamo i crimini fascisti attuati in Jugoslavija e in tutti i Balcani, le deportazioni e la morte di migliaia di civili – donne, bambini, anziani - deportati in quanto sloveni nei campi di Borovnica, Rab, di Gonars, Visco, Sdraussina, Kostanjevica. 

Sarebbe importante nominare una a una tutte queste vittime. Per farsi un'idea, relativa al solo mondo ebraico, nel monumento memoriale di Yad Vashem, presso Gerusalemme, una voce scandisce ogni minuto – giorno e notte - ciascuno dei nomi degli uccisi. Occorrono più di dieci anni per nominarli tutti.

Ampak "nikoli več" ostane jalovo, če ni volje za iskanje vzrokov tega, kar se je zgodilo, če se ne vrneš nazaj v zgodovino in če nisi sposoben brati sedanjosti z drugačnimi kategorijami od tistih, ki so povzročile katastrofo.

Tornando al presente, al posto di quella che ho chiamato »memoria divisiva«, chi non vuole fare i conti con l'eredità del fascismo in Italia e anche nella nostra Regione, preferisce  invocare una cosiddetta “riconciliazione pacificante”, basata sulla revisione fantasiosa o pretestuosa dei dati storici e soprattutto sulla richiesta – implicita o esplicita - di collocare sullo stesso piano le vittime e i carnefici. Va senz'altro in questa direzione la legge 92/2004, emanata a grande maggioranza dal Parlamento italiano, che fissa la data della cosiddetta »Giornata del Ricordo« il 10 febbraio. Lo stesso si potrebbe dire, se non fosse stata dimenticata perfino dagli stessi che l'hanno proposta, della »memoria e del sacrificio degli Alpini« caduti nella la battaglia di Nikolajewka, fissata con la legge 44/2022 il 26 gennaio. Queste date portano a  porre sullo stesso piano situazioni totalmente diverse, proponendo un'assoluzione generale e un medesimo criterio di giudizio.

La memoria delle immani violenze e della volontà distruttiva di intere categorie di persone, che si sono verificate nei campi di sterminio e altrove, non può essere paragonata in alcun modo con il ricordo dell'esodo volontario dall'Istria e dalla Dalmazia, degli italiani che si sono sentiti minacciati dal nuovo Stato Jugoslavo. Il dramma delle foibe, nella sua versione più nota, è l'ultima pagina della seconda guerra mondiale, voluta e scatenata da Hitler e Mussolini. E' una pagina triste, la cui interpretazione deve essere lasciata agli storici di professione, non a fiction di pessima qualità, finalizzate solo a sollecitare le emozioni degli spettatori o ai video-scoop di giornalisti che vogliono dimostrare presunte tesi precostituite. La questione può essere riportata a rivalse politiche, in alcun modo a una volontà sistematica di cancellazione dell'identità italiana. Nel rispetto della sofferenza di chi è stato coinvolto, questi atti di guerra non c'entrano con la sistematica volontà di annientamento generale di donne, uomini e bambini, propugnata e portata avanti nella soluzione finale. Un soprassalto di precisione, in questo ambito, lo si deve soprattutto alle stesse vittime, anche a quelle ricordate nei monumenti del Parco della Rimembranza, i cui nomi sono stati recentemente oggetto di un'analisi approfondita, coordinata da Anna Di Gianantonio. A questo proposito, vorrei ribadire pieno accordo con la proposta dell'ANPI, affinché il Comune si adoperi per realizzare un monumento che ricordi gli oltre tremila deportati – soprattutto sloveni, ma anche ebrei e antifascisti italiani - passati per il carcere di via Barzellini e torturati, prima di essere condotti nei campi di concentramento o anche alla fucilazione. A essi il libro di Luciano Patat ha riconsegnato un'identità e la recente traduzione in lingua slovena ha riconsegnato i nomi e i cognomi originari, forzatamente  italianizzati nel ventennio.

Insomma, l'invito alla »riconciliazione« è in realtà un tentativo di porre, anche sul piano del giudizio storico, tutto sullo stesso piano, evitando in qualsiasi modo di parlare di ciò che è scomodo e può (anzi deve) generare divisioni. 

Tako kot se pogosto omenja v teh časih v Gorici, ko govorimo o odnosu z Novo Gorico v luči Evropske prestolnice kulture.

Ko gledamo sedanjost, med neskončnimi možnimi točkami, bi izbral dve, tisto, ki se nanaša na sprejem migrantov, in tisto, ki se nanaša na svetovni mir.

Una riflessione in più meritano oggi i temi dell'accoglienza e della guerra.

Tutto il Pianeta è in movimento. I conflitti infuriano almeno in trenta Paesi e costringono alla fuga popolazioni intere. La fame falcia milioni di vite umane, mentre nel cosiddetto »Occidente« si discetta sui divani televisivi sulla differenza tra i profughi dalle guerre e i migranti economici, che non avrebbero il diritto di fuggire dalla miseria. Di fronte a questa situazione cosa succede in Italia e in Europa (e non solo)? Che non sono mai state avviate autentiche politiche di accoglienza, mentre si sono moltiplicate quelle di difesa. Il fortino occidente si difende – qualcuno vorrebbe anche con le armi – dall'arrivo di decine di migliaia di poveri. C'è già una »Giornata delle memoria« delle vittime cadute nel corso delle migrazioni, ma ha un risalto infinitesimale, quasi nessuno la celebra, il 3 ottobre di ogni anno. Papa Francesco richiama spesso l'ecatombe di migranti nel Mar Mediterraneo, ma non dimentichiamo i morti nei fiumi e boschi del Balcani, i detenuti nei campi di concentramento in Turchia, in Libia e nelle isole greche.

Ma anche sotto i nostri occhi, abbiamo tanti richiedenti asilo »di passaggio« a Gorizia, assistiti nella fase dell'urgenza soltanto dal volontariato. Chi non ricorda qualche anno fa la galleria Bombi? Chi non sa cosa accade oggi, intorno alla stazione ferroviaria e alla Casa Rossa? Come si può dire »Mai più razzismo« e respingere oltre i confini chi bussa alle nostre porte, non accorgersi delle ferite e delle piaghe dei lunghi cammini, rifiutare quelle cure che Lorena Fornasir e Gianandrea Franchi prestano in Piazza Libertà, lasciare per mesi le persone affondate nel fango del Silos di Trieste? O anche far finta di niente – nella nostra bella  Gorizia/Gorica - davanti a cento poveri che ogni sera e notte, dal pieno dell'estate fino a qualche giorno fa, si sono riparati solo con una coperta portata da chi li assiste, in balia della pioggia, del vento e del freddo autunnale? Sono esseri umani, essendo qua fra noi dovrebbero essere considerati alla stregua di ogni Goriziano, con gli stessi diritti e gli stessi doveri, non come un ingombro da rimuovere per spazzare il salotto buono della città, in vista degli avvenimenti del 2025. Mi sembra difficile gridare »Mai più il razzismo« e poi ridurre le persone a oggetti da sballottare di qua e di là, negare addirittura ogni sostegno a chi chiede soltanto di avere un luogo nel quale pregare, guardare con sospetto ogni persona portatrice di una visione religiosa o filosofica diversa dalla propria.

Riguardo alla guerra, il tema oggi è più delicato che mai.

Če, zaradi časovne omejitve, pustim ob strani Darfur, Sudan in Južni Sudan, Jemen in mnoge druge kraje "kjer zemlja gori", se bom osredotočil le na dva konflikta, ki sta danes najbolj v središču svetovne pozornosti, tudi zato, ker bi se z njihovo razširitvijo lahko prešlo iz tega, kar mnogi imenujejo razpršena Tretja svetovna vojna, v dejansko vojno y upletenostjo celotnega planeta.

In Ucraina, la situazione era chiara fin dal primo momento. L'unica soluzione possibile era e continua a essere una ed esclusivamente una, quella della trattativa tra le parti in causa, in grado di garantire i diritti di tutti, compreso le popolazioni russofone della Crimea e del Donbass. L'Europa e gli USA non hanno voluto sostenere la forte iniziativa di pace promossa fin da subito dal Vaticano e da pochi altri Paesi. Hanno deciso di inviare le armi a Zelensky e anche l'Italia – con l'accordo di quasi tutto l'arco parlamentare – sembra voler continuare su questa strada. E così, senza sostanziali cambiamenti, centomila e più giovani soldati, e migliaia di civili, russi e ucraini hanno perso la vita nei due anni di questa quanto mai definibile »orrenda carneficina« e »inutile strage«. Non si può dire »Mai più la guerra« e continuare a pensare di risolvere la situazione, soltanto continuando a inviare armi nell'Europa Orientale!

E oggi non si può evitare un cenno a quella che i credenti chiamano Terra Santa. Ciò che Israele sta compiendo a Gaza è un genocidio. Bombardare sistematicamente un territorio già di per sé ridotto alla fame, provocare la morte di oltre 10mila bambini (su 25.000 caduti finora), cos'altro si può chiamare se non genocidio? Gli attentati di Hamas del 7 ottobre sono stati un gesto efferato, da condannare senza esitazione, possono essere spiegati ma non giustificati da ottanta anni di continue vessazioni e incredibili ingiustizie subite dal popolo palestinese. La reazione dell'esercito israeliano – sostenuto dagli USA e dall'Unione Europea - è totalmente scentrata e sproporzionata. Occorre riconoscere, con il segretario delle Nazioni Unite Gutierrez,che ciò che si sta verificando non è altro che un inaccettabile massacro attuato attraverso i bombardamenti e la riduzione di un'intera popolazione al rischio di morte per fame.

No, l'attuale politica dello Stato di Israele non può essere accettata o assolta, con il riferimento al pericolo dell'antisemitismo e alle prove subite dagli ebrei durante il nazismo. L'antisemitismo è un veleno da combattere in tutti i modi possibili, la persecuzione o l'oltraggio agli ebrei in quanto ebrei è stato e continua a essere un disonore per l'intera umanità. Ma in questa Giornata della Memoria 2024,  è necessario dire forte che anche qualsiasi altra persecuzione nei confronti di donne, uomini e bambini, motivata solo dall'appartenenza culturale o religiosa, è altrettanto un disonore per l'intera umanità. No quindi – nel mondo e nella nostra Capitale europea della Cultura - a ogni forma di razzismo, all'antisemirismo come all'islamofobia, all'omofobia, al maschilismo, alla xenofobia, al nazionalismo esasperato, alla schiavitù in tutte le sue forme e a qualunque ideologia che tenda a sminuire la dignità di ogni essere umano, unico e irripetibile. Si può e si deve quindi condannare senza alcuna esitazione l'antisemitismo, ovunque si manifesti, senza per questo rinunciare a esprimere una chiara condanna della strategia di guerra adottata da Israele contro i palestinesi della striscia di Gaza.

Torej, resnično "Nikoli več, Mai più", bi bilo danes verodostojno le, če bi ga spremljala enotna volja po izkoreninjenju vsakega znaka rasizma in nacionalizma v naši družbi, po sprejetju politik gostoljubja in solidarnosti do ljudi, ki prihajajo iz vsega sveta, po odvzemu zaupanja orožju kot orodju za reševanje planetarnih problemov, po ponovnem potrjevanju poti pogajanja kot edine možne, humane in racionalne rešitve, po zahtevi za takojšnje prenehanje sovražnosti v Ukraini, po prekinitvi genocida, ki poteka v Gazi.

Forse i pensieri odierni sono stati un po' diversi, rispetto alle cose da dire ritualmente in ogni Giornata della Memoria. L'obiettivo non era quello di celebrare asetticamente la memoria di un evento del passato, ma offrire dei criteri per contestualizzarlo nel presente e rendere concreto il rituale »mai più«.

Per questo, ringraziandovi per l'attenzione, concludo ribadendo:

Smrt fašizmu, svoboda narodu!

domenica 21 gennaio 2024

Kulturna prestolnica in filozofija miru. Capitale della cultura e filosofia della pace. Magistrski prispevek Stojana Pelka. Un magistrale intervento di Stojan Pelko.

Un'immagine del Convegno di Pax Christi del 30 dicembre a Gorizia
 Pubblico oggi, nell'originale sloveno e poi in mia traduzione italiana, il magistrale intervento del filosofo Stojan Pelko - responsabile del programma Capitale europea della cultura 2025 per GO2025 - sul tema “Pace e Capitale europea della Cultura. Lo ringrazio di cuore, perché nel suo discorso – già pubblicato sull’ottimo forumgoriziablog.it - ci sono molti spunti di riflessione che vanno oltre al contesto del Convegno sulla pace che si è tenuto il 30 dicembre presso la sede di Gorizia dell’Università di Trieste. Riguardano invece la situazione generale del mondo e la possibilità che l’umanità inverta la marcia e si impegni nella strada della vera pace e mai più della guerra.

Objavljam danes, magistrski prispevek filozofa Stojana Pelka - Programski vodja EPK 2025 - na temo "mir in Evropska prestolnica kulture". Z iskrenim srcem se mu zahvaljujem, saj v njegovem govoru - že objavljenem na odličnem forumgoriziablog.it - najdemo veliko miselnih vzvodov, ki presegajo okvir konference o miru, ki je potekala 30. decembra na sedežu Univerze v Trstu v Gorici. Namesto tega se nanašajo na splošno stanje sveta in možnost, da človeštvo spremeni smer ter se zavzame za pravo pot miru, nikoli več vojne.


Kulturna prestolnica in filozofija miru

Stojan Pelko

 

Buenu komu il pan.

Spoštovani, nalašč začenjam s stavkom v jeziku, ki ga ne govorimo, a ga vsi razumemo. Razumete ga tisti, ki govorite italijansko in ste torej doma v romanskih jezikih.

Razumem ga jaz, ki me materina slovenščina in babičina bosanščina delata za govorca slovanskih jezikov.

In verjamem, da ga razume precejšen del sveta, ki je kdajkoli v življenju slišal kaj španščine, francoščine, hebrejščine ali se morda učil latinščine.

He was as good as bread.

Ga je v angleškem izvirniku zapisal ameriški pisatelj bosanskega rodu, ukrajinskih korenin in židovskega porekla, Aleksandar Hemon. Nam, ki poznamo pisca in kraje, iz katerih prihaja, se zdi, da ga je najprej mislil v bosanščini: Bio je dobar ko kruh.

Poznamo ga, ker ga beremo – in ker smo ga povabili na Evropsko prestolnico kulture. Andrea Bellavite, ki me je povabil sem – in ki vam danes prenaša moje besede – je sedel zraven mene, ko sva ga poslušala v pritličju novogoriške knjižnice Franceta Bevka. Avtorjeve besede v bosanščini so do njega prihajale v brezhibnem italijanskem prevodu, zato je lahko razumel in začutil vse finese avtorjeve subtilnosti – in zato sva se lahko spogledovala in kimala drug drugemu. In na moje vprašanje avtorju, od kod drznost in pogum, da lahko stavke v tujih jezikih piše sredi angleščine, ne da bi potreboval prevodov v opombah na dnu strani, je pisatelj pojasnil, da ravno v Novi Gorici in Gorici še kako dobro razumemo, kako se nas besede primejo, kadar potujemo skozi svetove.

Kdor je že prebral Hemonov roman The World and All That It Holds (Il mondo e tutto ciò che contiene), je na koncu odkril, da cel roman dolgujemo štirim vrsticam pesmi, ki mu jih je med podpisovanjem knjig leta 2001 v Jeruzalemu zapela Rahela Pinto, potomka dveh glavnih junakov romana. Iz enega srečanja in nekaj verzov se je rodil eden najlepših romanov začetka stoletja.

Ali res? Ne, ni res: morala so se zgoditi cela partikularna življenja – in zgodbe se je moral lotiti avtor, ki je ta življenja znal dvigniti na nivo univerzalne zgodovine.

Zakaj nas torej Hemonov Svet (z malo in veliko začetnico) zadeva, nas tukaj, v Gorici, in nas zdaj, konec leta 2023?

Po eni strani zato, ker govori o stoletju, ki se je začelo v avstro-ogrskem Sarajevu in končalo v izraelsko-palestinskem Jeruzalemu. Ker govori o tem, kako je ljubezen močnejša od smrti, a tudi o tem, kako je vojna močnejša od miru. Zato o miru ne moremo govoriti, ne da bi govorili tako o Srebrenici kot o Gazi.  

Po drugi strani pa zato, ker bomo v EPK 2025 ravno v preteklih partikularnih zgodovinah poskusili iskati univerzalne zgodbe: enkratnost in hkratna univerzalnost sle po življenju in ustvarjanju slikarja Zorana Mušiča, enkratnost in hkratna univerzalnost osvobajanja norosti izpod okovov družbenega discipliniranja psihiatra Franca Basaglie, enkratnost in hkratna univerzalnost možnosti gradnje novega mesta arhitekta Edvarda Ravnikarja … To so naše zgodbe, to je naša zgodovina.

Naša zgodba je tudi Pasolini, ki je, zvest Matejevemu evangeliju, položil v usta svojemu Kristusu besede: »… nisem prišel, da prinesem mir, ampak meč.« (Mt, 10,34)

In tudi nedavno umrli Toni Negri, ki je v biopolitičnem abecedariju Du retour (ki sem ga iz francoščine prevedel v slovenščino kot Vrnitev), za geslo pod črko J najprej pomislil na »Jamais plus la guerre!« - Nikoli več vojne! In pojasnil: ker mu je vzela očeta, ki so mu fašisti dali piti ricinusovo olje; ker mu je vzela brata, ki je padel na fronti leta 1943; ker se je družina šele po dvanajstih bombardiranjih Padove zatekla na deželo, kjer pa so zavezniki dnevno bombardirali most, ki so ga Nemci vsako noč znova zgradili.

In vendar … in vendar Negri v najtežjih trenutkih vojne dobi, kot sam pravi, »nadomestnega očeta« v deset let starejšem partizanu iz Trenta, študentu medicine, ki je postal mož njegove sestre. In katere besede uporabi Negri v izvirniku Vrnitve za svojega svaka – očeta? »C'est quelq'un du bien.« Bil je dober tip.

Morda bi lahko rekli tudi »… dober kot kruh, buenu kome il pan«?

Dve zgodbi, več usod, isto stoletje. Družinske vezi in družba, ki jih strga s silo moči. Ali »nikoli več vojne« zares pomeni zgolj mir – ali pa se je mogoče sili zgodovine in teži spomina zoperstaviti kako drugače kot z nostalgijo ali tradicijo? Tu želim biti učenec »cattivo maestro« in vam povzeti, kaj sem se od njega naučil, tako skozi prevod kot skozi pogovore z njim v Parizu, Ljubljani in Benetkah. Takole pravi Negri, še vedno pod črko »J«:

»Soočeni s težo spomina moramo biti nerazumni (deraisonnable)! Razum je večno kartezijanstvo. Proti Descartesu je treba izbrati Galileja: najlepša reč je misliti »proti«, misliti »novo«. Spomin pogosto prepreči upor, zavrnitev, invencijo.«

In tu se Hemon in Negri ponovno srečata. Hemon v jeruzalemskem zaključku, ki je v resnici mitični začetek geneze njegovega romana, zapiše:

»Značilen simptom melanholije je, da si raje domišljamo zgodovino namesto prihodnosti, saj se nam prihodnost zdi nedostopna in negotova, medtem ko je preteklost vse, kar je, kar je mogoče v neskončnost reproducirati.«

Dovolite mi, da si, neskromno, kot motto naše skupne goriške evropske prestolnice kulture izberem prav to stavo na prihodnost, na invencijo in upor, kakor jo je imela na enem od bedžev napisana Rahela Pinto, ko je zapela Hemonu: Remember the Future!

Veste, kaj pomeni »spominjati se prihodnosti«? Ne vstopati vanjo v miru, temveč z mečem v pomenu razločevanja (kakor Lukov evangelij natančneje definira Matejev mir: »Mislite, da sem prišel prinašat mir na zemljo? Ne, vam rečem, ampak razdeljenost.« (Lk, 12,51).

Ko bomo gledali Mušičeve risbe trupel iz Dachaua, bomo mislili na trupla iz Gaze. In ko bomo gledali rdeče madeže na belih rjuhah, bomo mislili na Lucia Fontano: kadar je podoba prehuda, nobene barva ne zaleže – ampak je treba zarezati v platno.

In ker mi je Andrea v naslov postavil »filozofijo miru«, naj končam s filozofom, ki me je največ naučil o filozofiji in življenju – Gillesom Deleuzom. Prav podobo Fontaninega reza v platno uporabi za ključno prispodobo o ustvarjalni nuji umetnika (povzemam iz knjige, ki sta jo napisala skupaj s Felixom Guattaraijem, Kaj je filozofija?):

Ljudje si pred težo sveta delamo dežnike, potem pa v varnem zavetju nanje pišemo mnenja in slikamo klišeje. Resnični umetnik pa ne riše po marelah: ne, on zareže v to varno zavetno platno, da bi spustil skozi piš prepišnega kaosa, ki nam ponudi bleščečo vizijo nečesa novega, dotlej nepojmljivega. Zato se umetnik ne bori toliko s kaosom, kot s klišeji. In zato tudi umetnost ni kaos, ampak kompozicija kaosa, ki nam prinese vizijo.

Ko boste videli reze na naših podobah, plesih, filmih, gledaliških predstavah, romanih in pesmih, vedite, da gre za takšne reze – ne z mečem vojne, temveč z umetniškim rezilom razločevanja. Da bomo znali vedeti in videti, kdo je v tem našem kaotičnem svetu … buenu kome il pan. In ja, Hemon je obljubil, da se leta 2025 vrne! Hvala in mir z vami.


 
Città capitale della cultura e filosofia della pace Stojan Pelko

Buon pane a chi lo merita. Rispettabili, intenzionalmente inizio con una frase in una lingua che non parliamo, ma che tutti comprendiamo. La comprendono coloro che parlano italiano e sono quindi a casa nei linguaggi romanzi. La comprendo io, reso parlante dalle mie radici slovene e dalla lingua bosniaca di mia nonna. E credo che la capisca una buona parte del mondo che abbia mai sentito parlare spagnolo, francese, ebraico o che forse ha imparato il latino. He was as good as bread. Questo è stato scritto nell'originale inglese dallo scrittore americano di origine bosniaca, radici ucraine e origine ebraica, Aleksandar Hemon. A noi, che conosciamo lo scrittore e i luoghi da cui proviene, sembra che l'abbia pensato prima in bosniaco: Era buono come il pane. Lo conosciamo perché lo leggiamo, e perché lo abbiamo invitato a essere la Capitale Europea della Cultura. Andrea Bellavite, che mi ha invitato qui - e che oggi trasmette le mie parole a voi - era seduto accanto a me quando lo ascoltavamo al piano terra della biblioteca di Nova Gorica, traducendo le parole dell'autore dal bosniaco all'italiano con perfetta precisione. Così poteva capire e percepire tutte le sottili sfumature della sottigliezza dell'autore, e così potevamo scambiarci sguardi e annuire reciprocamente. Alla mia domanda all'autore, da dove derivasse l'ardire e il coraggio di scrivere frasi in lingue straniere in mezzo all'inglese, senza bisogno di note a piè di pagina, lo scrittore spiegò che proprio a Nova Gorica e Gorizia capivamo bene come le parole ci attaccano quando attraversiamo mondi. Chi ha letto il romanzo di Hemon, "The World and All That It Holds" (Il mondo e tutto ciò che contiene), ha scoperto alla fine che l'intero romanzo è debitore di quattro righe di una poesia cantata da Rahela Pinto durante la firma dei libri nel 2001 a Gerusalemme, discendente di due dei protagonisti del romanzo. Da un incontro e alcune versi è nato uno dei più bei romanzi dell'inizio del secolo. Ma è vero? No, non è vero: dovevano accadere intere vite particolari - e le storie doveva affrontarle uno scrittore capace di elevarle al livello di storia universale. Perché, quindi, il Mondo (con la maiuscola) di Hemon ci tocca qui, a Gorizia, ora, alla fine del 2023? Da un lato, perché parla di un secolo che è iniziato a Sarajevo nell'Impero Austro-Ungarico e si è concluso a Gerusalemme, israeliano-palestinese. Parla di come l'amore sia più forte della morte, ma anche di come la guerra sia più forte della pace. Quindi non possiamo parlare di pace senza parlare sia di Srebrenica che di Gaza. D'altra parte, perché nell'EPK 2025 cercheremo proprio nelle vite particolari passate storie universali: l'unicità e contemporanea universalità della sete di vita e della creazione del pittore Zoran Mušič, l'unicità e contemporanea universalità della liberazione dalla follia sotto la disciplina sociale del medico-psichiatra Franco Basaglia, l'unicità e contemporanea universalità della possibilità di costruire una nuova città dell'architetto Edvard Ravnikar... Queste sono le nostre storie, questa è la nostra storia. La nostra storia è anche quella di Pasolini, che, fedele al Vangelo di Matteo, pose parole a suo Cristo: "... non sono venuto a portare pace, ma spada" (Mt 10,34). E anche di Toni Negri, recentemente scomparso, che nel suo abecedario biopolitico "Du retour" (tradotto dal francese in sloveno come "Ritorno"), sotto la lettera J, pensò prima a "Jamais plus la guerre!" - Mai più guerra! E spiegò: perché gli aveva portato via il padre, a cui i fascisti avevano fatto bere olio di ricino; perché gli aveva portato via il fratello, caduto sul fronte nel 1943; perché la famiglia si era rifugiata in campagna solo dopo dodici bombardamenti su Padova, dove gli alleati bombardavano ogni giorno il ponte che i tedeschi ricostruivano ogni notte. Eppure... eppure Negri nei momenti più difficili della guerra trova, come dice lui stesso, un "padre adottivo" in un partigiano di Trento, di dieci anni più anziano, uno studente di medicina che diventa marito di sua sorella. E quali parole usa Negri nell'originale "Ritorno" per il suo nipote - padre? "C'est quelqu'un du bien." Era una brava persona. Forse potremmo dire anche "... buono come il pane, buenu kome il pan"? Due storie, molte vite, lo stesso secolo. Legami familiari e società che li strappano con la forza del potere. Ma "mai più guerra" significa davvero solo pace - o forse la forza della storia e il peso della memoria possono essere affrontati in modo diverso da nostalgia o tradizione? Qui voglio essere uno "studente cattivo maestro" e riassumere ciò che ho imparato da lui, sia attraverso la traduzione che attraverso le conversazioni con lui a Parigi, Lubiana e Venezia. Ecco cosa dice Negri, ancora sotto la lettera "J": "Di fronte al peso della memoria dobbiamo essere irragionevoli (deraisonnable)! La ragione è l'eterno cartesianesimo. Contro Cartesio, bisogna scegliere Galileo: il più bello è pensare "contro", pensare "nuovo". Spesso il ricordo impedisce la resistenza, il rifiuto, l'invenzione." E qui Hemon e Negri si incontrano di nuovo. Hemon nella conclusione a Gerusalemme, che è in realtà l'inizio mitico della genesi del suo romanzo, scrive: "Un sintomo caratteristico della melanconia è preferire immaginare la storia piuttosto che il futuro, poiché il futuro ci sembra inaccessibile e incerto, mentre il passato è tutto ciò che esiste, riproducibile all'infinito." Mi permetto, con un po' di presunzione, di scegliere proprio questa frase come motto della nostra comune capitale europea della cultura goriziana, incentrato sul futuro, sull'invenzione e sulla resistenza, come recitava Rahela Pinto su uno degli adesivi quando cantava a Hemon: Remember the Future! Sapete cosa significa "ricordare il futuro"? Non entrarci pacificamente, ma con la spada nel senso della discriminazione (come il Vangelo di Luca definisce più precisamente la pace di Matteo: "Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, vi dico, ma divisione." (Lc 12,51). Quando guarderemo i disegni di Mušič dei corpi di Dachau, penseremo ai corpi di Gaza. E quando guarderemo le macchie rosse su lenzuola bianche, penseremo a Lucio Fontana: quando l'immagine è troppo cruda, nessun colore basta - ma bisogna tagliare nella tela. E poiché Andrea ha posto in testa "filosofia della pace", concludo con il filosofo che più mi ha insegnato sulla filosofia e sulla vita - Gilles Deleuze. Usa proprio l'immagine del taglio nella tela di Fontana come metafora chiave della necessità creativa dell'artista (sto parafrasando da un libro scritto insieme a Felix Guattari, "Che cos'è la filosofia?"): Le persone si costruiscono ombrelli per ripararsi dal peso del mondo, e poi, al sicuro, vi scrivono opinioni e dipingono cliché. Il vero artista, tuttavia, non traccia linee guida: no, lui taglia in quella tela sicura e protetta per far passare il soffio del caos, offrendoci la visione splendente di qualcosa di nuovo, fino ad allora incomprensibile. Pertanto, l'artista non combatte tanto il caos, quanto i cliché. E per questo l'arte non è il caos, ma la composizione del caos, che ci offre una visione. Quando vedrete tagli nelle nostre immagini, nei nostri balli, nei nostri film, nelle nostre rappresentazioni teatrali, nei nostri romanzi e nelle nostre poesie, sappiate che sono tagli del genere - non con la spada della guerra, ma con la lama artistica della discriminazione. Per sapere e vedere chi è in questo nostro mondo caotico... buenu kome il pan. E sì, Hemon ha promesso di tornare nel 2025! Grazie e pace a voi

giovedì 18 gennaio 2024

Cari Goriziani, studiamo lo sloveno! Dragi Goričani, učimo se italijansko!

E' indispensabile che i Goriziani, in Slovenija e in Italia, conoscano almeno tre lingue: la propria, quella del vicino e l'inglese per comunicare con chi non vive o non proviene dal territorio. 

Si vive gli uni accanto agli altri. Eppure si può passare un'intera esistenza senza neppure accorgersi che la persona che ti passa accanto parla una lingua diversa dalla tua. Addirittura si può vivere in due città, distanti qualche centinaio di metri l'una dall'altra e non sapere assolutamente nulla di ciò che accade oltre la linea di demarcazione. Proprio come accadeva a Leopardi quando immaginava cosa ci fosse al di là del colle dell'infinito.

Quanto si conosce della letteratura, dell'arte, della cultura? L'ignoranza è imbarazzante e a volte abissale. Una Capitale europea della Cultura nella quale in generale ci si conosce ancora molto poco è fortemente condizionata da questa incapacità o difficoltà di reciproca comprensione.

Come non chiedersi "ma dove si era in tutti gli anni precedenti? perché nessuna scuola italiana ci ha insegnato lo sloveno?" Inoltre bisogna constatare che gran parte degli sloveni, a Nova Gorica, conoscono più o meno bene l'italiano, mentre a Gorizia quasi nessun  italiano, nel migliore dei casi, va oltre al dober dan.  

Certo, sarebbe stato indispensabile, anche in questi ultimi tre anni verso il 2025, attrezzare le scuole da una parte e dall'altra del confine con corsi mirati per gli studenti, italiano in Slovenija e sloveno in Italia. Ci sono molti corsi per adulti, ma spesso sono limitati a poche ore, mentre l'apprendimento serio di una lingua richiede molto impegno di studio, approfondimento e soprattutto conversazione. Ma se gli sloveni sono sempre costretti a parlare in italiano per farsi capire, da una parte subiscono un'evidente mancanza di rispetto, dall'altra tale atteggiamento diminuisce ulteriormente la possibilità di conversare.

Quindi, al si là delle tante belle cose che avverranno nel 2024 e nel 2025, occorre uno sforzo personale. E' indispensabile cercare di imparare lo sloveno, questo è un obiettivo che ogni cittadina e cittadino di Gorizia si deve prefiggere, per contribuire alla riuscita del grande evento. Certo, da adulti non è facile imparare una nuova lingua e anche chi cerca corsi lunghi e impegnativi non riesce certo a parlarlo bene. Ma è importante studiare, studiare più che si può, facendosi aiutare da persone competenti, per arrivare almeno a capire la lingua del vicino e a farsi capire. Poi ci sarà sempre un buon esercizio di pazienza e di comprensione da parte dei reciproci interlocutori. 

Un grazie enorme a chi si presta per favorire questa causa. Da parte mia in particolare vorrei ringraziare Sara Terpin, per i bei corsi online dei due ultimi anni scorsi e Rada Lečič, straordinaria conduttrice dell'avvincente "lettorato" di sloveno presso l'Area di Scienze Sociali e Umanistiche dell'Università di Trieste, dove sono accolti anche (purtroppo pochi) studenti italiani, alcuni dei quali ben oltre gli "anta". Il loro servizio, come quello di Aleksandra Devetak e di altri insegnanti sloveni, è il contributo più prezioso alla causa di una Capitale europea della Cultura non incentrata sulla visita di particolari monumenti, ma sulla contemplazione del miracolo dell'autentica unità nella valorizzazione sincera di ogni diversità.

Cari Goriziani, studiamo lo sloveno, dragi Goričani, učimo se italijansko!

martedì 16 gennaio 2024

Tempi duri per i troppo buoni

Uno crede di far bene, di essere utile agli altri, di promuovere il bene e poi si trova colpito, abbattuto, sradicato.

E' ciò che è accaduto agli involontari protagonisti di alcune storie rimbalzate per giorni e giorni sulle pagine dei giornali e sui rotocalchi televisivi in questi ultimi tempi.

Ci sono la guerra in Ucraina, quella in Medio Oriente e decine d'altre in giro per il mondo, c'è la crisi economica e aumenta in modo esponenziale il divario tra i pochissimi scandalosamente straricchi e gran parte dell'umanità sempre più clamorosamente povera.

Meglio pensare alla colletta raccolta a favore del giovane che ha perso la gamba nell'attacco di uno squalo o alla triste vicenda della titolare di una pizzeria che ha deciso di togliersi la vita, forse - per il momento proprio forse - anche a causa del presunto smascheramento di una suo dubbio utilizzo di tripadvisor.

Non si tratta di gettare la croce addosso a chi fa il proprio mestiere, i giornalisti e in questo caso i cosiddetti influencer. La loro caccia a eventuali equivoci e ambiguità, nell'ambito delle azioni di beneficienza o supposta tale evidenzia questioni che travalicano i fatti di cronaca. In alcuni casi, come in quello dell'ormai celebre pandoro Ferragni, la loro denuncia smaschera giochi d'affari che confinano con la truffa.  La caduta della stella suscita sentimenti di malcelata soddisfazione o di difesa d'ufficio, la dea è ritornata tra i mortali, agli estimatori un po' dispiace, gli invidiosi gioiscono, i più abboccano all'amo della distrazione di massa e cercano di esprimere un proprio, solitamente del tutto incompetente parere. Anche i pochi ai quali "non gliene frega un tubo", sbirciano sui social storcendo il naso con fare un po' snob.

C'è un punto che vale la pena di sottolineare, perché travalica i fatti di cronaca. I social trascinano costantemente personaggi famosi o sconosciuti dalla polvere agli altari, salvo rigettarli senza pietà nella polvere. I molti che non sono Napoleone tentano la via della relativamente facile notorietà inventandosi di tutto, ma successivamente non riescono a reggere le tremende pressioni dell'invasione mediatica. E' vero che "chi è causa del suo mal pianga se stesso", ma è altrettanto evidente che la stragrande maggioranza degli utenti non è in alcun modo preparata ai viaggi nel mondo virtuale. Se ovunque uno non ha in mano un telefonino che lo isola totalmente dall'ambiente circostante o se addirittura osa tirare fuori un libro e comincia a leggere, viene guardato con un interesse pari a quello che i primi Sapiens avevano nei confronti dei Neanderthal.

Ma non è questo il punto. Ciò che viene messo in discussione è il concetto di generosità. Chi fa qualcosa a favore degli altri, soprattutto se sente l'esigenza di comunicarlo ai quattro venti, viene considerato molto in gamba. Quando si vuole evidenziare il valore di una persona, spesso si dice che "fa volontariato" oppure che "pensa prima agli altri che a se stesso". Ma è tutto oro quello che luccica? Oppure chi utilizza il pensiero politicamente corretto, compie gesti ammirati e apprezzati dai più, dedica il suo tempo ad azioni sociali e si schiera dalla parte dei più deboli, è sempre disinteressato oppure si attende un ritorno sul piano economico, politico o semplicemente del prestigio personale? 

E' un tema da affrontare. Non è che il volontariato "ufficiale", altro non sia che un mezzo utilizzato dalle amministrazioni per evitare di assumere persone competenti e creare efficaci posti di lavoro? Non è che dietro ai buoni principi si nascondano altri inconfessati obiettivi, quali per esempio sfruttare il disagio altrui per attirare l'attenzione su di sé? Non è che le collette, le raccolte spontanee e quelle organizzate, siano un mezzo per sostituire le responsabilità di uno Stato, al quale con le tasse i cittadini offrono mezzi che dovrebbero essere sufficienti a curare un giovane con la gamba amputata da un pescecane, a sopperire ai danni provocati da un terremoto o a permettere anche ai più poveri una sopravvivenza dignitosa? 

Attenzione, la questione è delicata. Non si vuole mettere in discussione la gratuità del servizio che il vicino di casa può offrire, facendo silenziosamente la spesa per l'anziana inquilina del piano di sopra. Ci si domanda piuttosto se le continue richieste private di contributi per le più svariate motivazioni, contribuiscano effettivamente a migliorare un situazione generale che il "pubblico", in tutte le sue dimensioni, dovrebbe prendere in considerazione. In altre parole, c'è bisogno di molto più Stato, senza per questo mortificare del tutto l'iniziativa della società civile, nella misura in cui questa non sia autoreferenziale, ma veramente per il bene comune. La proprietà privata ha un senso, solo nel caso in cui sia condivisa e utilizzata per il bene di tutti.

domenica 14 gennaio 2024

La colonna all'inizio dell'antico sentiero per Sveta Gora

E' stata inaugurata e benedetta questa mattina la nuova colonna situata a Solkan, nei pressi del cimitero, all'inizio della salita che i pellegrini un tempo affrontavano per raggiungere Sveta Gora (Monte Santo).

Preceduti e seguiti dai canti del coro parrocchiale di Solkan, si sono alternati nelle riflessioni la responsabile del quartiere di Solkan, il vice sindaco di Nova Gorica e lo storico Jernej Vidmar. Dopo i discorsi, il rettore del santuario di Sveta Gora Bogdan Knavs ha benedetto il monumento.

Tutti hanno ripercorso la storia. Si è partiti dal tempo precedente la prima guerra mondiale, quando le colonne erano due, da una parte e dall'altra della strada. C'era anche una scritta in latino che invitava a salire la strada che conduceva ai doni di grazia che si potevano ottenere nel santuario. Anch'essa recentemente restaurata, c'era anche una fontana con un dipinto con l'apparizione di Maria alla pastorella Urška di Grgar - oggi un bel mosaico dorato che rappresenta la Madonna con il Bambino. Dopo la Grande Guerra le colonne sono state parzialmente ridotte in macerie e la costruzione della strada dell'Isonzo ha posto fine alla loro vicenda. 

La colonna oggi inaugurata è stata realizzata lo scorso anno. Porta l'iscrizione Pax, un'invocazione di pace per il mondo, per la Terra Santa, ma anche per l'Europa. Sulla punta c'è una fiamma, che ricorda la luce di Cristo e l'illuminazione della fede, che permette di affrontare con serenità le prove della vita.

I numerosi presenti hanno vissuto un intenso momento di fede e di preghiera, ma anche di conoscenza storica, relativa ad aspetti della realtà dei paesi che, senza il sostegno di questi momenti di memoria, rischiano di perdersi nello scorrere rapidissimo del tempo moderno.

Il pilastro, da ora in poi, tornerà a essere uno dei principali punti di riferimento di ogni cammino che congiungerà la pianura e la montagna con Sveta Gora. Ci sarà anche un altro elemento di riflessione, nel ricordo della chiesa di San Rocco, esistente qua prima della distruzione bellica. Davanti a essa, nel 1714, c'era stato il primo incontro tra i Tolminotti in rivolta e gli emissari dei nobili e dei governatori di Gorizia. Un grande murale dipinto sul cemento del viadotto della strada dell'Isonzo testimonia una delle più importanti lotte contadine del '600 e del '700 europeo.

sabato 13 gennaio 2024

La tragedia degli Einstein ricordata in un'importante mostra a Milano

In questo piccolo cimitero della Badiuzza, nel Comune di Rignano sull'Arno, dolcemente disteso sulle meravigliose colline toscane, sono sepolte Luce e Annamaria Einstein, morte rispettivamente a 27 e 18 anni, insieme alla loro madre Cesarina, detta Nina Mazzetti. Sono state uccise senza pietà dai tedeschi, in ritirata durante la seconda guerra mondiale, il 4 agosto 1944, nella villa del Focardo. Anche il padre, Robert Einstein, cugino diretto del famoso scienziato, riposa nello stesso cimitero. Si è tolto la vita quasi un anno dopo, il 13 luglio 1945, giorno del loro anniversario di matrimonio.

La famiglia Einstein era molto aperta, le due nipoti Lorenza e Paola Mazzetti erano state accolte come altrettante figlie e durante la guerra il Focardo era luogo di rifugio per altri parenti e amici, tra i quali Anna Maria Boldrini, mia madre, cugina delle due giovani uccise e figlia di Ada Mazzetti, sorella di zia Nina. La villa era frequentata da numerose personalità, legate al mondo ebraico e protestante, un ambiente assai vivace e ricco dal punto di vista culturale e sociale.

I soldati della Wermacht arrivarono due giorni prima degli americani ed ebbero il tempo di dividere le ragazze con il cognome Einstein e la loro madre dagli altri abitanti della villa. Robert si era nascosto nei boschi circostanti, avvisato del loro arrivo e convinto che i tedeschi cercassero soltanto lui per rapirlo e fare pressioni sul fratello Albert, impegnato negli Stati Uniti nella ricerca che avrebbe portato alla confezione della prima bomba atomica. I sopravvissuti, rinchiusi in una stanza presso il giardino, sentirono gli spari e quando uscirono trovarono i corpi delle donne uccise e videro le fiamme divampare dalla villa. I soldati si erano dileguati, lasciando dietro di loro soltanto morte e distruzione.

Al ritorno, Robert Einstein rimase senza parole. Per meno di un anno si ingegnò di sistemare economicamente le nipoti che gli erano state affidate, andando su e giù ogni giorno tra Rignano e Firenze. Poi per lui la vita non ebbe più alcun senso e decise di andarsene, lasciando a ciascuno dei parenti più stratte una lettera di saluto e di profondo insegnamento sul senso della vita.

Lorenza e Paola ripercorsero in tutta la loro esistenza gli avvenimenti dei quali erano state testimoni. La prima divenne una promessa del cinema, vincendo anche un premio per giovani registi a Cannes, con lo spettacolare film Togheter. Poi si dedicò alla letteratura, scrivendo numerosi testi, tra i quali il più famoso è "Il cielo cade", una reinterpretazione immaginata con gli occhi di una bambina dell'efferato assassinio. Fu premiata alla carriera alcuni anni fa, in occasione del Festival Amidei di Gorizia. La seconda si dedicò alla psicologia del gioco, alla letteratura artistica e soprattutto alla pittura, producendo un grande patrimonio di disegni e acquarelli, sempre ispirati agli eventi del Focardo, presentati in diverse mostre a livello internazionale. Se ne sono andate recentemente, una dopo l'altra, nel 2021 e nel 2022 e ora riposano anch'esse nel cimitero della Badiuzza. 

Mia madre Anna Maria affrontò con altro spirito quegli eventi, custodendoli silenziosamente nella memoria e affidandoli al ricordo dei suoi figli. Rimane oggi l'unica testimone vivente di quei terribili eventi, accaduti nell'agosto del 1944.

Tutti questi eventi sono raccontati in un'importante mostra allestita dal Memoriale della Shoah di Milano, dal 18 gennaio al 25 febbraio 2024. Come scrivono gli organizzatori, "le fotografie di Eva Krampen Kosloski, figlia di Paola Mazzetti, grazie alla curatela di Alessandro Cassin e al progetto di allestimento di André Benalm, tracciano i profili di un racconto, tra sogno e realtà, che ci parla di una famiglia, ma in realtà di molte altre, segnate dalle vicende della Shoah e della seconda guerra mondiale". La mostra, contestuale alla Giornata della Memoria 2024, sarà inaugurata il 18 gennaio, alle ore 18.30, con introduzione di Tommaso Montanari.

E' un bel modo per ricordare. Se qualcuno passa per Milano, non si lasci sfuggire questa importante occasione, di ascolto, di apprendimento, di memoria, in una parola, di autentica Cultura.

domenica 7 gennaio 2024

Ripensare il pacifismo, oggi

Mentre scende un preoccupante silenzio mediatico sulla guerra a Gaza, è necessario chiedersi che fine abbia fatto quello che un tempo si definiva "il pacifismo".

Negli anni '60 del XX secolo, la ribellione contro la guerra del Vietnam fu la scintilla, ma anche la forza dei moti del 1968. E' un anno del quale non sembra che si parli volentieri, il 45mo anniversario è passato del tutto in sordina.

I giovani di quegli anni si sono poi divisi, una parte è stata riassorbita dal procedere del liberismo. Si è accolta la carica di cambiamento riguardante le relazioni sociali, la rivoluzione sessuale, in parte anche l'identificazione tra il personale e il politico. Ma nello stesso tempo, ci si è fatti strada nei percorsi tracciati dal Capitale, inquadrati negli schemi professionali e dimentichi dell'ansia giovanile di pace e di giustizia. Alcuni hanno rinunciato per il venire meno delle convinzioni, altri semplicemente - ma anche comprensibilmente - per salvaguardare il bilancio familiare.

Un'altra parte ha cercato di resistere e di riproporre, anno dopo anno, le istanze di quel tempo, pian piano penetrato nel tessuto mitologico delle rispettive ideologie. Si è tornati in piazza, a volte in gruppi sparuti, a volte ancora con la speranza di mobilitare le masse, come accaduto il 15 febbraio 2003, in occasione della protesta globale contro l'imminente intervento militare americano in Iraq. Il problema sta nel fatto che i "marciatori" del 2003 erano più o meno gli stessi del 1968, passo un po' malfermo, slogan d'epoca, canti degli enormi Joan Baez e Bob Dylan. C'erano anche dei giovani, pochi, ci sono ancora, normalmente figli e figli dei figli dei protopacifisti.

Si è avuta questa impressione anche nei recenti eventi goriziani, gli assai interessanti convegni del 30 e del 31 dicembre e la "56ma marcia della pace", da Oslavia a Nova Gorica. I tradizionali mondi della sinistra culturale e del cattolicesimo militante si sono incontrati per celebrare un grido di pace quanto mai indispensabile in tempi come questi. Il problema è che tali atti, purtroppo, non suscitano oggi quasi nessuna reazione. 

Ai tempi delle marce del Vietnam, i giovani tornavano a casa e spesso si beccavano un solenne ceffone da genitori che avevano sperimentato l'avanzata "liberatrice" degli americani in Europa durante la seconda guerra  mondiale. Veniva mobilitata la polizia e sono ormai storiche le immagini di pesanti manganellate nei confronti di ragazzi entusiasti, sofferenti e inermi. Oggi nessuno si gira indietro, anzi, la marea di capelli grigi suscita un naturale moto di simpatia. Dietro alla bandiera arcobaleno sfilano un po' tutti, rivendicando la propria ortodossia e cercando di evitare qualsiasi slogan o discorso in grado di disturbare la "riuscita" spettacolare dell'avvenimento.

E così, mentre qualcuno richiama che oltre 20.000 persone, la metà bambini, sono state massacrate dall'esercito israeliano, marcia con i pacifisti anche chi in fondo ritiene che Israele abbia tutto il diritto di difendersi, dal momento che è stato vittima dei tremendi attentati del 7 ottobre. Mentre si invoca la trattativa come unica, proprio unica soluzione alla guerra in Ucraina e ovunque, c'è che ritiene sacrosanto l'invio delle armi da parte del cosiddetto Occidente alla "resistenza" guidata dall'inqualificabile Zelen'skj contro l'altrettanto inqualificabile Putin. Mentre ci si preoccupa enormemente per le guerre sotto i riflettori mediatici, non si sa neppure di cosa si stia parlando quando vengono nominati il Darfur, lo Yemen, il Sudan e così via.

Si marcia tutti insieme, si gode della compagnia, dell'incontro e dell'abbraccio con l'amico perso di vista dalla manifestazione precedente, ma non si può negare un certo senso di impotenza di fronte al bivio tra la polarizzazione e l'irenismo. Da una parte si è talmente radicati nelle proprie convinzioni e inseriti nell'area confortevole delle rispettive tifoserie, da ritenere inutile qualsiasi scambio di opinione con chi la pensa diversamente. Dall'altra si ha talmente paura di essere "inquadrati" in una posizione precisa, da costringere ogni incontro comune a un esercizio di dialettica finalizzato a evitare qualunque concetto che potrebbe - e forse dovrebbe - dividere o in qualche modo disturbare. 

E allora?

Allora ci sono, tra le altre, almeno tre urgenze.

La prima è domandarsi come intercettare l'interesse delle giovani generazioni, molto impegnate nel richiamo alle minacce del riscaldamento globale e della catastrofe ecologica, ma lasciate abbastanza sole nella loro ricerca e nella loro azione.    

La seconda è come creare luoghi di dialogo, anche di forte dialettica, che non presuppongano l'oscurare il proprio parere per non entrare in conflitto, ma siano incentrati sulla disponibilità a un ascolto aperto e disponibile a comprendere le ragioni dell'altro.

La terza è ritrovare la chiarezza esplicita e l'entusiasmo trascinante del primo pacifismo. Ciò significa manifestare con obiettivi espliciti e distinti, con slogan inequivocabili, per esempio riguardo all'invasione e al massacro di Gaza, all'invio delle armi all'Ucraina, alle implicazioni drammatiche del cambiamento climatico, alle chimere del liberismo selvaggio, alla critica alle politiche disumane che contrastano il movimento dei migranti in Europa e nel mondo. 

Solo una posizione precisa può interessare in modo continuativo anche i giovani e può consentire un confronto aperto, sereno e costruttivo con chi la pensa diversamente. E solo la forza della convinzione, condivisa da grandi gruppi di persone appartenenti a ogni generazione, può in qualche modo incidere sulle scelte di violenza e di guerra che in questo momento sembrano dominare e condizionare il nostro povero e fragile Pianeta.

sabato 6 gennaio 2024

Epifania e Apocalisse, una festa piena di luce

La parola greca Επιφανια (Epifania) è tradotta ordinariamente con il termine "manifestazione".

La tradizione cristiana riconosce in questo vocabolo la "manifestazione" di Gesù come re e signore della storia. Nelle case il presepio si arricchisce con l'installazione dei Magi venuti dall'Oriente portando i doni dell'incenso, dell'oro e della mirra. Nelle chiese, con l'acqua benedetta, si aspergono in particolare i bambini, sottolineando il loro legame con l'innocenza del neonato di Beth-lehem ("Casa del Pane"). Si tracciano i bilanci dell'anno trascorso e si annunciano le date delle principali feste di quello appena iniziato.

Dal punto di vista teologico, il concetto di "epi-fania" richiama la "rivelazione", intesa come l'irruzione nell'essere di qualcosa che prima non c'era. In questo senso si afferma che tutto ciò che esiste è stato estratto dal nulla. Tutto procede dall'Essere partecipante del Creatore che dal non-ente trae l'ente. La festa dell'Epifania ricorda allora che nell'ordinario scorrere - più o meno drammatico - della storia, avviene qualcosa di assolutamente nuovo e imprevedibile. Per i cristiani si tratta dell'assolutamente gratuito e non necessario intervento di Dio nella vicenda umana, per ogni essere vivente della contemplazione del miracolo sorprendente di ogni nuova nascita.

Nell'ottica biblica c'è un'altra parola greca che presenta la "rivelazione" e deriva dal verbo "αποκαλυπτω" (apokalypto). In italiano si parla di "apocalisse". Prima di pensare a situazioni potenzialmente catastrofiche, è bene rilevare l'esatto significato del verbo che corrisponde a "trarre dall'oscurità ciò che è nascosto". Si tratta di una visione del tutto diversa dalla precedente. Tutto esiste da sempre e per sempre, l'esserci è infinito ed eterno come l'Essere, in una prospettiva che in qualche modo richiama il panteismo oppure lo spinoziano "Deus sive Natura". In questo contesto l'apocalisse corrisponde all'illuminazione dei recessi più oscuri, alla straordinaria scoperta di ciò che già c'era, ma risultava invisibile, inaccessibile all'umana comprensione.

Nel concetto di Rivelazione coesistono i due significati, praticamente opposti, proponendo un'apparentemente impossibile conciliazione tra la "creazione dal nulla" - maggiormente perseguita dalla cultura occidentale - e l'illuminazione di ciò che esiste da sempre - più vicina alle intuizioni e alla sensibilità dell'Oriente. 

Questa scoperta del nuovo o illuminazione del permanente può dipendere dai misteriosi percorsi dell'umana conoscenza, come postulavano i movimenti gnostici dei primi secoli dell'era cristiana e propongono quelli post e ultramoderni. Oppure è resa possibile da un Maestro inviato dalla Fonte inesauribile dell'Essere, come proponevano e propongono gli assertori di un possibile intervento diretto del divino nella storia.

Chi ha ragione e chi ha torto? Nessuno, perché la risposta a questa domanda non si colloca nello spazio razionale della metafisica, bensì nei meandri imperscrutabili di una fede svincolata dalla ragione, anche dalle sue categorizzazioni storiche incarnate nelle diverse religioni.

Quindi, al di là di tutte queste riflessioni, non c'è nulla di sbagliato e meno che meno di offensivo nel contemplare con profonda emozione - nelle chiese o nell'intimo delle case, non certo nella laicità dei luoghi pubblici - quel bimbo adorato dai Magi, illuminato dallo splendore della Cometa di Natale. Ognuno può riconoscervi un simbolo del farsi Uomo di Dio oppure del semplice e quotidiano ripetersi del manifestarsi maestoso della Vita.

venerdì 5 gennaio 2024

Vlaki za koncentracijska taborišča. "I treni per i Lager" di Luciano Patat da oggi anche in lingua slovena

Oltre a essere interessante e importante, il libro di Luciano Patat suscita pensieri di profonda umanità.

Il suo lavoro certosino ha consentito di ricostruire molti aspetti della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio, fascisti e nazisti, di coloro che sono passati per il carcere di via Barzellini a Gorizia. La maggior parte di essi sono sloveni, tanti sono ebrei, quasi l’intera comunità locale, ma ci sono anche italiani antifascisti e appartenenti ad altre nazionalità.

Per iniziativa soprattutto di Igor Komel, direttore del Kulturni dom di Gorizia, con l'Istituto Friulano per la storia del Movimento di Liberazione, è stata pubblicata e sarà presto presentata ufficialmente la traduzione del libro in lingua slovena. Il lavoro si è dimostrato molto complesso e difficile, soprattutto per ciò che concerne l’ampio elenco di oltre 3000 nomi che costituisce l’appendice al testo. Il “problema” è che tutti gli internati sono stati registrati con il nome, il cognome e il paese di provenienza rigorosamente scritti in lingua italiana. Non si può onorare chi ha vissuto queste tragedie senza restituire almeno l’identità conferita con la nascita e il toponimo corretto del luogo dove si è cresciuti. Cercando di risalire alle origini, i traduttori - in particolare Igor Tuta e Pia Lešnik, con la collaborazione di Marko Marinčič - hanno compiuto un grande ma doveroso sforzo.  Se già è stato difficile ricostruire l’esatto nome delle località, ancora più delicato si è rivelato lo sforzo di ritrovare i cognomi, ossessivamente e violentemente trasformati dalla volontà di forzata italianizzazione del territorio perseguita nel corso del ventennio fascista.

Lavorando intensamente su ogni persona citata nelle liste, ricostruendo il percorso di detenzione dall’arresto ai lager, si è come sopraffatti da un moto di grande commozione e anche di rabbia. Ogni nome e cognome appartiene a una persona concreta, strappata con la forza alla vita quotidiana, trascinata verso una durissima prigionia e molto spesso verso la morte. Come non pensare alla notte o al giorno del rastrellamento, alle grida dei soldati, al pianto dei bambini, alle suppliche delle mogli? Come non provare vergogna per questa sistematica opera di distruzione della dignità di ogni essere umano? Come non sentirsi compartecipi con i deportati delle ansie, dei giustificati timori, dell’incertezza sul proprio destino? Quante migliaia di vicende individuali e collettive si intrecciano fra loro, quanti piccoli e grandi eroi dimenticati dalla storia hanno ritrovato almeno una menzione del loro transito in questa vita, grazie alla ricerca di Patat!

Un aspetto che colpisce molto è anche la capillarità dell’azione della polizia fascista e nazista. Da piccoli villaggi delle valli della Vipava, dell’Idrijca, dell’Idrja e della Soča sono stati portati via decine di abitanti, lasciando in essi un vuoto immenso, in un tempo già difficilissimo a causa della guerra. Perfino da borghi sperduti tra i monti, agglomerati di al massimo quattro o cinque case, la gente veniva trascinata sui camion militari per essere condotta al carcere di Gorizia, dove, dopo sommario processo, ciascuno veniva instradato verso il compiersi del suo destino.

La macchina del male assoluto ha funzionato fin troppo bene e se nel tempo è stata sconfitta, grazie all’impegno dei partigiani e degli eserciti di liberazione, lo si deve anche al sacrificio di queste migliaia di donne e uomini che hanno pagato con la deportazione e a volte con la vita, la loro silenziosa opposizione alla violenza del regime. Grazie al libro di Luciano Patat si ravviva la loro memoria, grazie all’impegno dei traduttori essi hanno recuperato anche il loro vero nome e la corretta dizione dei luoghi della loro vita. Hanno ritrovato, ahimé troppo tardi, ciò che una violenza ottusa e prepotente aveva loro sottratto, una vergogna fascista, ma anche italiana, che richiederebbe come minimo un’urgente assunzione di responsabilità, insieme a una necessaria, sia pur tardiva, richiesta di perdono.