mercoledì 31 maggio 2023

E se la Rimembranza si trasformasse in pace?

 

Gorizia, parco della rimembranza.

Della rimembranza di cosa? 

Dei soldati goriziani che avevano lasciato il territorio dell'Austria Ungheria e che erano morti con la divisa italiana durante la prima guerra mondiale. Era stato dedicato a loro il monumento, una specie di tempietto neoclassico con colonne sostenute da angeli della vittoria. Fu fatto saltare in aria nel 1944 dai domobranci, forse con la complicità degli occupatori tedeschi. Si decise di non ricostruirlo e di trasformare le rovine in una memoria triste.

Memoria di cosa?

Di quell'attentato, simbolo delle conseguenze dell'odio esasperato dall'assolutizzazione dei nazionalismi. Tutti i monumenti che circondano quello centrale ricordano corpi militari, dalla guardia di finanza ai carabinieri, dagli alpini alle forze di polizia, per arrivare fino ai Lupi di Toscana. Il più discusso dei segni della memoria è quello dedicato ai deportati dalla città, nel drammatico mese di maggio goriziano del 1945, ultima conseguenza della più sanguinosa guerra della storia, voluta da Hitler e annunciata con enfasi da Mussolini, davanti a un'enorme folla festante, il terribile 10 giugno 1940. Molti storici hanno messo in discussione, con documenti inoppugnabili, la stessa stesura dell'elenco dei nomi, molti dei quali non collegati al fenomeno della deportazione. Hanno anche rilevato come la correzione della lapide possa essere un atto di rispetto nei confronti di coloro che hanno effettivamente subito la deportazione e del ricordo dei loro familiari. Invece di cogliere l'occasione di adeguamento alla verità storica e di rispetto delle memorie, il monumento viene ampliato, tra l'altro con un vero e proprio lago di cemento a rubare ulteriore spazio alla terra che fu quella di un antico cimitero.

Non sarebbe male ripensare il parco della Rimembranza, affinché diventi uno spazio di riflessione di tutti. Si potrebbero ricordare anche gli antifascisti sloveni, vessati dalle persecuzioni nel ventennio.  deportati sloveni, italiani, ebrei che sono stati rinchiusi nel carcere di via Barzellini prima di essere avviati ai campi di concentramento e di sterminio. Si potrebbero ricordare tutte le vittime della prima guerra mondiale, i caduti civili e militari sotto tutte le bandiere belligeranti. Si potrebbero ricordare le donne che in diversi modi si sono adoperate per alleviare la sofferenza delle vittime.  Si potrebbero ricordare gli eroici disertori che si sono rifiutati di imbracciare le armi e di uscire dalle trincee e sono stati fucilati dai carabinieri. Si potrebbero ricordare le donne e gli uomini che hanno costruito la pace, hanno edificato ponti e abbattuto muri, come Franco Basaglia e tanti altri. Si potrebbero ricordare coloro che hanno impegnati la loro vita per promuovere gli ideali evangelici e gandiani della nonviolenza attiva, del disarmo radicale e della pace.

Non si tratta di cancellare il passato o di sradicare precedenti monumenti, ma soltanto di aggiungere, affinché il parco della Rimembranza sia il luogo del ricordo non soltanto di una parte, ma di tutti i Goriziani, compresi quelli che sono arrivati da poco e che ricordano i loro caduti, nel Mar Mediterraneo, sulla rotta balcanica, perfino - come Taymur - nel nostro bell'Isonzo. Solo così avrebbe senso anche togliere le macerie pericolanti del famoso monumento al centro del parco, riempire il vuoto con un bello spazio verde dove possano giocare e correre felici i bambini. Oppure lasciarlo così, ma dando a esso un nuovo significato, da spiegare adeguatamente a chi verrà a trovarci nell'ormai prossimo e fatidico anno 2025. 

lunedì 29 maggio 2023

Norgay e Hillary sull'Everest, esattamente 70 anni fa!

 

Il 29 maggio 1953, lo sherpa nepalese Tenzing Norgay e l'alpinista neozelandese Edmund Hillary raggiunsero la cima dell'Everest, il tetto del mondo con i suoi 8848 metri.

Furono molti a tentare prima di loro e gran parte di essi si fermarono prima, alle soglie della quota fatidica oltre la quale la rarefazione dell'aria rende quasi impossibile la respirazione. Tanti morirono, vinti dal gelo, dalla mancanza d'ossigeno o dalle difficoltà tecniche del percorso. Tra essi è indispensabile ricordare Andrew Irvine e George Mallory, i quali nel 1924 provarono a raggiungere la vetta. Secondo alcuni ci riuscirono, ma non fu possibile in alcun modo provare la riuscita della loro impresa, in quanto i due sparirono e i loro corpi furono ritrovati, uno ai piedi di uno strapiombo l'altro - appena nel 1999 - poco sopra quota 8000. 

70 anni fa quella di Norgay e Hillary fu considerata una delle più straordinarie imprese della storia, considerata quasi impossibile. Oggi, grazie o a causa dell'affinamento delle tecniche e soprattutto del lavoro pazzesco di centinaia di sherpa nepalesi che attrezzano i percorsi nei tratti più difficili, la salita all'Everest è diventata una meta turistica per danarosi avventurieri di tutto il mondo che vengono pressoché trascinati fino al culmine del loro desiderio. Non che non ci mettano del loro, sono ancora molti coloro che muoiono ogni anno e a giudicare dalle fotografie virali che circolano ovunque, l'attesa di procedere, a 8500 metri, sotto il famoso Hillary step, deve essere davvero snervante. Sono finiti i tempi delle solitarie di Reinold Messner, Neil Zaplotnik e di altri grandi nomi che hanno fatto la storia dell'alpinismo mondiale. Come tutto, anche l'Himalaya fa parte del fenomeno del turismo globale, con tutti i problemi che questo comporta.

Ma perché raggiungere il punto più alto del Pianeta? Cosa spinge un essere umano a rischiare la vita per mettere il piede sulla vetta della montagna più spettacolare? 

Nessuno ha mai messo un piede su queste nevi eterne, il vento fischia con una potenza incredibile, il respiro si fa di momento in momento più affannoso. Il peso dello zaino, unito a quello delle bombole a ossigeno, sembra volermi schiacciare come una lastra di marmo di un quintale sul guscio di una chiocciolina. Il gelo si impadronisce di ogni fibra dell'essere, mentre l'orizzonte si allarga. Ancora un passo, un altro passo, un ultimo passo. Ed ecco, "sopra di noi soltanto il cielo" e dentro di noi un senso di gioia infinita, che riesce a cancellare per un istante la paura del ritorno. La vetta è arrotondata, ma non è ripida, quanto ghiaccio, quante rocce, quanta fatica si sono mescolati per consentire la realizzazione dell'impresa. Ed è subito tempo di scendere, con circospezione, attenti a non lasciarsi trascinare dall'inebriante mal di montagna che genera allucinazioni o dalla voglia di sfidare un buio del giorno che non può che preludere a quello ben più oscuro della morte. Eppure la felicità è incontenibile, Irvine si lancia di corso giù per il pendio, scivola, il suo corpo rimbalza un paio di volte sulla neve prima di sprofondare nell'abisso. Mallory si calma e cerca di riflettere, ma l'angoscia cresce e lo convince e bivaccare, per non seguire il destino dell'amico. Scende per qualche centinaio di metri, si costruisce con le ultime forze una specie di riparo e si addormenta, per sempre, vinto dalla stanchezza e dal terrore. Così verrà recuperato 75 anni dopo, la fine di uno strano mistero. Hillary sa tutto questo e non si lascia ingannare, Tenzing Norgay è uomo di fede e sa come rispettare il "deus" Sagarmatha, come lo chiamano i nepalesi o Chomolungma, come venerato dai tibetani. Riescono pian piano a scendere, ecco il campo sulla spalla sud, a 8000, e poi gli altri, fino a quello base, dove finalmente la festa può cominciare. Non si sa se erano arrivati prima i due inglesi, prima di volare via con il vento. Ma questa volta è certo, l'Everest è stato conquistato. 

Il 29 maggio di 70 anni fa.

sabato 27 maggio 2023

Don Lorenzo Milani, cento anni ma non li dimostra

 

Barbiana, 1978
Il 27 maggio 1923 nasceva a Firenze don Lorenzo Milani.

La sua breve vita ha attraversato il tempo cupo del ventennio fascista, le tragedie della seconda guerra mondiale e la complessa fase della prima ricostruzione nell'Italia post bellica.

La sua missione di prete si svolge in un contesto politico nel quale la Nazione va cercando di riscoprire la propria identità, da una parte confrontandosi con i venti sociali del comunismo, dall'altra con il capitalismo alla vigilia dell'esplosione del consumismo. Don Milani si schiera con il Vangelo, o meglio con la nobiltà e la dignità della Parola. Dapprima crea la scuola popolare di San Donato a Calenzano, per avviare un serio e libero confronto tra i giovani della parrocchia. Poi, letteralmente esiliato nella "sua" Barbiana, costruisce la celebre "scuola", insieme ai poveri più poveri del Mugello. Offre a essi la possibilità di essere e sentirsi liberi, imparando a utilizzare la parola umana e a conoscere quella divina. Nel frattempo si impegna in un'opera di pace costante, promuovendo e valorizzando con profonde motivazioni il rifiuto di prendere in mano le armi. Se "I care", mi sta a cuore, contrario del motto fascista "me ne frego" è stata la linea conduttrice della scuola, "l'obbedienza non è più una virtù ma la più subdola delle tentazioni" è stata la chiave ermeneutica del suo impegno a favore della pace, della fraternità fra i popoli, dell'obiezione di coscienza al servizio militare.

Innumerevoli sono gli spunti che derivano dalla lettura delle opere di don Milani. Barbiana è oggi un luogo di pellegrinaggio, anche alla semplice tomba di don Lorenzo, accanto a quella delle sue due più vicine collaboratrici, la Giulia e la Eda Pelagatti, donna straordinaria che ho avuto modo di conoscere in una delle frequenti visite alla canonica e alla chiesa. Per oggi, 27 maggio 2023, basti solo un pensiero carico di gratitudine, un impegno a non dimenticare la sua opera e una memoria che diventi forza di rinnovamento della scuola, della cultura, della politica e della chiesa italiane e mondiali.

Lo ricorderemo a Zugliano, il prossimo martedì 30 maggio, alle ore 18, grazie agli "Amici della Toscana residenti in Friuli Venezia Giulia". 

martedì 23 maggio 2023

La tristezza per l'ennesima morte sul lavoro

Nel territorio della ex provincia di Gorizia, nei soli mesi di gennaio e febbraio 2023, sono stati denunciati oltre 300 infortuni sul lavoro. Purtroppo l'ultimo, la scorsa notte, ha provocato la morte di un giovane di 30 anni, travolto da un macchinario con il quale stava lavorando nel cuore della notte.

Non si sa ancora che cosa sia accaduto e che cosa sia andato storto. Il fatto è che nessuna spiegazione può cancellare il dolore per la morte di un operaio, una sofferenza acuta che investe la sua famiglia e più in generale tutta la società.

L'Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro, recita la nostra bella Costituzione. Il lavoro è ciò che consente la sussistenza, ma anche quello che permette la realizzazione dei propri ideali e dei propri progetti. Si può anche dire che è la specifica modalità con la quale ogni cittadino esprime il proprio modo di partecipare alla costruzione della repubblica, ciascuno secondo le proprie competenze e capacità.

Per questo è inaccettabile la morte sul lavoro. Ciò che dovrebbe sostenere la vita diventa il mostro che la inghiotte, ciò che dovrebbe rendere possibile raggiungere i propri obiettivi diventa la pietra tombale. La sicurezza sul lavoro è una delle urgenze più assolute dell'azione politica e del sistema economico produttivo. Favorire il guadagno piuttosto che difendere i lavoratori è una forma di sfruttamento, di riedizione dei tempi oscuri della schiavitù.

In attesa di conoscere le motivazioni del triste evento, un pensiero triste a Nicholas Nanut, morto sul lavoro a Mariano del Friuli e un abbraccio di solidarietà ai suoi cari. Come non aggiungere l'auspicio - magari non fosse totalmente retorico! - che la sua morte sia l'ultima invocazione di un lavoro sicuro e giustamente retribuito per tutti.

giovedì 18 maggio 2023

Venerdì a Gorizia, si parla di Isonzo Soča

Venerdì 19 maggio, alle ore 17.15 presso la sede di Gorizia dell'Università di Udine (via Santa Chiara 1), si terrà un interessante incontro sul "flumen nostrum", Isonzo Soča. Promosso da Legambiente, sarà introdotto da Luca Cadez e proporrà poi alcuni approfondimenti sui contratti di fiume (Francesco Visentin), sulla narrazione degli spazi transfrontalieri (Anja Medved) e sulla problematica bellezza del fiume (Andrea Bellavite). Condurrà l'incontro la brava giornalista, osservatrice attenta dell'ecosistema del territorio centro europeo.

Sarà un'ottima occasione per "fare il punto" sulla situazione del corso d'acqua unico, che attraversa culture, lingue, storie antiche e contemporanee. Che ruolo può rivestire una riflessione sull'Isonzo Soča, in vista dell'appuntamento del 2025?

Un'occasione da non perdere!

domenica 14 maggio 2023

Un anno senza Pierluigi

 


Aggressori e aggrediti, pensieri su guerra e pace

Begunje, opera di Kalin nel cimitero degli ostaggi
Ogni guerra porta con sé distruzione, lutto, atroce sofferenza. Da un giorno all'altro, donne e uomini che vivevano la loro quotidianità sono sconvolti. I soldati vanno al fronte e sanno che molti di loro non torneranno mai indietro, la loro esistenza sarà cancellata da un colpo di fucile o dalla lama di un coltello. I bombardamenti terrorizzano i civili, devastano le città e le campagne, ovunque regnano il dolore, l'odio e il desiderio di vendetta. Così accade oggi ogni giorno in Ucraina, nello Yemen, nel Sudan e in tanti, ma tanti altri Paesi "dove la terra brucia". Così è accaduto nei Balcani nell'ultimo decennio del XX secolo, prima in Ruanda e altrove, risalendo indietro fino alle due guerre mondiali e alle atrocità dei secoli precedenti. Sembra, assai tristemente, che conflitti, genocidi, massacri, carneficine siano prerogativa di questa specie tragica e affascinante che si chiama "homo sapiens".

Perché esiste la guerra? Perché essa porta con sé non soltanto il tentativo di risolvere con la forza controversie tra popoli, ma anche il desiderio di annichilire, umiliare, azzerare quello che viene bollato come il "nemico"? Esistono davvero delle ragioni che per qualsiasi motivo giustifichino la produzione e l'uso di strumenti tecnologici il cui unico fine sia quello di uccidere? E' davvero necessario che esista un mestiere come quello del militare, finalizzato in ultima analisi ad addestrare e rendere efficiente l'uso delle armi?

Non c'è risposta a queste domande, se ci fosse forse non ci sarebbe più la guerra! Sta di fatto che la maggior parte dei Paesi cosiddetti "civili" riconosce come ovvia la distinzione tra aggressore e vittima. In altre parole, la guerra sarebbe una triste necessità, dovuta alla necessità di difendersi dalla violenza di qualcuno che vuole occupare lo spazio vitale dell'altro. Cosa fare in questi casi? Gandhi propone il metodo della nonviolenza attiva, qualcosa di simile alle parole attribuite a Gesù nel Vangelo: "a chi ti percuote su una guancia, tu mostra anche l'altra", quasi a costringere l'altro a riconoscere la propria irrazionalità nel momento in cui ti colpisce i ti uccide. E' una prospettiva affascinante, ma che fare quando la vittima predestinata non sei tu, ma la tua famiglia, il tuo popolo o una marea di innocenti che non hanno nulla a che fare con le tue scelte, per quanto eroiche esse siano? La nonviolenza di Gesù non ha salvato i bambini innocenti massacrati da Erode al posto suo!

Si torna quindi daccapo, con la Costituzione italiana tutti sono d'accordo sulla necessità di "ripudiare" la guerra come strumento di offesa. Ma ben pochi sosterrebbero che essa debba essere rifiutata anche come strumento di difesa, a meno di non immaginare una sorta di arbitrato internazionale planetario, al quale ogni singola Nazione potrebbe affidare una parte importante del proprio potere, compreso quella relativa alla difesa dei diritti e della dignità di ogni singola persona. E' un'utopia, ma potrebbe anche essere una via, già indicata peraltro durante la prima guerra mondiale, in pieno conflitto, da un Pontefice illuminato come Benedetto XV.  

Ammesso e non necessariamente concesso che sia necessario un servizio militare esclusivamente "difensivo", si pone il problema successivo, ovvero come distinguere l'aggressore e la vittima. 

Sembra ovvio, ma così non è, dal momento che ogni forma di violenza ha una sua radice previa, ogni aggressione ha dietro a sé una catena di ingiustizia che senza giustificarle, ne spiega le ragioni. Solo per portare qualche esempio abbastanza attuale, il presidente Bush, all'indomani dell'attacco alle Twin Towers, inventò il concetto di "guerra preventiva", ritenendo che l'attacco - ovviamente ingiustificabile per qualsiasi persona svincolata dagli interessi che l'hanno provocato - contro Afghanistan e Iraq avrebbe reso possibile la "difesa" degli Stati Uniti da quello che a quel tempo veniva chiamato terrorismo islamico. Il bombardamento di Belgrado e della Serbia da parte della NATO (Italia compresa, premier D'Alema), fu giustificato da presunte "ragioni umanitarie" che furono in qualche modo avvallate perfino da Giovanni Paolo II - anche se in termini non molto evidenti - per sostenere la necessità di "difendere" Sarajevo e la Bosnia musulmana.

Nel caso attuale, gran parte dell'opinione pubblica e della politica di una parte del mondo sostiene che l'aggressione della Russia nei confronti dell'Ucraina sia del tutto inaccettabile e che sia quindi necessario difendere a ogni costo - anche con l'invio di armi e tecnologia militare - quella che viene definita la resistenza del popolo ucraino. Per sostenere questa tesi, si fa riferimento alla lotta antifascista e antinazista, determinante per cancellare dalla faccia della terra - con l'aiuto degli eserciti vincitori - il veleno micidiale sparso a piene mani da Hitler e Mussolini. 

Un'altra parte del mondo - poche Nazioni, forse, ma abitate da quasi un terzo dell'intera umanità - ritengono che l'aggressione russa sia conseguenza del rifiuto, da parte dell'Ucraina di Zelenski, di riconoscere il diritto all'indipendenza del Donbass e della Crimea. Si contano le azioni persecutorie da parte degli ucraini e alcuni liberi Stati circostanti - per esempio la Moldavia - sono terrorizzati da una possibile invasione da parte dell'esercito ucraino. Ad ascoltare loro, la realtà è ben diversa da quella descritta dai giornali e dai telegiornali "occidentali". O meglio, non è tanto diverso il racconto degli orrori che ogni guerra porta con sé, ma è completamente opposta l'interpretazione dei fatti. In questo, il gioco delle rispettive propagande crea una situazione ben diversa da quella che ha caratterizzato la lotta partigiana, dove era ben chiaro chi fossero i responsabili della catastrofe della seconda guerra mondiale e chi ne fossero le vittime.

Stando così le cose, occorre soltanto ragionare. Putin è un dittatore sanguinario, il cui potere si è retto su assassini e sul soffocamento della libertà di stampa e di opinione. Era tale anche quando se ne andava a spasso con Berlusconi nelle ville della Sardegna o quando Salvini non esitava a lodarlo come il più promettente degli statisti planetari. Zelenski, da parte sua, non è certo un campione di democrazia, assestato su un rifiuto costante di affrontare qualsiasi discussione in merito alla possibile cessazione della guerra. Proprio ieri ha detto il suo chiaro "niet" alla raccomandazione niente meno che del capo della Chiesa cattolica. In queste condizioni, se è evidente che l'occupazione dell'Ucraina è un atto di aggressione, è altrettanto evidente che essa deriva dalla volontà di "difendere" i diritti dei russi conculcati dallo Stato vicino e che quest'ultimo potrebbe approfittare volentieri della situazione per assimilare anche qualche altro spazio nell'Europa orientale, ciò che teme appunto la Moldavia, già ora penalizzata negli scambi commerciali.

A questo punto, è difficile negare che da parte dei Paesi della Nato ci sia molto più una volontà di sostenere solo una parte contro l'altra, piuttosto che quella di aiutare a portare al tavolo delle trattative i due contendenti. Anche il viaggio nelle capitali europee del comandante Zelenski risulta una richiesta di sostenerlo verso la "vittoria", invece che verso un'autentica e duratura pace. Tra gli statisti planetari che "contano", il presidente cinese sembra l'unico, inascoltato propugnatore di una volontà di mediazione. Tra le autorità morali, una dopo l'altra scomparse dalla scena, sembra emergere solo la figura di papa Francesco che continua a indicare l'unica via possibile, quella del dialogo e della diplomazia. Ma è inascoltato anche all'interno della Chiesa, soprattutto dalle chiese cattoliche di Ucraina e di Russia, sostanzialmente fino a questo momento del tutto silenziose. E' una prudenza comprensibile, vista la situazione, che rende tuttavia meno efficace l'azione del vescovo di Roma.

In conclusione, l'urgenza assoluta è quella di fermare l'atrocità della guerra. Per riuscirci occorre schierarsi, non dalla parte dell'uno o dell'altro, ma investendo tutti gli sforzi finora impegnati per costruire e inviare armi sempre più sofisticate in Ucraina, nel portare con convinzione i belligeranti al tavolo delle trattative, dell'armistizio e della pace. Magari si potrebbe realizzare questo tavolo proprio a Nova Gorica e Gorizia, là dove è stato versato troppo sangue nei conflitti e dove ora ci si prepara a diventare faro di cultura e di convivenza tra popoli, nel cuore dell'Europa!

Perché il Sabotino si chiama così?

Il Sabotino - Sabotin in sloveno -  è un monte sorprendente. La sua posizione di barriera fra il mare e le catene alpine favorisce lo sviluppo di una flora e di una fauna del tutto originali. L'altezza relativa (m.609) non impedisce lo sguardo su tutte le Giulie e, dalla parte della pianura, fino al mare. I numerosi, bellissimi sentieri e le strade carrozzabili consentono a ogni escursionista di raggiungere la cima o almeno i rifugi sottostanti. Da qualche anno è diventato un punto di riferimento quasi quotidiano per sloveni, italiani e friulani che qui si incontrano, si conoscono, intessono preziosi rapporti. Le memorie storiche non si contano, dagli antichi e suggestivi ruderi dell'eremo di San Valentino alle trincee e baraccamenti della prima guerra mondiale, fino ai segni ormai consolidati di tempi ormai trascorsi, la scritta Tito formata con candide pietre carsiche in territorio sloveno e la bandiera italiana illuminata di notte, accanto a quella che fu la più alta caserma del Goriziano, nei tempi in cui il confine faceva ancora paura.

Sì, bene tutto questo, se ne è già parlato mille volte.

Ma perché il "Sabotino" si chiama così?

Con i tempi che corrono, quando nessuno sa offrire una risposta plausibile, ci si rivolge al computer e a quella che per il momento pomposamente viene chiamata "intelligenza artificiale". Non si può dire che le prove finora affrontate abbiano offerto grandi emozioni, dalla collocazione della montagna nelle Alpi Venete alla conquista italiana di Gorizia "durante la seconda guerra mondiale". Lo si nota solo per ricordare di prendere con le molle qualsiasi risultato, per quanto apparentemente convincente possa essere.

Ebbene, secondo la professoressa virtuale i.a. (intelligenza artificiale) Sabotino deriverebbe da "sabot", parola francese che definisce un particolare "zoccolo", particolarmente simile - sempre secondo i.a., al profilo della montagna. Pur suscitando qualche perplessità la presunta somiglianza del Sabotino con uno zoccolo, è un'ipotesi suggestiva e può essere supportata dal fatto che i francesi effettivamente occuparono il territorio goriziano all'inizio dell'800, una presenza tuttora ricordata da alcuni toponimi e da molti cognomi. Dalle cartine geografiche finora reperite risulta inoltre che prima del XIX secolo l'altura era chiamata "Monte di San Valentino", come tuttora noto nella tradizione friulana, in ricordo della chiesa e del luogo sacro tuttora riconoscibile sulla spalla est.

Un'altra possibilità, sempre secondo i.a., è "Monte del Sabato". Non ci sono ulteriori spiegazioni, tuttavia forse il suggerimento potrebbe essere colto per avviare una ricerca sulle frequenti intitolazioni a Santa Sabida che caratterizzano molte chiese e luoghi del Friuli e della Slovenia e che - sembra - siano collegate alla radice alessandrina della chiesa aquileiese. E' un'ipotesi molto avvincente, chiamando in causa le diatribe tra giudeo cristiani e cristiani provenienti dal cosiddetto paganesimo, ma in realtà - a parte l'etimologia - nessun elemento storico o archeologico sembra legare il monte a tali tradizioni.

Ordunque?

Ordunque così si vuole semplicemente aprire il dibattito. Forse qualcuno è in grado di confermare le proposte di i.a. oppure di smontarle definitivamente proponendo magari qualche altra soluzione?

I care: spunti sulla vita di don Lorenzo Milani

 Dalla rivista online Apertamente ricavo questo mio articolo, in vista dell'ormai prossimo centenario della nascita di don Lorenzo Milani. E' un po' lungo, ma credo valga la pena dedicrae qualche minuto. (ab)

Don Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923 e muore, sempre a Firenze, il 26 giugno 1967.

Pochi anni di vita, pochi chilometri percorsi, eppure il suo messaggio ha i connotati dell’avvenimento storico e ha raggiunto tutti i confini della terra.

Cresciuto in una ricca famiglia fiorentina, portatrice di diverse culture e valori, improvvisamente e con grande sorpresa dei suoi amici e parenti, decide di lasciare ogni forma di comodità e carriera per entrare in Seminario e diventare prete. Forse ha compiuto questa scelta per un sottile senso di colpa derivato dalla consapevolezza di essere nato privilegiato, forse è rimasto colpito – come lui stesso ha raccontato – dal rimbrotto di un mendicante che gli aveva detto “non si mangia il pane bianco nelle strade dei poveri”. Fatto sta che tutta la sua esistenza è stata dedicata a innalzare la cultura delle persone con le quali ha condiviso la sua missione.

Don Lorenzo inizia la sua missione In un’Italia lacerata dalle divisioni politiche tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. Viene inviato come aiuto parroco a san Donato a Calenzano, nella periferia industriale del capoluogo toscano. La sua prima “impresa” è la realizzazione della scuola popolare, una sorta di università degli illetterati. Per mesi si alternano sulla “cattedra” alcuni tra i personaggi più noti e influenti della politica, della cultura, del giornalismo e dell’economia, suscitando accesi dibattiti e appassionati momenti di confronto e di dialogo. E’ il tempo dell’elaborazione del primo libro, le famose “Esperienze pastorali”, un testo che ancora oggi – o forse a maggior ragione oggi – dimostra una straordinaria attualità. Ovviamente l’impegno del cappellano non piace a tutti e ben presto le lamentele dei benpensanti occupano la scrivania del vescovo, l’ottuso cardinale friulano Ermenegildo Florit. Ben distante dalla tempra spirituale del suo predecessore – il cardinale Elia Della Costa che aveva fatto chiudere ostentatamente i balconi della sua residenza al passaggio del corteo di Hitler e Mussolini nel 1938 – il presule non trova altra soluzione che quella di inviare lo scomodo giovane prete a Barbiana, nell’alto Mugello.

Per capire cosa sia Barbiana, basta andarci, tenendo presente che negli ultimi ottanta anni le strade sono totalmente cambiate, ovviamente in meglio. Da Firenze si sale a Borgo san Lorenzo, da lì un percorso asfaltato tortuoso conduce a Vicchio (il paese di Giotto!). Si imbocca una stradina che attraversa uno stretto ponte a schiena d’asino e si trova l’indicazione – forse l’unica esistente – per Barbiana. Ci si inerpica per un viottolo, fino a non molto tempo fa un vero e proprio tratturo, sugli spalti del Monte Giovi. Si intravvedono, lontano, qua e là, caseggiati contadini oggi rimaneggiati, ma a quei tempi quasi diroccati. Si arriva a un bivio, dal quale si scende, in circa un chilometro su terreno franoso, al “centro” di Barbiana. Una canonica incollata a una chiesetta, qualche albero e, un centinaio di metri più in basso, un piccolo cimitero di montagna. Ci si volta di qua e di là, niente, sembra di essere arrivati nel Deserto dei Tartari di buzzatiana memoria.

Insomma, una delle menti più fervide e dei cuori più appassionati dell’Italia del tempo, viene relegato in una parrocchia sostanzialmente inesistente, successore di nessuno, dal momento che dall’inizio del secolo la sede parrocchiale era vacante. Chi non si sarebbe ribellato? Chi non avrebbe mandato a quel paese l’obbedienza al vescovo? Chi non avrebbe invocato l’appoggio di amici potenti, che peraltro a lui non mancavano? Don Milani no, non si rifiuta, prova tutta la sofferenza del mondo, lascia san Donato e si trasferisce a Barbiana, talmente deciso a restarvi per tutta la vita da acquistare immediatamente lo spazio in cimitero dove oggi si trova la sua tomba.

Non si perde d’animo e immediatamente crea la scuola che avrebbe reso celebre il minuscolo borgo del Mugello. Reclutati uno a uno nelle case coloniche, i bambini venivano a scuola 365 giorni l’anno, a volte camminando oltre due ore per andare e tornare. Imparavano dal priore a leggere, a scrivere, a conoscere il mondo. Diventavano un po’ alla volta padroni della “parola”, il formidabile strumento che, solo, consente agli uomini di essere liberi, entravano nei meccanismi della politica e dell’economia, diventavano capaci di viaggiare, di incontrare altri mondi, perfino di nuotare, imparando in una rudimentale fossa chiamata pomposamente piscina a salvare altri esseri umani nel caso ci si fosse trovati testimoni di un naufragio. Tutto era finalizzato a conoscere e ad amare e rispettare tutti gli esseri viventi e a non lasciarsi schiavizzare mai da nessuno. Il motto – divenuto molto noto – “I care” campeggia ancora oggi sulla porta dell’aula scolastica, accanto ai grafici delle elezioni politiche del 1966, ai sestanti per lo studio dell’astronomia e alla ricca biblioteca. Significa “mi sta a cuore, mi interessa”, come scriveva lo stesso don Milani “il contrario del motto fascista me ne frego”.

Negli interessi della scuola c’era soprattutto la storia e l’educazione civica. Una riflessione sul ruolo dei cappellani militari che avevano criticato l’obiezione di coscienza e sulla necessità di contestare la disciplina militare, aveva suscitato uno scandalo e don Milani fu portato in tribunale. Il suo memoriale difensivo si trasformò in un capolavoro, anch’esso tuttora attualissimi, “L’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”. Nella spietata analisi, si rileva come nessuna guerra alla quale l’Italia ha partecipato negli ultimi duecento anni è stata difensiva, se non la Resistenza che ha consentito di scacciare i sostenitori del razzismo, della violenza sistematica e dell’aggressione imperialistica al mondo.

A difesa dei suoi scolari, sistematicamente bocciati nelle scuole statali del tempo, don Milani inventa la scrittura collettiva, costruendo insieme a tutti i ragazzi di Barbiana la “Lettera a una professoressa”. E’ un inno all’importanza dell’istruzione come fondamento della libertà, una traccia definitiva per la strada di ogni persona che abbia l’onore di svolgere questa, che non può essere definita professione ma vocazione e missione. Sono cambiati i tempi e la situazione sociale del Mugello e dell’Italia non è certo quella di quegli anni. Ma il contenuto della “Lettera” è quanto mai attuale anche oggi, non tanto forse per la denuncia di un  analfabetismo letteralmente inteso, quanto per quello culturale, più sottile e difficile da riconoscere. Il testo richiama le suggestioni latino americane del rapporto Faure e la scrittura rivoluzionaria del “Descolarizzare la società” di Ivan Ilich, collegandosi di fatto con le più importanti istanze mondiali relative alla necessità di una riforma strutturale del sistema dei percorsi didattici ed educativi.

Grazie alla collaboratrice Eda Pelagatti, la scuola di Barbiana è stata anche luogo di amicizia, di costruzione di rapporti, di incontri incredibili con personalità di ogni genere. Gli “amici” di don Lorenzo affrontavano volentieri le curve del viottolo per raggiungere le panche sulle quali venivano trattati come imputati a un processo, bersagliati da migliaia di domande che gli scolari avevano preparato per poter conoscere meglio i misteri della società, attraverso il racconto di qualificati testimoni. Per conoscere la vivacità di tali momenti di incontro, i percorsi intellettuali del priore e anche le sue intime preoccupazioni, basta leggere i due meravigliosi epistolari, pubblicati già pochi anni dopo la morte, le “Lettere di don Milani” e le meravigliose “Lettere alla mamma”, un tributo d’affetto alla figura di gran lunga più influente nella sua vita, ma anche un vero e proprio trattato esperienziale di psicologia e di filosofia.

I pochi anni di vita di don Lorenzo Milani hanno rivoluzionato la scuola, la società e la chiesa cattolica, che ha trovato in lui un testimone credibile e affidabile della necessità prima e dell’attuazione poi, del Concilio Vaticano II (1962-1965). Le incomprensioni con la gerarchia fanno parte del passato, del suo passato. Barbiana ha ricevuto negli scorsi anni addirittura la visita di papa Francesco e il 27 maggio è atteso il presidente della Repubblica Mattarella. Le strade sono state risistemate e gli eredi degli antichi scolari vivono in caseggiati ristrutturati e moderni, la situazione precedente è soltanto un ricordo. Barbiana è meta di pellegrinaggi continui e forse tra un po’ quello che era considerato un prete ribelle sarà canonizzato e innalzato agli onori degli altari.

Sarebbe un bel segno per la Chiesa, ma forse anche un pericolo. Molte volte la proclamazione della santità è un formidabile modo per disinnescare la potenza dei messaggi che vogliono inquietare e trasformare il mondo. Anche la memoria di don Milani seguirà questa strada? La sua profezia sarà inglobata in una nuova stagione nella quale il suo pungolo verrà arrotondato e non ferirà più le coscienze?

Può darsi. In effetti, al di là della potenza trascinante del fondatore, i messaggi trasmessi hanno aleggiato come spirito creativo e hanno portato a qualche modifica e a qualche timida riforma. Tuttavia oggi – nonostante gli sforzi di una classe insegnante in generale molto consapevole e cresciuta proprio sul seme degli insegnamenti milaniani, nella società sembrano tornati di moda le differenze di classe, il razzismo fattuale di chi chiude la porta ai migranti, perfino la distinzione tra scuole umanistiche e tecniche, la condanna per la moltitudine dei poveri a una povertà sempre più accentuata e il percorso dei pochissimi ricchi verso una ricchezza sempre maggiore.

Insomma, c’è bisogno più che mai di un nuovo “don Milani”, magari anche senza il “don”.

venerdì 12 maggio 2023

Una Giornata in bicicletta, da Palmanova a Grado

San Marco e la duna preistorica
Se avete una giornata libera, raggiungete Palmanova con il treno, muniti di una semplice bicicletta. Chi ha più tempo o non abita tanto lontano, può arrivarci anche in sella, anche se il sistema ciclabile, verso Gorizia, deve essere un po' migliorato. Potrete entrare in un'ininterrotta serie di meraviglie.

Non si può perdere l'avventuroso giro delle mura della città fortezza, prima di lanciarsi lungo la splendida ciclabile AlpeAdria che offre soltanto l'imbarazzo delle scelte.

Chi ama l'arte passa per Strassoldo dove, tra atmosfere medievali, può visitare la piccola chiesa di santa Maria in Vineis, con spettacolari affreschi del XIV e XV secolo, forse con influenze di Vitale da Bologna. Poi non ci si può perdere l'antica chiesa "madre" di san Michele a Cervignano e, successivamente, la stupenda San Martino a Terzo, situata al terzo miglio da Aquileia. Anche in questo caso, gli affreschi sono di diverse epoche, soprattutto tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo,

Chi ama la natura e le curiosità può passare invece per Aiello, il paese delle meridiane, godersi le risorgive che alimentano gli antichi mulini e raggiungere Aquileia tramite Perteole e Ruda, senza "mancare" la "cimiteriale" di Sant'Andrea, con ben tre strati di affreschi datati nella prima metà del secondo millennio e la templare della frazione di San Niccolò, ricca di testimonianze antiche.

Di Aquileia non si può parlare, se non citando, una dopo l'altra, le infinite perle alle quali dedicare una bella passeggiata circolare: Monastero con l'incredibile museo paleocristiano, la casa (forse) di Augusto, il foro romano e il suggestivo decumano di Aratria Galla, le antiche Grandi Terme, l'imperdibile Sepolcreto, lo stupendo piccolo ma ricchissimo Museo Archeologico, i magazzini, per finire in bellezza con il sistema basilicale più antico del mondo, i mirabili mosaici dell'inizio del IV secolo e gli affreschi del XII. Resta il tempo per una breve ricognizione del battistero esterno, della domus del vescovo Teodoro e infine, di quella del romano Tito Macro. Si può pensare anche all'assurdità di ogni conflitto, visitando il minuscolo cimitero di guerra, un inno all'assurdità della morte in battaglia di milioni di soldati massacrati in Europa dall'inutile strage.

Lasciata Aquileia, dopo un lauto pranzo "friulano", c'è ancora molto da scoprire. Uno dei luoghi più incredibili è la pineta di San Marco, con le dune che si sono costituite ventimila anni fa e con la chiesetta barocca, nel cuore del cimitero, che ricorda il leggendario sbarco dell'evangelista che avrebbe avviato la gloriosa storia della chiesa aquileiese. Arrivarci in bici, su strada sterrata, è particolarmente emozionante.  

Non resta che riprendere la ciclabile e attraversare la Laguna, cinque chilometri di pura bellezza, contemplando da una parte le solitarie isole che emergono dall'acqua molto bassa e dall'altra il santuario di Barbana, uno dei più antichi del mondo, almeno per ciò che concerne la sua dedicazione a una presunta apparizione, nel lontano sesto secolo, a un tizio che si chiamava Barbano.

Grado è la meta di Giornata, con le sue spiagge, le sue calli e soprattutto con le basiliche paleocristiane, sant'Eufemia e santa Maria delle Grazie. Mosaici, affreschi, plutei, colonne e capitelli, pulpiti arabeschi, tutto a testimoniare una storia avvincente di incontri e di scontri tra popoli, di calma e di inquietudine nella relazione con il mare incombente.

Si gira il mondo, si percorrono strade e autostrade, si va con l'aereo in ogni angolo del mondo. ma la bellezza che riempie tutto di sé si trova a pochi passi - o meglio a poche pedalate - dalla propria casa. Se abitate in Friuli Venezia Giulia e non ci credete, provate e poi mi direte se non è vero! 

mercoledì 10 maggio 2023

I cento anni di don Milani. La mia "prima volta" a Barbiana

Alla fine di questo mese si ricorderanno i 100 anni dalla nascita di don Lorenzo Milani, avvenuta il 27 maggio 1923.

La mia "prima volta" a Barbiana fu il 2 maggio 1978. Era un giorno pieno di nebbia. La strada da Vicchio era un tratturo, appena transitabile con difficoltà. A un certo punto si interrompeva e occorreva proseguire a piedi. Un po' il tempo, un po' la realtà delle cose, non si vedeva nessuna casa intorno. L'ultimo chilometro era di fatto un sentiero scavato su un costone di terra franato e all'improvviso...

...Ecco la canonica, con il tozzo campanile della chiesa di Sant'Andrea. Il silenzio era interrotto dal canto degli uccelli, naturalmente tutto era chiuso ma dalla fessure nelle porte si poteva intravvedere la stanza - scuola dove ogni giorno - 365 giorni all'anno - il priore riceveva le decine di bambini che, camminando anche per due ore, raggiungevano il luogo e imparavano a leggere, a scrivere e a diventare uomini liberi. C'era anche una buca intonacata, la piscina dove si doveva scoprire come salvare le persone, nel caso ci si fosse trovati in una situazione di naufragio.

Avevo voluto conoscere i luoghi che mi avevano entusiasmato leggendo. Dalla Lettera a una professoressa all'Obbedienza non è più una virtù, dai magnifici epistolari alle Esperienze pastorali, avevo l'impressione di una rivoluzione in corso, di un seme gettato nella chiesa, nella scuola e nella società che - presagivo in quei tempi - avrebbe modificato per sempre il modo di vivere individuale e collettivo. La monumentale biografia scritta da Neera Fallaci aveva consentito di tracciare la cornice esistenziale nella quale si inserivano i passi di don Lorenzo, dalla vita in famiglia all'inattesa scelta del Seminario, dai primi ma già straordinari passi a San Donato a Calenzano all'incredibile trasferimento a Barbiana.

Mentre scendevo sull'erba bagnata verso il cimitero sottostante, per un pensiero sulla tomba del parroco, pensavo a questa figura, una delle menti più brillanti del XX secolo italiano, confinato in un "fuori dal mondo" accentuato dalla nebbia, dalla quale emergevano ogni tanto sparuti alberi contorti. Un vescovo incapace di intendere e volere, il friulano Ermenegildo Florit, lo aveva spedito su una montagna del Mugello, una parrocchia costituita da case solitarie sparse per chilometri e chilometri, una solitudine abissale. Chi avrebbe potuto resistere in una situazione del genere? E chi avrebbe portato fino a questo estremo l'obbedienza alla guida formale della diocesi, se non colui che avrebbe demolito per sempre la "virtù" di un'obbedienza alle autorità svincolata da quella, fondamentale, alla propria coscienza?

Don Lorenzo Milani è riuscito in questa impresa, non senza una profonda sofferenza interiore che gli ha minato la salute fino a condurlo alla morte, a soli 44 anni, il 26 giugno 1967.

In quel giorno del 1978 la casa quasi diroccata, evanescente in un mattino piovoso di primavera, la frana che interrompeva la strada, l'aula scolastica con la scritta I care appena percepibile dalle fessure che rompevano il legno, tutto ma proprio tutto raccontava la storia straordinaria di un prete destinato a cambiare la storia, seme che muore per portare molto frutto. Solo pochi avevano letto i suoi scritti, se lo si nominava, pochissimi asserivano di averne sentito parlare. E se si parlava di lui, ancora molti esponenti della chiesa storcevano il naso, mettevano in guardia, cercavano di sconsigliare, di criticare, di censurare...

Poi tutto è cambiato e ora don Lorenzo Milani viene considerato unanimemente un profeta, un Maestro con la M maiuscola, un genio delle relazioni, un punto di riferimento indiscutibile. Le strade sono state da lungo tempo sistemate, la casa canonica restaurato e abbellita, Barbiana è diventata meta di pellegrinaggi continui, Papa Francesco è arrivato in elicottero a rendere omaggio a colui che era stato ignominiosamente cacciato da una parrocchia solo perché voleva educare la gente alla libertà di coscienza e di parola. A fine mese è atteso il presidente Mattarella, insieme a migliaia e migliaia di persone che hanno letto, studiato, amato la storia di questo prete. Forse sarà perfino canonizzato e il suo nome sarà inserito tra i "grandi" della Chiesa che attraverso l'inferno dell'incomprensione e dell'emarginazione sono poi stati innalzati - dopo la morte - al paradiso della riabilitazione e dell'entusiasmo. Spesso la canonizzazione è un formidabile strumento per soffocare l'urlo inquietante di giustizia e verità del Profeta inascoltato.

Per questo forse io non dimenticherò mai la forza dirompente, l'energia travolgente di un luogo immerso nella nebbia e nel silenzio, il tratturo interrotto da una montagna d'argilla da scalare, la tomba scavata tra i più poveri dei poveri, il canto degli uccelli che sembrava annunciare una speranza - o forse una potente illusione - di straordinaria novità.

lunedì 8 maggio 2023

Una panchina internazionale

La foto l'ha scattata Nevio Costanzo, il luogo è il confine tra Via San Gabriele e Erjavčeva ulica.

Non so chi abbia avuto l'idea, ma è indubbiamente una bella idea, una panchina internazionale, nel cuore dell'Europa.

In mezzo a tante buone prospettive, questo punto di incontro, offerto al riposo di pedoni e ciclisti, mi sembra un piccolo grande segno, di amicizia e collaborazione.

Non potendo mancare una puntina polemica, certo che se qualcuno tagliasse l'erba non sarebbe male!

sabato 6 maggio 2023

6 maggio 1976. Un ricordo personale.

Chi in questo momento - se ha più di 50 anni - non sta pensando a come era e dove era in quel giorno?

Esattamente a quest'ora, 47 anni fa, ero a casa con mio padre e un ospite del Sudan in via Angiolina. Mia madre era a Gradisca, dove stava tenendo una conferenza sul corso del fiume Isonzo/Soča. All'improvviso, il finimondo. Ricordo distintamente l'armadio che si muoveva come spinto da una forza immane, i lampadari impazziti. Fu un minuto che spezzò mille vite nell'alto Friuli, che trasformò un'intera regione e che cambiò per sempre le nostre esistenze. Scendemmo in strada, mentre l'amico africano continuava a mangiare tranquillamente rimanendo in casa ritenendo - come cui disse dopo - che se era destino morire in quella sera, tanto valeva morire senza rinunciare alla cena. Le notti successive, per precauzione, furono in roulotte, anche per non sentire il rumore sinistro prodotto dai muri in movimento sotto la pressione delle scosse di assestamento. 

Solo la mattina dopo, andando a scuola - al Liceo, dove era caduto un camino e le lezioni erano state sospese - ci si accorse della tragedia avvenuta a qualche decina di chilometri di distanza. Un compagno di studi già patentato ci propose di andare su, "a dare una mano". In prefettura a Udine ci inviarono a Gemona - non esistevano a quei tempi ancora i servizi di Protezione Civile che nacquero proprio da un'intuizione di Zamberletti in quell'occasione. Ad Artegna cominciammo a vedere le case accartocciate su sé stesse e dopo un po' risalimmo a piedi la china per arrivare nel centro dell'antica Gemona. Ci colpirono molto il Duomo devastato - l'avevo visitato una settimana prima, dopo aver scalato al parete Glemina con il corso di roccia del CAI - e le strade coperte di macerie. Ci inviarono a raccogliere i morti tirati fuori dalle case e a portarli nei luoghi di raccolta. Quando c'erano le scosse, vedevamo le case non ancora cadute muoversi come se fossero vive. Non  ci rendevamo conto del pericolo, ci soffocava il pensiero delle vite spezzate, delle famiglie cancellate dalla storia. Ci colpiva la dignità delle persone, l'assenza di lacrime, gli occhi spenti da un momentaneo fatalismo, la paura che serpeggiava tra i viottoli impregnati di fumo. L'esperienza durò poche ore, poi subentrarono l'esercito e i volontari preparati per le emergenze. Ritornammo a casa in assoluto silenzio, con dentro il cuore una preghiera per i morti e perché i sopravvissuti avessero la forza di ricominciare. 

A Gemona avevamo lasciato per sempre il fascino dell'adolescenza.

Meglio un lavoro puntualmente chiuso che mille avviati e mai finiti

Quello dei Giardini è l'ultimo caso della serie. La foto a lato è stata scattata il 25 febbraio, poco dopo l'inizio dei lavori. Oggi, 6 maggio, la situazione è identica, salvo l'erba cresciuta sui cumuli di terra scavati nei primi giorni. Il cartello indicatore assicura che la fine dei lavori è prevista per l'1 maggio. Da tre mesi tutto è fermo. E' disfattismo chiedere "perchè?". Lo stesso vale per tutte le altre frequenti segnalazioni. Il castello è chiuso da prima del Covid, i suoi bei bastioni sono impraticabili da almeno tre anni. La strada del Calvario è bloccata poco prima della cima e la necessaria deviazione per Lucinico è un autentico colabrodo. Il decantato Central park in salsa goriziana - da tutti molto atteso come splendido polmone verde e opportuna valorizzazione del fiume Koren/Corno - è in ritardo di oltre due anni sulla tabella di marcia. Il dislivello di 60 metri (!) non è ancora stato superato dagli ascensori al castello, progettati 25 anni fa e non ancora partiti, dopo 15 anni dall'inizio dei lavori. E' fin quasi impietoso affondare il coltello nella piaga ricordando che "l'avevamo detto noi!" (anche in Consiglio Comunale, con i compagni del Forum, mille volte tra il 2007 e il 2012), anche chi non è laureato in storia o geologia avrebbe potuto prevedere il ritrovamento di centinaia di ordigni bellici in una collina bombardata per oltre un anno durante la prima guerra  mondiale. Così come chiunque avrebbe potuto immaginare di trovare reperti archeologici interessanti nel terreno del colle o avrebbe potuto scommettere sulla necessità di riempire di tonnellate di cemento nascosto un terreno composto da argilla, subito messo a dura prova già dalle prima giornate di lavoro. Ci sono poi gli edifici storici, in completo abbandono, il progetto di casa Fogar e della cosiddetta Gorizia beach in pausa permanente. Non si devono dimenticare le strade di periferia e alcune centrali (tra esse, anche in questo caso da anni, Via Bellinzona e Via Crispi), in condizioni davvero penose. E' disfattismo chiedere "perché?" Oppure, proprio perché si ama questa città e piacerebbe a tutti mostrarla all'Europa come un modello di convivenza che comprenda anche l'urbanistica, l'architettura, la gestione degli spazi, è proprio necessario porre a chi l'amministra le classiche domande: cosa dove quando come e - appunto - perché? 

I Giardini Pubblici di Gorizia sono un autentico gioiello, nel cuore della città, sono tenuti ababstanza bene, sarebbe di sicuro bastata una semplice manutenzione ordinaria. Ci sono i vialetti ombreggiati, con le statue dei personaggi che hanno costruito la cultura "goriziana" negli ultimi due secoli, dagli italiani Bombi e Favetti agli sloveni Max Fabiani e Simon Gregorčič, dal mondo ebraico rappresentato da Graziadio Isaia Ascoli a quello friulano con Pietro Zorutti. Ci sono le strade parallele, dedicate a Dante e Petrarca (Boccaccio completa la triade al di là del complesso del mercato coperto). Si possono ammirare i palazzi circostanti, l'antico Comune, l'elegante Trgovski dom, il palazzo "veneziano", la sede della Libreria Editrice Goriziana, l'antico cinema che chi supera gli "anta" ricorda come rinomato barbiere...

Al centro c'è la monumentale fontana del Gyulai e vicino la suggestiva centralina meteorologica, entrambe testimonianze del tempo che fu, quello che con un bel po' di retorica viene ricordato con la nostalgia della "Nizza austriaca". Il settore occidentale del Giardino è occupato da meravigliosi alberi storici, tra essi un'incredibile magnolia che si è sviluppata in altezza e larghezza, superando due guerre mondiali e resistendo alle bizze del cambiamento climatico globale. Insomma, una meraviglia...

Tutta questo è per dire che non si vuole denigrare Gorizia, meno che meno in questa fase di preparazione all'evento straordinario di Nova Gorica con Gorizia Evropska Prestolnica Kulture 2025. Ma "chiedere per un amico" sì. Anche davvero, perché sono tanti che si pongono le stesse domande preoccupati di non trovare risposte. Non si tratta di interrogativi tecnici - gli uffici e i tecnici del Comune di Gorizia, come pure i professionisti del territorio sono assolutamente all'altezza della situazione. La questione è politica. Non c'è giorno in cui gli amministratori non annuncino qualche nuova mirabolante impresa, ma i ritardi nelle realizzazioni di quelle già in corso non si contano più. La domanda più ovvia è: non sarebbe meglio portare a termine ciò che già si è avviato, piuttosto che aprire nuovi cantieri che gravano i tecnici al di sopra delle loro forze, privano per lunghi periodi i cittadini di spazi che a loro appartengono e costituiscono pozzi senza fondo nei quali i soldi pubblici vengono inghiottiti senza pietà?

Non si può andare avanti così, è obbligatorio voltare a sinistra!

Si riapre in Corso Verdi a Gorizia la questione della ciclabile. 

Al tempo in cui le ciclabili sono state pensate e poi realizzate, l'intero Corso Verdi a Gorizia era aperto al traffico motorizzato. Per questo erano state pensate due corsie, sui due marciapiedi, caratterizzate da un pavimento di marmo scuro, destinate al transito dei ciclisti.

Nella zona ancora occupata dal traffico automobilistico tali "ciclabili", contrassegnate anche da apposita segnaletica verticale, sono scarsamente utilizzabili, dato che il marciapiede è relativamente stretto e la presenza dei pedoni è molto numerosa. Inoltre c'è da notare che il selciato in porfido, anche se rifatto in toto non più di dieci anni fa, è alquanto sconnesso e pieno di buche. Il povero ciclista che procede da sud verso nord è costretto a scegliere tra lo slalom in mezzo ai passanti che lo apostrofano con ogni epiteto e l'avventura delle mini montagne russe nel centro della strada.

Nella zona pedonale, come rilevato anche dai quotidiani locali, la questione è ancora più complicata. Gli esercenti si lamentano per l'eccessiva velocità delle biciclette che a loro dire sfidano il buon senso passando in mezzo ai tavolini degli esercizi. Il protendersi delle zone occupate per le del tutto legittime necessità dei baristi, rende tuttavia arduo attraversare le strettoie rimanendo in sella. Inoltre, i segnali collocati all'inizio e alla fine della zona pedonale non sono affatto chiari. Anzi, lo sono, ma suscitano perplessità. Il divieto di passaggio non ammette eccezioni, né per i mezzi senza motore, né per le auto dei frontisti, neppure sarebbe permesso il carico e scarico, in nessuna ora del giorno. A rigore di logica e di legge, nessuno - escluso i pedoni - potrebbe affrontare la zona che non è ztl, ma proprio ed esclusivamente "pedonale".

Nessuno può credere che sia effettivamente così, che cioè gli abitanti della zona non potrebbero rientrare con i loro mezzi e che i ciclisti non dovrebbero pedalare su quel tratto.

E allora? Allora è necessario aggiungere subito al cartello di divieto un'altra indicazione con segnalate le eccezioni previste (compresi i mezzi di soccorso e di garanzia dell'ordine pubblico). Ed è altrettanto indispensabile che non si fomentino guerre di poveri, tra esercenti che hanno il diritto di svolgere al meglio il proprio lavoro e ciclisti che devono essere valorizzati e non penalizzati perché indicano a tutti il modo migliore di vivere la città. Ci si adoperi invece per trovare una soluzione equa e sostenibile per tutti. Non dovrebbe essere poi così difficile, in una città come Gorizia!

mercoledì 3 maggio 2023

Anja Mugerli e le sue "Autopsie di famiglia", proprio un bel libro!

 

E' una breve raccolta di racconti, si leggono uno dietro l'altro senza riuscire a staccarsi dal libro che si dipana, pagina dopo pagina, saltellando tra universi paralleli.

"Autopsie di famiglia" è assolutamente da leggere, prima testo tradotto in lingua italiana dell'assai promettente giovane scrittrice, slovena di Nova Gorica, Anja Mugerli.

Si spazia dalla trasfigurazione di importanti tradizioni al confine tra religiosità ancestrale e folklore popolare all'analisi psicologica delle relazioni familiari, per giungere allo scandaglio senza remore o censure dell'io interiore.

Inquadrano le riflessioni il valore reale e simbolico dell'apicultura, le maschere impressionanti del Carnevale, le figure quasi mitologiche delle krivapete, la potenza sacrale - costruttiva e distruttiva - del fuoco. Il testo manifesta con grande e insistita coerenza il forte senso di appartenenza alla cultura slovena dell'autrice. Questo aspetto è talmente evidente da suscitare il desiderio, almeno scorrendo alcune pagine, di potersi confrontare direttamente con l'originale, per poter penetrare meglio, anche con la forza della parola nella lingua "materna", dentro il vissuto dei personaggi. Tutto ciò senza nulla togliere, anzi valorizzando l'ottima traduzione di Lucia Gaja Scuteri.

All'interno di tale cornice si muovono i personaggi, ordinariamente legati fra loro dal legame familiare. Si indagano le relazioni tra genitori e figli, quella tra fratelli e sorelle, l'abbandono amoroso mescolato a quello del perdono, l'intreccio misterioso tra amore e odio, tra iniquità e giustizia. A volte, anche qua, si fa strada la memoria dei più importanti autori sloveni, con le suggestioni sociali di Ivan Cankar, le sospensioni poetiche di Srečko Kosovel, le memorie avvincenti di Boris Pahor. Ma fanno capolino anche le influenze di altre letterature mondiali, dai racconti distopici di Raymond Carver alle intuizioni filosofiche di Camus, con una prosa sempre avvincente, che in certi tratti ricorda la sofferta fantasia di un Dino Buzzati.

Le vicende si susseguono e tengono il lettore con il fiato sospeso, sempre, fino all'ultima riga. Ma gli indizi sparsi tra le pagine per condurre verso la risoluzione delle diverse situazioni, man mano che si procede si rivelano piuttosto dei sassolini sparsi sulla via della coscienza individuale. L'autrice sembra dapprima voler condurci per mano nei meandri profondi del nostro essere, per poi lasciarci all'improvviso, nudi e soli davanti alle sfere più intime dell'io. E' per questo che non si è in grado di esprimere giudizi sulla debolezza umana o sulla viltà del tradimento, come pure sull'incapacità di comunicare o sulla distanza esistenziale. Ci si sente del tutto compartecipi, perché i personaggi narrati sono percepiti come degli specchi nei quali si riflettono l'anima e l'animo del lettore. Sarà forse per questo che spesso, nei racconti, emergono dal nulla degli specchi che suscitano timore e tremore, una percezione del sacro che si cerca inutilmente di soffocare o nascondere.

Insomma, una lettura piacevole e scorrevole, ma anche un'immersione necessaria in un profondo abisso di autentica umanità.

ANJA MUGERLI, Autopsie di famiglia, Infinito edizioni, Aprile 2023.

martedì 2 maggio 2023

Mozart Piazzolla Kreslin Tomažič, diversa musica, uguale bellezza

Il Requiem nella Basilica (foto Mattia Vecchi)
Le note del Requiem in Re minore K626 di Mozart, lo scorso sabato, sembravano giocare a nascondino tra le volte romaniche e gli archi gotici della Basilica di Aquileia. Corale Caminese e Coro polifonico Sant'Abate, insieme all'orchestra giovanile Filarmonici friulani, diretti dal Maestro Walter Themel hanno espresso tutta la loro forza e preparazione. Emozionanti sono stati i solisti, la soprano Francesca Scaini, la contralto Giovanna Dissera Bragadin, il tenore Filippo Tina Castiglioni e il basso Massimiliano Svab, giovane straordinaria promessa della lirica europea. Ancora una volta lo spirito di Mozart aleggiava su un pubblico attento e partecipe che ha affollato la chiesa in tutti gli ordini di posti disponibili. L'attacco del Dies Irae ha suscitato un sussulto nel cuore dei presenti e l'intera composizione ha ricordato una mano tesa verso l'Altissimo, un grido di protesta, ma nello stesso tempo di accettazione, del destino di morte e giudizio che incombe su ogni vivente. Si tratta di un atto di fede, ma anche di intensa ribellione - proprio come si deve a ogni autentica espressione di fede, come pure a ogni forma di umana rivolta, dove il confine tra l'una e l'altra è labile e incerto - un brivido di timore e terrore rilanciato dalla suggestione degli elementi architettonici voluti dai Patriarchi del sacro Romano Impero.

Il duo Ipavec-Pacorig al Kulturni dom
E venne la domenica mattina. Con essa, nella "Giornata internazionale del jazz", è arrivato uno straordinario concerto mattutino, nel cortile esterno del Kulturni dom di Gorizia. Aleksander Ipavec e Giorgio Pacorig hanno donato a un numeroso pubblico entusiasta, quattro indimenticabili brani, alcuni di loro composizione, altri del celebre Astor Piazzolla. Sarà stata la sorpresa di una performance in orario a dir poco originale o la distanza tra l'attesa e la realizzazione, fatto sta che l'ora di musica è trascorsa come se si fosse stati immersi in un sogno sublime. I musicisti hanno guidato i presenti in un viaggio dentro l'assoluta bellezza e l'infinita drammaticità dell'essere, viaggiando a vele spiegate tra i marosi dei momenti difficili dell'esistenza, tra gli scogli dei quali è costellata ogni vita, nei porti sereni dove è possibile tirare qualche effimero momento di sollievo. L'aggettivo "emozionante" è insufficiente a descrivere ciò che si è provato in quei momenti, un incanto che soltanto la forza del genio musicale può creare, anche nel momento in cui meno ce lo si può aspettare.

Domenica sera è stata vigilia della grande festa del Primo Maggio. Fino a non molto tempo fa, sulle alture della Slovenia si vedevano ovunque fuochi augurali che illuminavano la notte primaverile. Oggi tale tradizione si è persa nei meandri del tempo e si preferisce accendere un falò e costruire un momento di festa in attesa della giornata dedicata al Lavoro. Anche Nova Gorica non ha fatto eccezione e nel parco retrostante la biblioteca un grande fuoco ha scaldato la folla, in attesa del cantautore sloveno Vlado Kreslin e della sua band. Anche in questo caso si sono ascoltate vecchie e nuove canzoni del noto musicista, capace ancora di attrarre attorno a sé giovani e anziani con ritmi avvincenti, tipici degli anni '80 e '90 del XX secolo.

Il coro Pinko Tomažič a Bukuje
Dulcis in fundo, la festa del Lavoro è stata nobilitata a Bukuje, frazione di san Floriano del Collio, dalla presenza del coro sloveno Pinko Tomažič, che celebra in questo periodo i cinquanta anni dalla fondazione, dedicato alla memoria di una delle vittime assassinate dai fascisti a Opicina, subito dopo il secondo processo farsa di Trieste del 1941. I canti partigiani si sono alternati agli scritti degli eroi della Resistenza, le lingue slovena, tedesca e italiana si sono alternate in una significativa continuità. La forza delle voci, che riecheggiavano quelle delle decine di migliaia di giovani che nei boschi dei Balcani e delle Alpi hanno messo a repentaglio la propria vita per liberare i popoli dal nazifascismo, realizzava un singolare esempio di profonda comunione nella ricchezza della diversità. Era impossibile non farsi trascinare, accompagnando il coro con le proprie voci, in un desiderio di riscossa e di rinnovamento che forse oggi più che mai ha bisogno di essere risvegliato e coltivato.

Il classico Requiem di Mozart, l'affascinante jazz di Piazzolla, la sempre attuale musica popolare di Kreslin, i coinvolgenti canti partigiani del coto Pinko Tomažič... Insomma, un lungo week end di grande musica!

lunedì 1 maggio 2023

Primo maggio, considerazioni su lavoro e pace

Un primo maggio a Torino (repertorio personale)
 Che cosa si può dire il Primo maggio che non sia già stato detto? Come superare il livello di una retorica che, anno dopo anno, sembra sfiorare il dejà vu?

Improvvisamente, dopo anni di crisi occupazionale, si scopre che manca la mano d'opera. Ovunque, là dove fino a qualche tempo fa si entrava sommessamente, con il cappello in mano, certi di essere liquidati con un gentile "lasci il suo curriculum, appena possibile la chiamiamo noi", ora campeggiano i cartelli "cercasi personale".

Perché questo cambiamento di paradigma? Perché perfino un governo di destra sembra incline ad aumentare il numero degli immigrati riaprendo la strada dei "flussi" da molti anni tanto vituperata? Perché gli appelli sembrano essere disertati da tutti, soprattutto dai giovani?

I motivi sono molti, ma uno dei più richiamati, a volte purtroppo stigmatizzati, è quello relativo al basso salario che attende chi entra nel mondo del lavoro o chi cerca di raggiungere l'Europa per poter trovare i mezzi per sopravvivere insieme alla propria famiglia. L'impressione è che ci sia una crescita esponenziale dell'arricchimento dei "grandi" datori di lavoro, a scapito di un impoverimento progressivo delle piccole aziende e dei piccoli esercizi. I governi sembrano - con convinzione o "obtorto collo" - sostenere questa operazione di scavo che allontana sempre più clamorosamente i pochissimi straricchi dall'esercito immenso dei poveri e degli strapoveri.

Uno degli esempi più inquietanti viene da una delle industrie più fiorenti in Italia, quella delle armi. I proventi di tale macabro mercato sono giganteschi, non solo nella nostra Nazione e i sistemi di corruzione connessi a questa attività sono spaventosi. Si esportano armi in Paesi dittatoriali, in Nazioni come l'Egitto che rifiuta sistematicamente la "libertà e giustizia per Giulio Regeni", in Stati impegnati in tremende guerre fratricide, come quella in corso nello Yemen. E si sostiene che l'invio delle armi in Ucraina è solo una forma di sostegno alla resistenza antirussa e non invece un gigantesco affare per i commercianti - legalizzati o meno - degli armamenti.

Sarebbe interessante ascoltare qualche politico su questi temi, sentire qualche denuncia o qualche sia pur timido segnale di cambiamento di rotta. Sarebbe interessante sentire con convinzione quali leggi e regolamenti vengano pensati e promulgati per combattere la mafia, la corruzione imperante. E sarebbe molto interessante che al primo posto, a tutti i livelli, sia presentata la necessaria equa distribuzione delle ricchezze, l'aumento dei salari, la sicurezza e la dignità del lavoro, la lotta a qualsiasi forma di schiavitù.

Al di là delle parole, esistono politici, imprenditori, commercianti che non hanno il benché minimo scrupolo ad arricchirsi, producendo e vendendo strumenti che seminano morte e distruzione, lucrando sulla sofferenza di soldati e civili, fregandosi le mani - e forse anche facendo di tutto perché sia così - di fronte al perdurare di conflitti che si potrebbero facilmente concludere con un'appassionata trattativa.

Sì, neanche queste parole sono molto originali. Forse possono essere interpretate come un appello alle categorie lavorative e ai loro rappresentanti. Fino a quando non si parlerà di tutto ciò - mafia, corruzione, interessi da produzione e vendita d'armi, redistribuzione delle ricchezze, aumento dei salari, settimana lavorativa a misura d'uomo, servizi sociali di qualità, democrazia reale, ecc. - il Primo maggio resterà un contenitore vuoto, da alcuni anni anche una vetrina prestigiosa, per talenti musicali e teatrali già affermati o in via di affermazione. Non è la Giornata di ogni essere umano che umilmente cerca di sbarcare il lunario della propria vita, ma ancora una volta dei pochi "VIP" (orrenda espressione che stabilisce la distinzione tra persone "molto importanti" e poveri plebei) che dalle loro Ferrari salgono osannati sui palchi allestiti per loro.