Dalla rivista online Apertamente ricavo questo mio articolo, in vista dell'ormai prossimo centenario della nascita di don Lorenzo Milani. E' un po' lungo, ma credo valga la pena dedicrae qualche minuto. (ab)Don Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923 e
muore, sempre a Firenze, il 26 giugno 1967.
Pochi anni di vita, pochi chilometri percorsi, eppure il suo
messaggio ha i connotati dell’avvenimento storico e ha raggiunto tutti i
confini della terra.
Cresciuto in una ricca famiglia fiorentina, portatrice di
diverse culture e valori, improvvisamente e con grande sorpresa dei suoi amici
e parenti, decide di lasciare ogni forma di comodità e carriera per entrare in
Seminario e diventare prete. Forse ha compiuto questa scelta per un sottile
senso di colpa derivato dalla consapevolezza di essere nato privilegiato, forse
è rimasto colpito – come lui stesso ha raccontato – dal rimbrotto di un
mendicante che gli aveva detto “non si mangia il pane bianco nelle strade dei
poveri”. Fatto sta che tutta la sua esistenza è stata dedicata a innalzare la
cultura delle persone con le quali ha condiviso la sua missione.
Don Lorenzo inizia la sua missione In un’Italia lacerata
dalle divisioni politiche tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista.
Viene inviato come aiuto parroco a san Donato a Calenzano, nella periferia
industriale del capoluogo toscano. La sua prima “impresa” è la realizzazione
della scuola popolare, una sorta di università degli illetterati. Per mesi si
alternano sulla “cattedra” alcuni tra i personaggi più noti e influenti della
politica, della cultura, del giornalismo e dell’economia, suscitando accesi
dibattiti e appassionati momenti di confronto e di dialogo. E’ il tempo
dell’elaborazione del primo libro, le famose “Esperienze pastorali”, un testo
che ancora oggi – o forse a maggior ragione oggi – dimostra una straordinaria
attualità. Ovviamente l’impegno del cappellano non piace a tutti e ben presto
le lamentele dei benpensanti occupano la scrivania del vescovo, l’ottuso
cardinale friulano Ermenegildo Florit. Ben distante dalla tempra spirituale del
suo predecessore – il cardinale Elia Della Costa che aveva fatto chiudere
ostentatamente i balconi della sua residenza al passaggio del corteo di Hitler
e Mussolini nel 1938 – il presule non trova altra soluzione che quella di
inviare lo scomodo giovane prete a Barbiana, nell’alto Mugello.
Per capire cosa sia Barbiana, basta andarci, tenendo
presente che negli ultimi ottanta anni le strade sono totalmente cambiate,
ovviamente in meglio. Da Firenze si sale a Borgo san Lorenzo, da lì un percorso
asfaltato tortuoso conduce a Vicchio (il paese di Giotto!). Si imbocca una
stradina che attraversa uno stretto ponte a schiena d’asino e si trova
l’indicazione – forse l’unica esistente – per Barbiana. Ci si inerpica per un
viottolo, fino a non molto tempo fa un vero e proprio tratturo, sugli spalti
del Monte Giovi. Si intravvedono, lontano, qua e là, caseggiati contadini oggi
rimaneggiati, ma a quei tempi quasi diroccati. Si arriva a un bivio, dal quale
si scende, in circa un chilometro su terreno franoso, al “centro” di Barbiana.
Una canonica incollata a una chiesetta, qualche albero e, un centinaio di metri
più in basso, un piccolo cimitero di montagna. Ci si volta di qua e di là,
niente, sembra di essere arrivati nel Deserto dei Tartari di buzzatiana
memoria.
Insomma, una delle menti più fervide e dei cuori più
appassionati dell’Italia del tempo, viene relegato in una parrocchia
sostanzialmente inesistente, successore di nessuno, dal momento che dall’inizio
del secolo la sede parrocchiale era vacante. Chi non si sarebbe ribellato? Chi
non avrebbe mandato a quel paese l’obbedienza al vescovo? Chi non avrebbe
invocato l’appoggio di amici potenti, che peraltro a lui non mancavano? Don
Milani no, non si rifiuta, prova tutta la sofferenza del mondo, lascia san
Donato e si trasferisce a Barbiana, talmente deciso a restarvi per tutta la
vita da acquistare immediatamente lo spazio in cimitero dove oggi si trova la
sua tomba.
Non si perde d’animo e immediatamente crea la scuola che
avrebbe reso celebre il minuscolo borgo del Mugello. Reclutati uno a uno nelle
case coloniche, i bambini venivano a scuola 365 giorni l’anno, a volte
camminando oltre due ore per andare e tornare. Imparavano dal priore a leggere,
a scrivere, a conoscere il mondo. Diventavano un po’ alla volta padroni della
“parola”, il formidabile strumento che, solo, consente agli uomini di essere
liberi, entravano nei meccanismi della politica e dell’economia, diventavano
capaci di viaggiare, di incontrare altri mondi, perfino di nuotare, imparando
in una rudimentale fossa chiamata pomposamente piscina a salvare altri esseri
umani nel caso ci si fosse trovati testimoni di un naufragio. Tutto era
finalizzato a conoscere e ad amare e rispettare tutti gli esseri viventi e a
non lasciarsi schiavizzare mai da nessuno. Il motto – divenuto molto noto – “I
care” campeggia ancora oggi sulla porta dell’aula scolastica, accanto ai
grafici delle elezioni politiche del 1966, ai sestanti per lo studio
dell’astronomia e alla ricca biblioteca. Significa “mi sta a cuore, mi
interessa”, come scriveva lo stesso don Milani “il contrario del motto fascista
me ne frego”.
Negli interessi della scuola c’era soprattutto la storia e
l’educazione civica. Una riflessione sul ruolo dei cappellani militari che
avevano criticato l’obiezione di coscienza e sulla necessità di contestare la
disciplina militare, aveva suscitato uno scandalo e don Milani fu portato in
tribunale. Il suo memoriale difensivo si trasformò in un capolavoro, anch’esso
tuttora attualissimi, “L’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola
delle tentazioni”. Nella spietata analisi, si rileva come nessuna guerra alla
quale l’Italia ha partecipato negli ultimi duecento anni è stata difensiva, se
non la Resistenza che ha consentito di scacciare i sostenitori del razzismo,
della violenza sistematica e dell’aggressione imperialistica al mondo.
A difesa dei suoi scolari, sistematicamente bocciati nelle
scuole statali del tempo, don Milani inventa la scrittura collettiva,
costruendo insieme a tutti i ragazzi di Barbiana la “Lettera a una
professoressa”. E’ un inno all’importanza dell’istruzione come fondamento della
libertà, una traccia definitiva per la strada di ogni persona che abbia l’onore
di svolgere questa, che non può essere definita professione ma vocazione e
missione. Sono cambiati i tempi e la situazione sociale del Mugello e
dell’Italia non è certo quella di quegli anni. Ma il contenuto della “Lettera”
è quanto mai attuale anche oggi, non tanto forse per la denuncia di un analfabetismo letteralmente inteso, quanto
per quello culturale, più sottile e difficile da riconoscere. Il testo richiama
le suggestioni latino americane del rapporto Faure e la scrittura
rivoluzionaria del “Descolarizzare la società” di Ivan Ilich, collegandosi di
fatto con le più importanti istanze mondiali relative alla necessità di una
riforma strutturale del sistema dei percorsi didattici ed educativi.
Grazie alla collaboratrice Eda Pelagatti, la scuola di
Barbiana è stata anche luogo di amicizia, di costruzione di rapporti, di
incontri incredibili con personalità di ogni genere. Gli “amici” di don Lorenzo
affrontavano volentieri le curve del viottolo per raggiungere le panche sulle
quali venivano trattati come imputati a un processo, bersagliati da migliaia di
domande che gli scolari avevano preparato per poter conoscere meglio i misteri
della società, attraverso il racconto di qualificati testimoni. Per conoscere
la vivacità di tali momenti di incontro, i percorsi intellettuali del priore e
anche le sue intime preoccupazioni, basta leggere i due meravigliosi
epistolari, pubblicati già pochi anni dopo la morte, le “Lettere di don Milani”
e le meravigliose “Lettere alla mamma”, un tributo d’affetto alla figura di
gran lunga più influente nella sua vita, ma anche un vero e proprio trattato
esperienziale di psicologia e di filosofia.
I pochi anni di vita di don Lorenzo Milani hanno
rivoluzionato la scuola, la società e la chiesa cattolica, che ha trovato in
lui un testimone credibile e affidabile della necessità prima e dell’attuazione
poi, del Concilio Vaticano II (1962-1965). Le incomprensioni con la gerarchia
fanno parte del passato, del suo passato. Barbiana ha ricevuto negli scorsi
anni addirittura la visita di papa Francesco e il 27 maggio è atteso il
presidente della Repubblica Mattarella. Le strade sono state risistemate e gli
eredi degli antichi scolari vivono in caseggiati ristrutturati e moderni, la
situazione precedente è soltanto un ricordo. Barbiana è meta di pellegrinaggi
continui e forse tra un po’ quello che era considerato un prete ribelle sarà
canonizzato e innalzato agli onori degli altari.
Sarebbe un bel segno per la Chiesa, ma forse anche un
pericolo. Molte volte la proclamazione della santità è un formidabile modo per
disinnescare la potenza dei messaggi che vogliono inquietare e trasformare il
mondo. Anche la memoria di don Milani seguirà questa strada? La sua profezia
sarà inglobata in una nuova stagione nella quale il suo pungolo verrà
arrotondato e non ferirà più le coscienze?
Può darsi. In effetti, al di là della potenza trascinante
del fondatore, i messaggi trasmessi hanno aleggiato come spirito creativo e
hanno portato a qualche modifica e a qualche timida riforma. Tuttavia oggi –
nonostante gli sforzi di una classe insegnante in generale molto consapevole e
cresciuta proprio sul seme degli insegnamenti milaniani, nella società sembrano
tornati di moda le differenze di classe, il razzismo fattuale di chi chiude la
porta ai migranti, perfino la distinzione tra scuole umanistiche e tecniche, la
condanna per la moltitudine dei poveri a una povertà sempre più accentuata e il
percorso dei pochissimi ricchi verso una ricchezza sempre maggiore.
Insomma, c’è bisogno più che mai di un nuovo “don Milani”,
magari anche senza il “don”.