venerdì 30 aprile 2021

"Le" Gorica/Gorizia, l'unità nella pluralità

E' molto interessante il dibattito aperto dal deputato Pettarin, intorno a Nova Gorica e Gorizia. La sua proposta, sostanzialmente, è quella di orientarsi verso una città unita, con uno statuto speciale derivato dalla collocazione all'interno di due diversi Stati.

Come non essere d'accordo? Importante però è che il percorso verso una simile prospettiva sia costruito insieme, fin dalla sua ideazione. C'è in effetti il rischio - come nei commenti finora riportati dai quotidiani sembra in effetti accadere - che la questione venga affrontata soltanto da una parte, senza il coinvolgimento dell'altra. Se non si partisse da subito da una precisa volontà di ragionare insieme, al di là delle proposte dell'uno o dell'altro, non si arriverebbe sicuramente da nessuna parte. Anzi, potrebbe essere suscitata l'impressione di un insopportabile paternalismo da parte di chi "già sa" quale dovrebbe essere il bene per l'altro, paralizzando così ogni tentativo di oltrepassare il livello minimo delle formalistiche relazioni reciproche.

Ovviamente la prospettiva in sé è condivisibile ed entusiasmante. Più volte, anche i 2,5 lettori di questo blog, hanno potuto leggere la proposta di forzare la grammatica, con l'articolo al plurale e il nome della città al singolare: "le" unica Gorizia. Non è solo una formalità linguistica, ma il segno di una precisa scelta. Non si tratta infatti di omologazione o assimilazione, bensì di rispetto della specificità dell'una e dell'altra parte. L'unità presuppone la diversità, l'unicità la pluralità.

E' vero che l'ormai famoso "sguardo dal Sabotino" abbraccia un territorio evidentemente unitario, ma quello stesso punto di vista rileva immediatamente anche le differenze urbanistiche, architettoniche e paesaggistiche che caratterizzano "le" unica realtà. Il richiamo allora acquista un senso compiuto e del tutto condivisibile, se si tengono presenti alcuni aspetti che dovrebbero essere al centro dell'attenzione anche per ciò che concerne il percorso verso "le" capitale europea della cultura.

Anzitutto è necessario che si studino seriamente le lingue. Si è ancora molto lontani, soprattutto per ciò che concerne le persone in età adulta, da un autentico bi o tri-linguismo. E' molto difficile immaginare le città unita, là dove non viene considerata una priorità la possibilità di comprendersi reciprocamente, senza costringere l'interlocutore a parlare sempre una lingua diversa dalla propria.

Occorre poi moltiplicare le occasioni per una conoscenza di base. La percezione di una realtà con caratteristiche comuni non può nascere (solo) da decisioni prese nei sacri palazzi e nelle sedi istituzionali. A questi livelli "alti", Gorizia e Nova Gorica hanno avviato contatti da moltissimo tempo, basti pensare alle frequenti relazioni tra esponenti politici ancora ai tempi della Jugoslavia, ai contati culturali fra gli istituti accademici, agli sforzi comuni nell'abbattimento delle reti confinarie, alle costanti relazioni di buon vicinato tra le comunità cattoliche delle diocesi di Gorizia e Koper, ai progetti condivisi nell'ambito degli incontri Culturali Mitteleuropei, alle ormai già antiche "marce dell'amicizia" di qua e di là dei vecchi confini, solo per portare qualche esempio.

Ciò che ancora manca è la proposta di costruire occasioni che favoriscano il nascere di un'autentica amicizia tra le persone. Già si è constatato come gli straordinari "concerti sul confine", promossi soprattutto dai due Kulturni dom, abbiano portato nella Trg Evropa/Piazza Transalpina migliaia di persone, soprattutto giovani, unite dalla passione per la bellezza e per la musica. Importanti sono stati gli scambi della luce della pace di Betlemme ogni vigilia natalizia, gli annuali pellegrinaggi condivisi a Sveta Gora, come pure le belle iniziative promosse in anni recenti da Forum per Gorizia in accordo con alcune realtà slovene, tra esse l'abbattimento simbolico del muro di cartone e il grande pranzo collettivo sul confine. Tuttavia si è ancora lontani dalla "normalità" dei rapporti affettivi, vero fondamento di qualsiasi progetto autenticamente innovativo. Ne è prova lo stesso dibattito aperto in questo periodo, di fatto finora "a senso unico", con interventi di ogni tipo ma quasi nella totalità provenienti da esponenti residenti nella parte italiana. E ne è prova l'assenza quasi totale di strumenti di comunicazione bilingui, quotidiani o riviste, in grado di raccontare il territorio. E' difficile pensare al"le" città unita, quando nessuno a Nova Gorica legge Il Piccolo e ben pochi lo stesso Primorski dnevnik o a Gorizia il Primorske novice, solo per citare i tre principali quotidiani locali.

Sono le relazioni interpersonali, le interazioni ordinarie, la vera forza che reclama attenzione alla Cultura (con la C maiuscola) e alla Politica (anche con la P maiuscola). Le istituzioni funzionano se esprimono - in termini democratici e rappresentativi - proprio la vivacità di un territorio che "si pensa" insieme, che "dialoga" insieme e che "progetta" insieme.

In conclusione, una volta accolto il principio della priorità della relazione interpersonale sulla struttura che ne dovrebbe essere espressione, non è tanto importante che le città si dotino di uno strumento amministrativo unitario, sarebbe molto più interessante la presenza di formazioni politiche trans-nazionali, in grado di lavorare ordinariamente insieme sui temi condivisi e anche, se possibile, di presentarsi con un programma complementare alle elezioni in Slovenia e in Italia. In altre parole, l'appello all'unità del territorio deve radicarsi in una visione filosofica antropologica, internazionalista e solidaristica, fondata sul riconoscimento e sul rispetto reciproci. Ciò implica anche una visione del futuro ambientale, imprenditoriale e turistico, con una serie di opportunità straordinarie, offerte dal paesaggio, dalla storia (soprattutto del Novecento) e dalla creatività dei "goriziani". Per questi motivi, senza trascurare il resto, le priorità dovrebbero essere: l'attenzione all'ambiente naturale con la denuncia dei loschi interessi di chi guarda più al proprio arricchimento che alla salute delle persone; la scelta storica decisiva e ineludibile per il pacifismo e l'antifascismo su un ex confine storicamente devastato dalle due guerre mondiali e dai crimini del nazifascismo con tutte le loro conseguenze; la scelta della Cultura della valorizzazione della ricchezza di tutte le diversità e l'apertura all'accoglienza illimitata di chi proviene dai mondi della fame e della guerra come fondamento di ogni successiva azione e conseguente scelta politica.

In questi termini, il dibattito può e deve continuare, ma senza trascurare neppure per un istante, la parola "skupaj, insieme".

martedì 27 aprile 2021

Un pensiero ad Antonio Gramsci, nell'anniversario della sua morte (27 aprile 1937)

Antonio Gramsci è sepolto nel cimitero acattolico di Roma, quasi all'ombra della Piramide Cestia, insieme a tanti esponenti della cultura europea, inglesi, russi, greci e (non molti) italiani. Ricordo con una punta di commozione il luogo, sia per la straordinaria suggestione che ispira, sia per un motivo più personale. A pochi metri da Gramsci è sepolta la mia bisnonna, Sofia Conti Mazzetti, figlia del pastore protestante Ludovico Conti che alla fine dell'800 fu presidente della Chiesa Libera Cristiana, un movimento protestante di orientamento sociale, poi confluito nel metodismo italiano.

Il ricordo dell'anniversario della morte di Gramsci è pieno di rispetto per un uomo che ha pagato duramente, con la prigionia e la perdita della salute, le sue convinzioni.

"Vivere è partecipare", parteggiare. Gramsci "odia gli indifferenti", con le loro ipocrisie e i loro piagnistei. Certo, lui ha scelto da che parte stare e per tutti coloro che hanno vissuto la seconda guerra mondiale, la Resistenza e la ricostruzione post bellica, è stato un riferimento ideale, un esempio da seguire, a costo di rimetterci la propria vita. Il comunismo, attraversato dal pensiero di Gramsci, è una possibilità, forse ancora da riscoprire e riproporre pienamente. Un ricordo intenso, 84 anni dopo quel 27 aprile 1937.
 

lunedì 26 aprile 2021

La storia di Lyduska, un libro da non perdere...

La biografia è un genere letterario affascinante, soprattutto se chi ci si cimenta con essa riesce a coniugare la scrupolosità dello storiografo con l'empatia del ricercatore e la passione comunicativa del romanziere.

E' quanto riesce a realizzare Anna Cecchini, scrivendo il libro su Lydia (Lyduska) De Nordis Hornik (1921-2006). 

Il racconto della vita affonda le radici nelle generazioni precedenti, permettendoci di conoscere una saga familiare che intreccia le vicende del Veneto e del Goriziano, nel quadro delle complesse relazioni tra Lombardo Veneto, Impero Austro-Ungarico e successivamente Regno d'Italia. L'indagine si svolge all'interno di mondi privilegiati, tra titoli nobiliari, tristi matrimoni combinati, figure eccentriche di avventurosi viaggiatori e tavolate lussuose circondate da personaggi importanti.

I luoghi ordinari diventano spazi nei quali si intrecciano le vicende della storia universale, le ville che di solito risuonano dello scalpitio di cavalli, tintinnio di cristalli e ordini trasmessi alle maestranze, diventano le sedi dove si incontrano i generali e i politici per stabilire i confini degli Stati.

La storia di Lyduska ha due punti focali, la villa di famiglia a Salcano, affacciata sulle sponde dell'Isonzo e la tenuta di Slains in Kenya. Da una parte c'è l'apparente tranquillità di una vita giovanile spensierata mentre le nuvole oscure della dittatura e della guerra si addensano intorno al piccolo paradiso "custodito" dai monti goriziani. Dall'altra c'è il bisogno di avventura, ereditato in particolare da uno zio i cui iperbolici ma realistici racconti di viaggio richiamano le affascinanti invenzioni salgariane. Con esso viene dipinto un quadro originale sulla "Valle della felicità", una specie di strano rifugio africano, nelle colonie dell'Africa Orientale Britannica, per ricchi nobili e borghesi europei, affrancati dalle convenzioni morali e fondamentalmente - si direbbe oggi - sovranisti e abbastanza razzisti.

Le vicende esistenziali si mescolano alle tragedie planetarie e la seconda parte del percorso di Lyduska, sempre in altalena tra la Gorizia del secondo dopoguerra e il Kenya, è certamente molto più difficile e doloroso. La fine degli affetti più cari trasforma il carattere pur senza spegnere un sempre più maturo sorriso, il desiderio di rendersi utile insegna arti e mestieri, cresce l'amore per la natura e una certa sempre più marcata attenzione nei confronti degli altri esseri umani.

In questo modo Anna Cecchini riesce anche a tratteggiare una sintetica storia della Gorizia del XX secolo, là dove - come scrive un anonimo in una delle intestazioni dei capitoli - "gli abitanti di queste terre hanno cambiato più Stati che vestiti". L'obiettivo è realizzato, grazie a una sobria delicatezza che conduce il lettore a constatare senza giudicare, a condividere il dolore di ciascuno pur riconoscendo la distinzione tra la vittime e l'oppressore, in ogni caso a impegnarsi a saperne di più e a celebrare con convinzione la fine di una frontiera che non dovrebbe esistere più.

Con il patrimonio delle parole e dei reperti fotografici, la figura di Lyduska esprime una forza di volontà e una gioia di vivere travolgenti, insieme a un anticonformismo quasi naturale che la rende simpatica perfino dentro le convenienze nobiliari e gli stili di vita del tutto diversi da quelli della stragrande parte dei suoi contemporanei. In effetti di pagina in pagine ci sente sempre più vicini a questa donna, in ogni caso come tutti provata dalle difficoltà e piegata dalla sofferenza. 

Uno dei temi conduttori è quello dell'amore, vera forza vitale che trasforma un rampollo della società "bene" del tempo in un essere umano delicato e capace di immergersi nella bellezza della natura e del buon gusto, capace di comprendere e in parte condividere anche le rivendicazioni degli schiavizzati e degli indipendentisti kikuyu. Il "romanzo" di Lyduska termina con l'incidente d'auto che le porta via il marito nei pressi di Latisana e gli ultimi decenni vengono sintetizzati in poche pagine, come se si fossero spenti i riflettori e la scena fosse stata chiusa anzitempo.

Insomma, è un libro avvincente, documentato e appassionato. Un libro da non perdere, per conoscere meglio Lyduska, ma anche per vivere meglio la nuova, attesa stagione del"le" Gorizia, città "unica".

ANNA CECCHINI, Lyduska. La vita tra due mondi della contessa di Salcano, Mgs press 2020   

venerdì 23 aprile 2021

Riflessioni per il 25 aprile...

Il 25 aprile è la data ufficiale nella quale, a livello nazionale, celebriamo il 76° anniversario della Liberazione dell’Italia dalla dittatura nazi-fascista, che ha condotto l’Europa e il Mondo all’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Ricordiamo in questo giorno tutte e tutti coloro che hanno deciso di rischiare e perdere la propria vita per combattere contro gli oppressori, per garantire alle nuove generazioni un futuro di libertà, di giustizia e di autentica pace. La lotta e il sacrificio da essi sostenuto hanno consentito di ricostruire la Nazione sulle macerie del conflitto, dando a essa il fondamento sicuro della Costituzione Repubblicana, frutto della convergenza ideale, culturale e politica tra i rappresentanti delle diverse forze che si sono impegnate contro la dittatura fascista.

Non ci si può dimenticare di quegli eventi, meno che meno indebolire la loro importanza ponendo sullo stesso piano le vittime e i carnefici, in una malintesa interpretazione della cosiddetta memoria condivisa o riconciliata. E’ necessario che sia garantita il pieno sostegno morale e materiale alla ricerca storica, affinché si possano offrire criteri di lettura veritieri e scientificamente fondati. Sono da guardare con preoccupazione i tentativi di ignorare il significato e la forza della Resistenza, perfino attraverso la minaccia intimidatoria nei confronti di chi propone lo studio di documenti in grado di fornire uno sguardo d’insieme complessivo e seriamente documentato sugli avvenimenti della prima metà del Novecento.
Senza una corretta analisi, diventa molto concreto il rischio di una nuova diffusione dei semi venefici della violenza, degli interessi egoistici e del razzismo.

La pandemia ha rivelato la fragilità di un sistema economico basato sul criterio dell’arricchimento a ogni costo, portando anche nel Nord del mondo la paura quotidiana della morte che attanaglia da sempre la stragrande parte dell’umanità, schiacciata dalla fame, delle malattie e dalle guerre.

Come ne usciremo? Cosa significa “Resistenza” in epoca di contrasto globale al coronavirus? Significa anzitutto ritrovare, proprio dentro la comune partecipazione alla stessa sorte dolorosa, l’importanza della fraternità e sororità universali. Significa liberare dal vincolo dei brevetti e della macroeconomia i vaccini, non corrispondendo agli interessi delle case farmaceutiche e non riservandoli soltanto all’”occidente” ricco. Significa prepararsi ad affrontare la stagione della ripresa, chiedendo maggiore impegno di risorse a chi più ne ha, al fine di poter aiutare e sostenere le tante realtà messe in crisi dalle pur necessarie regole di contrasto al contagio. Occorre soprattutto investire in efficaci politiche del lavoro, secondo i principi del “lavorare meno, lavorare tutti”, dell’assoluta garanzia di giusto salario e di un convinto contrasto al caporalato, allo sfruttamento, all’insicurezza dei lavoratori.

I fenomeni migratori continuano e interessano donne, uomini e bambini che devono affrontare incredibili pericoli per poter raggiungere quello che essi credono essere l’approdo della speranza e di un futuro sostenibile. Tanti affrontano il Mare Mediterraneo e migliaia hanno perso la vita nelle sue acque. Tanti altri risalgono via terra lungo la cosiddetta “rotta balcanica” e centinaia hanno perso la vita nei boschi e nei fiumi dei Balcani, molti sopportano grandi disagi nei campi di concentramento disseminati in Turchia, in Libia, nelle isole greche e sui confini tra la Bosnia e la Croazia. “Resistenza” significa stare dalla loro parte, sostenere lo sforzo enorme delle ong che – vilipese da una parte cospicua dell’opinione pubblica – salvano le vite dall’annegamento e cercano di garantire, non sempre riuscendoci, la tutela e i diritti di coloro che giungono sul territorio italiano e vengono respinti in Slovenia, sulla base di accordi antichi, precedenti all’obbligo di praticare la legislazione dell’Unione Europea.

I cambiamenti climatici hanno portato il Pianeta sulla soglia della rovina. Le vicende connesse all’epidemia hanno reso meno alta la voce di Greta Thunberg e dei milioni di giovani che da almeno due anni scendono in piazza nei “venerdì per il futuro”. Occorre invece prendere seriamente in considerazione una “Resistenza” anche in questo campo, in grado di coniugare la necessità di una riconversione industriale a quella dell’acquisizione di nuovi stili di vita, improntati all’equità e alla solidarietà. L’autentica trasformazione del mondo inizia dalla serietà e consapevolezza dei nostri acquisti quotidiani.

Infine, ma soltanto per fermarsi a pochi esempi, “Resistenza” è chiedere, senza stancarsi mai, fino al raggiungimento dell’obiettivo, verità e giustizia per Giulio Regeni. E’ volere la liberazione di Patrick Zaki dalle prigioni egiziane, anche attraverso il conferimento della cittadinanza italiana. E’ richiamare per chiarimenti l’ambasciatore in Egitto, piuttosto che realizzare affari vendendo navi da guerra e armi a un Paese dove la democrazia è infangata dalla delazione e dalla tortura.
Tutto questo riguarda il mondo intero, l’Europa, l’Italia, la nostra Regione. 

Non cediamo alla tentazione del far finta di niente, non rifiutiamoci di impegnarci, ciascuno secondo la propria indole e responsabilità.

Solo così “ora e sempre, Resistenza sarà”.

mercoledì 21 aprile 2021

Earth Day, 22 aprile 2021

Davanti a me c'è una sveglia, di quelle antiche, nera. Mi sembra enorme e il regolare ticchettio prevale su qualsiasi altro rumore, costringe nel suo schema il mio pensiero.
La sposto e la relego sopra la libreria, un mastodonte in confronto, ora non la vedo quasi più, l'ho resa inoffensiva. 
Che grande la mia casa, che ampio respiro, con le sue alte stanze affacciate verso il suggestivo panorama cittadino.
Dal Sabotino, questa mattina, la cercavo con gli occhi, ma non riuscivo a vederla, è troppo piccola e si smarrisce come un bimbo indisciplinato in mezzo a Gorizia, "la grande città" come diceva Bulgakov parlando di Gerusalemme che riempiva di incubi i sogni di Pilato, nell'indimenticabile Maestro e Margherita. 
Il Sabotino sarà sì grande, chiude l'orizzonte Nord della vecchia e della nuova metropoli, insieme al san Gabriele e al Monte Santo. Ma provate a individuarli quando siete sulla cima del Triglav, la vetta più alta della Slovenija.
Chi ci passa sopra con l'aereo e guarda giù, non vede altro che un irregolare massiccio, a volte abitato d'inverno dalla neve. Tre secondi, uno sguardo e nulla più.
Chissà cosa ha provato Yuri Gagarin quando per la prima volta gli occhi umani hanno contemplato la sfera gigantesca, la continua alternanza di colori, il mare immenso, la terra emersa, i poli ghiacciati al Nord e al Sud, il contorno dei Continenti, il coraggio delle isole sperdute nell'Oceano?
Amstrong e Aldrin sono stati i pionieri, incantati dalla prima alba della Terra sorta sull'orizzonte della Luna. Una piccolo scatto fotografico per un uomo, una meraviglia immensa per l'umanità, la testimonianza della vittoria, della conquista, della potenza inarrestabile della scienza e della tecnica...
Ed ecco infine il Voyager 1, il suo occhio meccanico ruota e si fissa, come attratto dall'apparente nulla, Ha da qualche mese sorvolato Nettuno, si trova a sei miliardi di chilometri dal punto di partenza. E' una distanza inconcepibile, eppure insignificante di fronte alle dimensioni del Sistema Solare, della Via Lattea con le sue poetiche costellazioni, degli ammassi di Galassie proiettati a velocità sempre più elevata verso il non-ente, dall'istante fuori del tempo del big bang.
Ecco cosa si vede del Pianeta Terra da poco oltre Nettuno, un pulviscolo di polvere sulla lavagna misteriosa del buio cosmico, un granello di sabbia disperso nella spiaggia illimitata dell'essere.
Questo pulviscolo è la nostra Casa, è tutto ciò che ci fa nascere, crescere, voler bene e odiare, provare gioia o dolore, generare e uccidere, fare l'amore e usare violenza, costruire e distruggere. Forse se ce lo ricordassimo di più, ci sentiremmo tutti più piccoli e fragili, come tali sorelle e fratelli, minuscoli atomi dispersi nell'illimitato universo, ma atomi capaci di pensare e soprattutto di Amare. 


Detto questo, ecco qualche informazione in più sulla Giornata mondiale che si celebra questo giovedì, 22 aprile 2021. ab

La Giornata Mondiale della Terra (Earth Day) è la più grande manifestazione ambientale dedicata al Pianeta e si celebra ogni anno da 51 anni. Nata nel 1970 per sensibilizzare il mondo all'importanza della conservazione delle risorse naturali della Terra, negli ultimi anni è riuscita a mobilitare oltre un miliardo di persone nei 193 Paesi dell’ONU coinvolti. Oggi la Giornata Mondiale della Terra è diventato il più potente strumento di richiamo alla tutela del Pianeta in tutte le culture e per tutte le generazioni. Come previsto dalle Nazioni Unite, l’Earth Day si celebra annualmente un mese e due giorni dopo l'equinozio di primaverail 22 aprile. Ogni edizione ha il suo tema. Quello della Giornata Mondiale della Terra 2021 è Restore Our Earth: cioè ripariamo e riabilitiamo il Pianeta (dai danni già provocati). L’intento, quindi, non è solo sensibilizzare l’umanità sulla necessità di ridurre l’impatto ambientale attraverso l’utilizzo di processi naturali, l’impiego di tecnologia verde e tecniche innovative. Ma anche quello di cercare di rimediare al danno già fatto. Parole d’ordine sono protezione sostenibilità ambientale. Gli obiettivi comuni, una maggior tutela salvaguardia del pianeta. L’Earth Day Network di Washington è l’ONG internazionale che promuove la Giornata Mondiale della Terra delle Nazioni Unite. 

Perché salvare la Terra non è più solo un’opzione, è una necessità

domenica 18 aprile 2021

In memoria di "circa" 800 caduti nel Mare Mediterraneo

Il 18 aprile 2015 "circa" 800 migranti persero la vita nel Mediterraneo, nelle acque antistanti alla Libia, a causa dell'affondamento della nave che avrebbe dovuto condurli sulle coste italiane. Si tratta della più grande tragedia nel mare dalla fine della seconda guerra mondiale.

Fa pensare quel "circa", tramandato dalle cronache giornalistiche. "Circa" vuol dire più o meno. Potevano essere 850 o 750, forse 900... Quel "circa" offre inconsapevolmente la cifra della distrazione, dell'abitudine alla morte. Ognuno di quei "circa" 800 era una persona, soggetto portatore di diritti e di doveri, essere "unico e irripetibile", partecipe dello straordinario ed effimero mistero della Vita. Colui che è annegato non è un numero fra i tanti o un "circa" tra coloro dei quali si sono rintracciati i cadaveri e quelli dispersi. E' un essere umano, con la propria storia, con una famiglia lasciata indietro nell'ansia, con una speranza nel cuore, con una competenza acquisita negli anni, con il desiderio di un futuro... come ogni altro simile, sorella o fratello che sia, parte integrante della famiglia umana.

Quei "circa" 800 non sono stati uccisi da un incidente o da un imprevisto, ma da politiche omicide, approvate e coordinate dalla "civilissima" Unione Europea, dove forze sovraniste e razziste perseguono la chiusura dei porti e dei confini, mondi straricchi che elevano i muri contro gli eserciti indifesi degli strapoveri, che cercano di fuggire dalla guerra, dalla fame e dalle persecuzioni. Innalzano nuovi muri, proprio coloro che avevano esultato per il crollo del muro di Berlino e delle reti che dividevano l'Europa. Evidentemente non erano stati demoliti nel nome di un'autentica giustizia e libertà, ma della vittoria del liberalismo capitalista, in grado di garantire la libera circolazione delle merci ma di impedire quella delle persone.

Dal 18 aprile 2015 tanti altri sono morti nel mare, nei boschi dei Balcani, nei campi di concentramento in Libia, in Turchia, nelle Isole Greche. I contrabbandieri di gente, le potentissime mafie internazionali, hanno moltiplicato i loro introiti ottenute con una riedizione dello schiavismo antico. Nessuno sembra voler o poter contrastare la loro violenta ingordigia, forse solo le ong - tanto vituperate e ridicolizzate dalle destre nazionaliste - che solcano le acque alla ricerca di naufraghi da salvare. 

L'Europa deve immediatamente cambiare indirizzo, passare dalla "difesa dei propri confini" dall'assalto dei profughi disarmati alla "politica dell'accoglienza", che implica una nuova concezione dell'economia, del lavoro, dell'abitazione, dei diritti, della cultura. E' una nuova concezione che avvia la costruzione di un nuovo sistema sociale, dal momento che la concezione della relazione fra le persone nell'epoca della globalizzazione è assolutamente decisiva per il futuro non soltanto dell'Uomo ma dell'intero ambiente vitale.

Auspichiamo che le "circa" 800 persone, una a una, ciascuna di loro e anche tutte le altre disperse nelle rotte migratorie in questi anni, siano ricordate come portatrici dell'istanza profetica di un nuovo mondo, non più fondato sugli interessi del Capitale, ma sulla salvaguardia dei diritti di tutte e tutti i viventi. 

giovedì 15 aprile 2021

Il dialogo fra la morte e la vita, in tempo di pandemia e di migrazioni

La morte è molto presente. Lo è sempre stata, d'accordo, ma in questo tempo e nello spazio "occidentale" ha preso la parte della protagonista.
Ogni giorno, da oltre un anno, i bollettini riportano le cifre del covid - 20mila contagi, 600 morti, 1000 terapie intensive e così via. Fanno ormai parte di noi - come il crollo delle Torri Gemelle, lo sbarco dell'uomo sulla Luna o lo tsunami di Fukushima - le immagini dei camion militari che trasportano le bare di coloro che se ne sono andati senza poter ricevere neppure un saluto dai propri cari.
Sono entrate nel nostro vissuto altre tragedie, simbolicamente sintetizzate da Alan Kurdi, riverso senza vita su una spiaggia della Turchia. Rappresenta decine di migliaia di scomparsi, nelle acque del Mediterraneo e nei boschi dei Balcani. E come dimenticare i bambini della Siria, i volti terrorizzati sotto le bombe, l'ansia di fuggire verso un futuro del tutto ignoto.
Questa convivenza con la morte, questa minaccia costante alla nostra integrità, ci rende migliori? Certo, la vita procede, come se fosse niente. Si fanno programmi, si pensa a ciò che ci sta davanti, si combattono battaglie politiche , sfruttando la paura o la preoccupazione dei più. Ma il tristo mietitore sembra sempre lì, con la su falce e il sorriso sardonico, davanti all'affaccendarsi dell'essere umano che si occupa di mille cose, ritenendole importanti, fondamentali, senz'alcun dubbio indispensabili. In nome delle proprie pretese ragioni si ostacolano i progetti altrui, ci si scontra per ogni piccola differenza, si innalzano mura interiori dentro le quali ci si rinchiude per impedire a chiunque di raggiungere il cuore. 
La vicinanza del dolore e della morte dovrebbero farci sentire più uniti. Non c'è nulla di più reale della sofferenza individuale, nulla che accomuna di più non soltanto gli umani, ma tutti gli esseri viventi. Eppure...
In un viaggio in Croazia, ai tempi delle terribili guerre dell'ultimo decennio del XX secolo, i religiosi discutevano tra loro di precedenze nelle processioni, mentre nei loro paesi le persone si scontravano dando vita a massacri inenarrabili. Si può vivere con la morte accanto e far finta di niente, intrisi soltanto di una tensione insopprimibile ma inconsapevole. Si può discutere di tutto, di calcio come di politica, di montagna come di filosofia, di libri e di cinema, come se non si fosse minacciati dal Nulla oscuro, come se l'oggi fosse eterno e non effimero frammento di una luce che si potrebbe spegnere da un momento all'altro.
Forse non può essere altro che così, se si vivesse sempre con la morte in faccia sarebbe impossibile sopportare lo scorrere drammatico degli istanti. Occorre al contrario vivere, intensamente vivere, impegnando tutto in quel "momento" così particolare che è l'"adesso", dilatandolo più possibile in una dimensione che almeno tenda verso l'infinità e l'eternità. Tuttavia il confine tra l'impegno immenso nel presente e la totale distrazione da un "prima" e da un "dopo" è molto labile. Solo la trascendenza - intesa come affrancamento dalla prigione dello spazio e del tempo - può liberare l'uomo individuo dalla tentazione di essere l'unica misura di tutte le cose, divenendo così preda di un Potere venefico che si alimenta proprio con il cibo dell'oblio e sa approfittare della radicale fragilità dell'Esistenza.
Per questo, non è necessario accogliere nella totalità l'invito a contemplare il teschio proposto dai monaci tibetani, dai mistici protestanti della Renania, dall'Amleto di Shakespeare o dagli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Basterebbe forse approfittare di questa rinnovata" presenza" della morte per non chiudere gli occhi davanti al mistero del Male, fisico e morale, che si stende come ombra sulla quotidianità. Ciò ci aiuterebbe a sentirci finalmente sorelle e fratelli, accomunati dallo stesso destino. E ci consentirebbe di fregiarci del nobile nome di "pellegrini", viandanti sulla Terra alla ricerca della Vita, costruttori ovunque di giustizia e di pace, "leali con il mondo, ma non schiavi del mondo", come recitava quasi duemila anni fa la Lettera a Diogneto.

lunedì 12 aprile 2021

La Rete Dasi sostiene gli Anestesisti e i Rianimatori del FVG

Ecco oggi un importante comunicato stampa, con il quale Rete Dasi del FVG sostiene le drammatiche ragioni della lettera aperta scritta dall'Associazione Anestesisti e Rianimatori del Friuli Venezia Giulia. Vale la pena di approfondire...

La Rete DASI (Diritti, Accoglienza, Solidarietà Internazionale) FVG , di fronte al lucido realismo e alla tragica severità della lettera indirizzata dalla sezione FVG della associazione AAROI-EMAC al presidente Fedriga, esprime piena solidarietà ai medici dell'Associazione Anestesisti e Rianimatori e a tutto il personale della sanità regionale: medici, infermieri ed operatori della sanità pubblica: grazie alla loro abnegazione il servizio sanitario regionale, pur fra mille difficoltà, ha continuato a lavorare per la salute di tutti i nostri concittadini.
AAROI-EMAC fvg già nel novembre scorso aveva espresso al presidente regionale “serissime preoccupazioni per la situazione attuale che in rapida negativa evoluzione sta sottoponendo noi ed i nostri ospedali ad un’onda d’urto non sostenibile “, sottolineando la mancanza di “un’idea chiara ed un progetto preciso in grado di incidere su questa pandemia a tutti i livelli”. In quella occasione AAROI-EMAC FVG aveva affermato “durante questa pandemia molti nodi sono già venuti al pettine, il principale dei quali è di fatto l’inconsistenza di una sanità territoriale … senza le necessarie sinergie ed integrazioni con la parte ospedaliera, senza i chiari percorsi e senza le adeguate strutture in un risultato finale di un sistema sanitario che permane erroneamente, costantemente ed esasperatamente ospedale-centrico”
Preoccupazioni ampiamente condivise anche dalla Rete DASI FVG, che, di fronte al difficile momento vissuto dalle popolazione e dal Servizio Sanitario Regionale, a causa della pandemia da Covid-19, si è impegnata per contribuire (documento allegato inviato anche in Regione) alla revisione dell’organizzazione del Servizio Sanitario Regionale. Ha elaborato alcune proposte per garantire un’assistenza continua, flessibile e facilmente accessibile, con una visione globale e unitaria dei determinanti sociali della “salute di comunità e nella comunità”. La rete DASI fvg sollecita una progettazione partecipata per costruire con un disegno unitario, una forte infrastrutturazione dei servizi territoriali . Il potenziamento del territorio è parte di un disegno complessivo di rinnovamento del sistema sanitario e rappresenta un modo di concepire la sanità che riguarda tutti i livelli di assistenza, compresa l’assistenza ospedaliera.
Le sinergie fra sanità territoriale e strutture ospedaliere e fra assistenza sociale e assistenza sanitaria rischiano di rimanere solo sulla carta, se non si affrontano, coraggiosamente e con determinazione, sia le criticità evidenziate quali la situazione della gestione delle aree di emergenza delle terapie "semintensive”, sia altre storiche contraddizioni quali lo squilibrio tra medici e infermieri e l'inserimento dei medici della medicina generale fra il personale dipendente del servizio sanitario pubblico.
Secondo Rete DASI FVG bisogna assumere, rifinanziare e affrontare questa emergenza sanitaria con un piano eccezionale: copertura di tutti i posti negli organici, ad ogni livello, con assunzioni a tempo indeterminato e progressivo aumento delle spesa per il territorio per la realizzazione concreta di strutture e servizi sociali e sanitari di base.
Rete DASI FVG condivide la necessità evidenziata anche da AAROI-EMAC fvg di attivare strumenti di consultazione, ascolto, condivisione e verifica cui possano partecipare le comunità locali e tutti gli operatori del servizio sanitario regionale con le loro organizzazioni sindacali e professionali.

RETE DASI FVG 

domenica 11 aprile 2021

Qualche riflessione sul libro biblico dei Giudici

Davvero interessante è il Libro dei Giudici, il settimo nell'ordine che si ritrova in qualsiasi Bibbia. Tratta di un periodo particolare, ponte tra la conquista della terra promessa da parte degli Israeliti e l'inizio della regalità (circa tra l'XI e il IX secolo avanti Cristo). In sostanza, le vicende impegnano un paio di secoli e sono incentrate su queste figure particolari - i "giudici" appunto - che amministrano le diverse tribù. Lo schema è sempre ,lo stesso. Il popolo "dimentica" il proprio Dio e si prostra davanti agli dei appartenenti ai popoli conquistati. La punizione non si fa attendere e i vari Filistei, Ammoniti, Moabiti, Gebusei si riappropriano delle terre precedentemente perdute, seminando il panico tra i "figli di Giacobbe". Nella situazione di schiavitù gli ebrei gridano al Signore che, valutando il loro pentimento, invia un condottiero a salvarli.
Mosè e Giosué appaiono servi fedeli e integerrimi del divino, obbediscono pedissequamente alle sue leggi e realizzano i suoi cruenti desideri sconfiggendo e annichilendo i vari nemici. I Giudici invece sembrano figure moralmente meno delineate e le loro vittorie vengono ottenute spesso con l'inganno. Gedeone imbroglia i Moabiti facendoli combattere ed eliminarsi vicendevolmente. Il forte Sisara viene ucciso dalla fragile Gioele che gli conficca nella tempia un piolo della tenda, ottenendo il plauso e il canto della giudice (sì, una donna) Debora. Ietro vince contro gli Ammoniti e per ingraziarsi Dio gli promette il sacrificio umano della prima persona che avrebbe incontrato rientrando verso la sua città. Gli correrà incontro la figlia, che il padre non esiterà a immolare, dopo averle consentito un paio di mesi "per piangere la sua verginità". Sansone "fa la volontà di Dio" ingannando costantemente i Filistei, unendo il desiderio di unirsi alle loro donne alla creazione di pretesti per seminare inutili stragi. I membri della tribù di Dan, alla ricerca di nuovi pascoli, scoprono una zona definita "serena e in pace", l'attaccano sapendo che i suoi abitanti non potrebbero essere aiutati da nessuno, e "passano a fil di spada tutti i cittadini", insediandosi al loro posto.
Tutto ciò con l'appoggio di questo particolare "Dio" che garantisce al proprio popolo progresso e benessere, attraverso il sistematico massacro degli autoctoni, in cambio di totale sottomissione e che lascia Israele nelle mani dei gruppi umani circostanti, nei momenti di disobbedienza e di dimenticanza.
Insomma, la prima parte della Bibbia è piena di sangue, gli autori si compiacciono dei trentamila morti in battaglia, delle città fatte anatema con la soppressione di tutti i viventi, uomini, donne, bambini e bestiame, delle teste tagliate, per non parlare di tutti i primogeniti d'Egitto e dei carri e cavalieri sprofondati nel Mar Rosso.
In tutti questi testi la liturgia invita a riconoscere la Parola di Dio e a rispondere con il rendimento di grazie. Ma è davvero sostenibile che tutto ciò non sia altro che un modo simbolico per affermare il primato di Dio su tutto il creato? Era proprio necessario costruire un'allegoria così grondante di sangue e di palese ingiustizia? E' poi così diverso ciò che scrive la Bibbia dai miti della Grecia antica, dai comportamenti umani, troppo umani, degli dei dell'Olimpo che troppo presto siamo stati abituati a relegare nella soffitta della nostra infanzia? Come può una fede autentica nel trascendente, nel Dio definito "padre", essere compatibile con il compiacimento davanti alle orrende carneficine legate all'occupazione sistematica della Palestina? Senza cedere a immediate tentazioni anacronistiche, si può leggere in un'enfasi di ideologia religiosa lo svolgersi di quegli eventi come una lontana radice che in qualche modo tenti di giustificare la situazione attuale della martoriata "Terra Santa"? La divinizzazione dell'identità è una grande sciagura, in nome di un'invenzione umana si pretende di poter cancellare dalla faccia della terra chi non si riconosce in essa...

venerdì 9 aprile 2021

Ancora qualche pensiero sul Sabotino, con un grazie a CAI e PZS

Il bivio, dove inizia il sentiero 97
E' stato ripristinato un nuovo sentiero, per salire sul Monte Sabotin. E' segnato con i bolli bianchi e rossi e porta il numero 97. In questo periodo di divieto generale di sconfinamento, anche se per fortuna non esiste alcun controllo sui percorsi escursionistici, la nuova via consente in ogni caso di raggiungere la cima rimanendo sempre in territorio italiano.

E' un po' ripido, soprattutto nel primo tratto che consente di "tagliare" un ampio tornante della mulattiera principale. Consente ampi e remunerativi sguardi sulle Gorizia e sul Collio. Attraversa anche una fascia di rocce carsiche friabili, offrendo la divertente sensazione di una piccola scalata. Niente di esposto o di difficile, intendiamoci, solo la necessità di utilizzare in qualche punto le mani.

La montagna è sempre più frequentata, in ogni occasione ormai si può scegliere una strada diversa e su tutte si moltiplicano gli incontri - buon giorno, dober dan, good morning, mandi - in una nuova testimonianza della bellezza e del miracolo del "cammino". Tutti si è accomunati dal desiderio di raggiungere la meta, di immergersi nella maestà della natura, di scoprire i segni commoventi dell'arte popolare, della spiritualità dei semplici, della tragicità della guerra e della bellezza della fraternità e della pace. Proprio in questi comuni obiettivi, ci si trova uniti nella celebrazione delle diversità, si realizzano nuove conoscenze, si avviano nuove amicizie e si consolidano quelle antiche.

Non lo si pensa sempre, quando si affrontano i sentieri, ma senza qualcuno che investe tempo e tante energie per tracciarli, ripulirli, mantenerli in ordine, sarebbe impossibile godere di queste straordinarie opportunità. Senza i volontari del Club Alpino Italiano (CAI) e quelli della Planinska Zveza Slovenije (PZS), ben poche persone avrebbero potuto trovare conforto da splendide passeggiate sportive nei tempi di "zona rossa", quando era possibile uscire soltanto per svolgere attività sportiva. Ogni volta che si sale o si scende, è giusto ricordare con gratitudine questi particolari lavoratori della montagna, mossi soltanto dalla loro passione ed entusiasmo.

Resti di scritte sotto la casermetta
Nel corso dell'ultima occasione, scendendo sotto la casermetta ormai da tanti anni disabitata, c'è stata una sorpresa. La zona, fino a un mese fa coperta da cespugli e arbusti, è stata completamente ripulita ed esposta al Sole. Si passa in mezzo a strane pietraie, disposte in modo regolare. Di che cosa si tratta? Della scritta W l'Italia che campeggiava candida ai tempi del confine con la Jugoslavja. Non la si era più vista perché la Natura aveva pietosamente nascosto quello che non era altro che un'anacronistica rivendicazione territoriale. Ora non la si riconosce bene perché le pietre sono annerite dallo scorrere del tempo. Mentre forse davvero si dovrebbe lasciare anche altrove alla vegetazione il compito di armonizzare i segni di appartenenza che appartengono al passato, si auspica che a qualcuno non venga in mente di ripristinare quella scritta nazionalista. Siamo tutti in Europa, Nova Gorica/Gorizia si appresta (il verbo al singolare è voluto) a essere capitale della Cultura. Forse sarebbe ora di ripensare anche le modalità e i segni della memoria. Si potrebbero anche spegnere le luci tricolori, sostituendole eventualmente con i colori dell'Unione Europea... o lasciare spazio alla misteriosa bellezza del buio e del silenzio, alle pietre bianche accese la notte dalla pallida luce della Luna.  


 

mercoledì 7 aprile 2021

Hans Küng, un grande del nostro tempo

È morto Hans Kung. E’ stato un grande studioso, dotato di un’intelligenza straordinaria e depositario di una cultura teologica e filosofica enciclopedica.

I suoi libri, soprattutto negli anni ’80 del XX secolo, sono stati un punto di riferimento fondamentale per coloro che avevano letto nei documenti del Concilio Vaticano II una spinta riformatrice per la Chiesa cattolica e che erano rimasti delusi dagli sviluppi successivi.

Con il monumentale “Dio esiste?”, aveva introdotto un dialogo intenso, appassionato e rispettoso, con la Cultura contemporanea, procedendo dalla svolta antropocentrica della filosofia e guardando con critica simpatia alle potenzialità e alle sofferenze della modernità. In quel tempo era un procedimento antitetico a quello portato avanti a livello magisteriale da Giovanni Paolo II e dalla Congregazione per la Dottrina della fede – di lì a poco guidata dall’allora cardinale Josef Ratzinger – incentrato sulla riproposizione, in chiave personalista, dell’aristotelismo tomista.
In “Infallibile? Una domanda”, Kung aveva richiamato la necessità di superare il dogma del Concilio Vaticano I (1870), riproponendo un’ecclesiologia più fedele alla parola della Scrittura e all’esempio del Maestro. Su questa indispensabile via di autoriforma si pone anche “Essere cristiani”, un vero e proprio manifesto dell’ecumenismo, basato certamente sul dettato conciliare, ma anche proiettato molto più in là, verso una “confederazione di chiese”, unite nella fedeltà al Fondatore e rispettose delle loro diversità storiche e culturali.
La sua riflessione si è ampliata ulteriormente con “Cristianesimo e Religioni universali”, testo a causa del quale fu ingiustamente accusato di sincretismo, uno dei tanti rilievi a lui mossi dall’ex Sant’Uffizio, accompagnati da dolorose e persecutorie sanzioni, giunte fino al ritiro della qualifica di teologo “cattolico”. In realtà in quel libro non faceva altro che sviluppare i temi contenuti nella Dichiarazione del Vaticano II “Nostra aetate”, dove è richiamato il riferimento divino come unica origine e unico destino di ogni essere vivente, in un’ottica di condivisione e collaborazione nella costruzione della pace.
Lo stesso tema, in tempi più recenti, lo si trova in “Perché un’etica mondiale. Religione ed etica in tempi di globalizzazione”. E’ una vera e propria sintesi, una specie di testamento intellettuale e spirituale. In un momento decisivo per le sorti del Mondo, con le potenzialità di sopravvivenza o distruzione nelle mani dell’essere umano, diventa indispensabile e decisivo trovare una nuova sintesi morale per quanto possibile condivisa, sulla quale innalzare nuove relazioni tra persone e popoli nell’epoca della globalizzazione delle relazioni.
Oltre a un indomito coraggio e alla permanente dignità nel percorrere senza esitazioni la strada indicata dalla coscienza, anche a costo di grandi sacrifici, Hans Kung ha sempre testimoniato un forte fascino per la bellezza dell’arte e della natura. In questo senso è davvero imperdibile “Maestri di umanità. Teologia e letteratura”, uno straordinario saggio sulla figura e l’opera di Thomas Mann, Hermann Hesse e Heinrich Boll.
Forse nei giorni della cattolicità guidata da Francesco, i temi proposti possono sembrare un po’ datati, al massimo profetici rispetto a una sensibilità ormai consolidata. Non è così, anzi. Forse i circoli teologici e filosofici che fanno riferimento a papa Bergoglio dovrebbero imp0arare da Hans Kung una grande lezione. Non esiste una vera pastorale senza una profonda radice teologica, la visione della Chiesa non si modifica (soltanto) attraverso gesti simpatici e coinvolgenti, bensì grazie alla radicalità di un pensiero sistematico e critico, incurante del consenso momentaneo e capace di guardare al futuro, al di là di sé.
Hans Kung mancherà molto, alle chiese e alle religioni, ma soprattutto all’intera umanità. 

lunedì 5 aprile 2021

Appello della società civile, per il riconoscimento dei crimini fascisti in Jugoslavia

Decine di storici, politici, scrittori ed esponenti della società civile hanno sottoscritto e diffuso nei giorni scorsi il seguente comunicato, in occasione dell'ottantesimo anniversario dell'invasione della Jugoslavia da parte dell'esercito italiano, avvenuta il 6 aprile 1941. Da leggere...

APPELLO ALLE ISTITUZIONI PER UN RICONOSCIMENTO UFFICIALE DEI CRIMINI FASCISTI IN JUGOSLAVIA IN OCCASIONE DELL'OTTANTESIMO ANNIVERSARIO DELL'INVASIONE DA PARTE DELL'ESERCITO ITALIANO 

Quest'anno ricorre l'ottantesimo anniversario dell'invasione della Jugoslavia da parte dell'esercito italiano, avvenuta il 6 aprile 1941. Durante l'occupazione fascista e nazista, e fino alla Liberazione nel 1945, in questo territorio si contano circa un milione di morti. L'Italia fascista ha contribuito indirettamente a queste uccisioni con l'aggressione militare e l'appoggio offerto alle forze collaborazioniste che hanno condotto vere e proprie operazioni di sterminio. Ma anche direttamente con fucilazioni di prigionieri e ostaggi, rappresaglie, rastrellamenti e campi di concentramento, nei quali sono stati internati circa centomila jugoslavi. Come studiosi di storia contemporanea, esperti del tema e figure professionali impegnate nella conservazione attiva della memoria siamo convinti che nei decenni passati non si sia raggiunta una piena consapevolezza di questi crimini, commessi purtroppo anche in nome dell'Italia. La Repubblica Italiana non ha mai espresso una netta condanna, né una presa di distanza radicale da queste atrocità: non sono stati istituiti giorni commemorativi, né sono state compiute visite di Stato in luoghi della memoria dei crimini fascisti in Jugoslavia. Chiediamo dunque al Presidente e ai rappresentanti delle principali istituzioni una presa di coscienza di questo dramma storico rimosso. L'ottantesimo anniversario sarebbe l'occasione ideale per farsi carico della responsabilità storica di pratiche criminali che erano il frutto di una logica politica, fascista e nazionalista, che noi oggi fermamente condanniamo, in nome dei valori costituzionali che fondano il patto di cittadinanza democratica. Una dichiarazione pubblica o una visita ufficiale (per esempio al campo di concentramento di Arbe, sull'isola di Rab, dove morirono di fame e di stenti circa 1400 persone, in buona parte donne e bambini) avrebbero un notevole significato simbolico e dimostrerebbero il senso di responsabilità delle nostre istituzioni e il riconoscimento della sofferenza inflitta ai popoli della Slovenia, della Croazia, del Montenegro, della Bosnia e Erzegovina. Nel solco dei precedenti incontri ufficiali che hanno avuto luogo negli anni passati, dal noto “concerto dei tre presidenti” del 2010 alla visita a Basovizza nel luglio 2020, questa dichiarazione rappresenterebbe un ulteriore passo in avanti sulla strada della riconciliazione europea e di una più ampia comprensione dei processi storici.

Una mostra per ricordare... ciò che non si vorrebbe sapere

Martedì 6 aprile alle ore 17, sulla piattaforma zoom / V torek, 6. aprila, ob 17.00 bo na platformi ZOOM

si terrà la presentazione della mostra virtuale / potekala otvoritev virtualne razstave z naslovom

A ferro e fuoco. L’occupazione italiana della Jugoslavia 1941-43 / Z ognjem in mečem. Italijanska zasedba Jugoslavije 1941-43

-> online sulla piattaforma Zoom al seguente link / Spremljate jo lahko na naslednji povezavi:

https://zoom.us/j/93156396203

-> in diretta sul canale Youtube / neposredni prenos bo dostopen tudi na kanalu Youtube

https://www.youtube.com/user/IRSMLFVG


La mostra

A ferro e fuoco. L’occupazione italiana della Jugoslavia 1941-43

In occasione dell’80° anniversario dell’attacco italo-tedesco alla Jugoslavia, l’Istituto nazionale Parri (già Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia), l’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia ed il Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste allestiscono una mostra fotografica virtuale, dal titolo "A ferro e fuoco. L’occupazione italiana della Jugoslavia 1941-43", visitabile a partire dal 6 aprile 2021 collegandosi al sito www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it

La mostra virtuale è stata realizzata con la partecipazione della Narodna in študijska knjižnica/Biblioteca nazionale slovena e degli studi di TriesteMuzej novejše zgodovine SlovenijeDocumenta - Centar za suočavanje s prošlošćuAPIS Umetnost za pozitivno družbeno spremembo.
La mostra inoltre ha ottenuto il patrocinio della Camera dei Deputati ed è stata realizzata in collaborazione con Divulgando srl e con il contributo della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia.

La mostra si articola in 10 sezioni, di cui 2 doppie per un totale di 54 pannelli.

Propone 200 immagini, 25 testimonianze d’epoca e 81 interviste ai maggiori studiosi dell’argomento: Giancarlo Bertuzzi, Giulia Caccamo, Štefan Čok, Marco Cuzzi, Costantino Di Sante, Filippo Focardi, Eric Gobetti, Federico Goddi, Brunello Mantelli, Luciano Monzali, Jože Pirjevec, Guido Rumici, Nevenka Troha, Anna Maria Vinci.

Il progetto è stato curato dal prof. Raoul Pupo, già docente di storia contemporanea e storia della Venezia Giulia presso l’Università di Trieste.

Autori dei testi sono Giancarlo Bertuzzi, Štefan Čok, Costantino Di Sante, Filippo Focardi, Brunello Mantelli, Raoul Pupo.

Per facilitare la fruizione, i testi dei pannelli sono limitati all’essenziale, mentre gli approfondimenti sono demandati alle interviste (durata media 90’’). Ad ogni pannello di testo quindi sono associate una o più interviste ed una galleria fotografica; in molti casi anche una serie di testimonianze ed alcuni documenti.

sabato 3 aprile 2021

Allegoria del sabato santo

Quando il tunnel esplose, un centinaio di metri dietro, Mark non se ne accorse. Stava colpendo la roccia con tutta le forza che aveva e si preoccupava soltanto che la volta appoggiata a fragili tronchi non gli crollasse sulla testa. Fu travolto e spinto contro la parete da una decina di colleghi, i cui volti anneriti e sconvolti emergevano dal buio grazie alle lampade a carburo che tenevano in mano. Qualcuno urlava di essere ferito, qualcun altro imprecava contro i gas che si erano sprigionati dal terreno, altri ancora piangevano chiamando i compagni e prendendo coscienza di quanti non rispondevano all’appello.

La situazione era drammatica. A circa 80 metri sotto il suolo, c’era stato uno scoppio, molti minatori erano rimasti sotto le pietre e dodici erano rimasti imprigionati in uno spazio talmente angusto da far temere che le riserve d’aria non fossero sufficienti per tutti.

Dopo essersi calmati, cercarono di comprendere la situazione. Mattan disse che non ci sarebbe stata altra via di uscita che quella di aspettare i soccorritori. Avrebbero potuto condividere e razionare il poco cibo che ciascuno si era portato da casa e tirare avanti più possibile. Luke suggerì invece di continuare a scavare, nella speranza di abbattere qualche diaframma e raggiungere qualche altra galleria già utilizzata in precedenza. Janez suggerì di rassegnarsi al peggio, cercando di prepararsi con dignità, pregando e consolandosi reciprocamente, a morire dopo essere già stati seppelliti.

Pierre notò che solo prendendo delle decisioni comuni avrebbero potuto affrontare il destino che li accomunava e si propose come Capo e Coordinatore. Era del resto uno dei capisquadra e certamente quello che da più anni spaccava le pietre nel cuore della terra. Andrea accettò la sua proposta, ricordando di aver già vissuto una simile situazione qualche anno prima. Aveva 35 anni, un’età ragguardevole per chi manteneva a stento la propria famiglia grazie a un lavoro che normalmente riempiva di polvere velenosa i polmoni e consentiva assai raramente di raggiungere il terzo decennio.

“Che cosa proponi allora?”, disse James, poco convinto. “Secondo me, non sei adatto a dirigere nulla, tanto più in una situazione come questa!”, affermò Barto scuotendo la testa. Toma, che tutti conoscevano come un piantagrane scettico e antipatico, osservò che “non ne possiamo uscire vivi, forse dovremmo anche preoccuparci di come nutrirci e l’unico modo, già tra qualche ora, sarà quello…”. Jacum lo interruppe chiedendogli di non pronunciare neppure le parole che aveva sulla bocca. Simone taceva, era stato colpito da una pietra alla gamba e cercava di trattenere le urla di dolore, per non provare ulteriormente i compagni di prigionia. Rimanevano gli ultimi due che confabulavano fra loro e non sembravano prestare attenzione alle discussioni degli altri.

Pierre decise di riprendere a scavare, prendendo il piccone dalle mani di Mark e invitò tutti a fare immediatamente altrettanto. Nessuno considerò neanche per un istante di obbedirgli, neppure Andrea che sulle prime sembrava essere stato l’unico a riconoscergli un minimo di autorità e Luke che lo aveva all’inizio proposto. Dopo qualche colpo di piccone, sentendosi svenire per la fatica e la mancanza d’aria, Pierre si sedette, non senza aver maledetto la pusillanimità dei compagni di sventura. Janez cominciò un vero e proprio sermone, cercando di sottolineare il senso della vita e della morte. Per qualche minuto lo lasciarono parlare, poi tutti cominciarono a urlargli di finirla, che “nessuno ha bisogno delle tue chiacchiere astratte!” Toma affermò che, anche se non lo volevano accettare, bisognava tirare la sorte per decidere chi sacrificare. Ogni cadavere avrebbe garantito qualche giorno in più di sopravvivenza. Con le lampade razionate – da subito avevano deciso di consumarne solo una alla volta, anche se in realtà i due confabulanti senza nome si erano tenute accese le loro e non avevano alcuna intenzione di consegnarle alla comunità – avrebbero potuto resistere almeno altri quindici o venti giorni. “Cominciamo da te – disse Simone sarcasticamente – continuando a tenere la gamba stretta tra le mani.” Nell’oscurità vide i lampi negli occhi degli altri, comprese che nella loro mente si era accesa una lucetta, la sua ferita lo rendeva il primo della lista e rientrò immediatamente nel suo doloroso silenzio.

Anche gli altri, uno dopo l’altro, si rinchiusero nei propri pensieri. Qualcuno pensava alla moglie e ai figli ancora bambini, ancora qualche anno e sarebbero finiti anche loro sottoterra, senza poter vedere mai più la luce. Qualcun altro bestemmiava tra sé e sé contro il Dio dei potenti che regalava una vita di lussi sfrenati a pochi e un inferno sulla terra ai più. E questo i preti lo chiamavano un onnipotente “padre”! Altri, ormai rassegnati, pensavano a come sarebbe sopraggiunta la fine. “Prima o poi, in qualche modo, doveva succedere…” Accomunati dallo stesso supplizio, non provavano alcuna compassione, ciascuno si era rinserrato nel proprio mondo interiore. La rabbia e l’odio si diffondevano tacitamente fra loro come i gas della miniera, la paura della morte si mescolava alla ribellione per quell’ingiusto e terribile destino. Il cuore era diventato una piccola prigione, nella grande prigione del tunnel. Non c’era altro da fare che attendere la fine.

All’improvviso un oscuro torpore li assalì, tutti insieme, come una specie di pietosa anestesia collettiva.

Quando si risvegliarono, ciascuno in un’altra parte del mondo e in un tempo diverso dal precedente, raccontarono in lingue diverse più o meno la medesima storia. C’era stato un fragore e tutto tremava, come se il mondo intero stesse per crollare con le sue fondamenta. Una specie di folgore aveva attraversato le rocce come se fossero di burro e il lampo si era conficcato nelle profondità della terra, scavando dietro a sé un abisso. Alzando la testa, non avevano più visto i loro compagni, ma oltre al grande foro provocato dal fulmine era possibile vedere le stelle. Ognuno si incamminò lungo le balze, sorpreso dallo scoprire sentieri comodi, anche se affacciati sull’abisso. Finalmente sul bordo, la gioia immensa della salvezza insperata si era trasformata in sonno profondo.

“Amore mio, sei tornato… Eravamo tanto in pensiero per te, dove eri sparito? Dobbiamo prepararci, tra un paio d’ore comincia la Veglia Pasquale!” Aprendo gli occhi, Mark vide le sue labbra, sentì la voce dei bimbi che ridevano nella stanza accanto e finalmente sorrise.

venerdì 2 aprile 2021

Allegoria del venerdì santo

Erano le 9 del mattino ma il caldo e la puzza erano già insopportabili nella cella scavata dentro la roccia occupata da Disham e da altri tre prigionieri. Uno era stato arrestato insieme a lui un paio di giorni prima durante una rappresaglia per il lancio di un missile “Katyusha” che aveva distrutto una casa colonica disabitata tre quattro chilometri oltre il confine: si conoscevano di vista ma da quando erano lì non si erano scambiati neppure uno sguardo, forse per non aggravare una situazione peraltro già compromessa dopo il sommario processo dall’esito scontato. Gli altri due erano personaggi piuttosto noti dalle cronache del tempo e incutevano una certa soggezione: i loro nomi di battaglia erano Bar Abbah e Jeshua Hanozri, quest’ultimo disteso in un angolo sopra gli escrementi emetteva un sottile gemito da quando i soldati l’avevano spinto a terra con un ultimo calcio sulla faccia. Era ridotto proprio male, una specie di spina gli feriva la fronte e il sangue dal corpo flagellato creava strane macchie sulla tunica sdrucita.

Quando la pesante porta di legno si aprì una cascata di luce si riversò nell’antro e i quattro istintivamente si coprirono gli occhi per non essere accecati. “Exite!”, ordinò con voce minacciosa quello che doveva essere un capo delle guardie; non ottenendo alcun risultato scese trattenendo il respiro e con la punta della lancia punse Hanozri costringendolo ad alzarsi. “Exite! Tertia est, viae crucis hora!” Tutti rabbrividirono e senza guardare il militare che li minacciava con l’arma uscirono trascinando le catene, uno dopo l’altro: il solo Bar Abbah fu respinto con violenza e precipitò indietro bestemmiando.

Non erano preparati a quella scena: si trovavano in un cortile quadrato dove erano schierati in tenuta antisommossa un centinaio di poliziotti che alla loro uscita cominciarono a battere ritmicamente il manganello contro gli scudi di plexigas. Il fragore era impressionante e Disham si sentì mancare, anche a causa del fumo dei lacrimogeni utilizzati per disperdere la folla che pretendeva di essere pagata: avevano buttato via un mucchio di tempo per andare davanti al palazzo pretorio a gridare il nome del condannato da salvare e ora venivano dispersi come cani randagi, senza neppure i soldi per un caffè…

In fila sei soldati si avvicinarono ai condannati, tenevano alle estremità tre tronchi levigati: con un certo sforzo li sollevarono cercando di posizionare il baricentro poco sotto il collo dei malfattori. Disham cadde subito a terra e fu rialzato di peso non senza aver assaggiato la frusta; Jeshua vacillò ma per il momento non fu tradito dalle ginocchia vacillanti; il terzo, con lo sguardo perso nel vuoto, non sembrò neppure accorgersi del peso che gli era stato collocato sulle spalle. “Satis est!” ordinò il centurione e cessò il frastuono, anche se si sentivano ancora lontano gli echi delle colluttazioni. I suoi nove subalterni impartirono qualche ulteriore istruzione, ordinarono ai militi di mettersi in fila per due, trenta davanti per aprire il passaggio tra la folla impegnata negli acquisti del giorno prima del Grande Shabbat, trenta dietro per impedire la fuga, trenta intorno ai tre per proteggerli da qualche eventuale tentativo di linciaggio. Ancora un attimo di silenzio e poi “Avanti, marsh!”

Anche se si vedeva che Hanozri era stato selvaggiamente picchiato quello che sembrava più affaticato era proprio Disham, il terzo invece si era prontamente portato avanti per non inciampare. Passarono sotto un basso arco di pietra, attraversarono la hall dell’hotel e furono proiettati negli incredibili vicoli dell’antica Jerushalaim: scene, voci, colori, sensazioni, profumi, emozioni nei quali ogni pellegrino o turista nel corso della storia avrebbe voluto tuffarsi! Ma in quel momento non c’era tempo per pensare ai pacchetti da “trattare” con le agenzie, neppure – a dire il vero – a come evitare i consueti bagni di sangue che si verificavano al tempo della Crociate. C’era solo da accompagnare il povero Disham, e con lui gli altri due condannati, fino al sinistro luogo del Cranio, il famoso Golgho thà…

Ciò che infastidiva maggiormente era l’assoluta indifferenza della gente: sì, poteva anche essere spiegata dal fatto che lo spettacolo non era raro, almeno un paio di giorni la settimana si ripeteva quella processione, manipolo davanti e dietro, in mezzo i poveri condannati preoccupati soprattutto di non cadere. Indifferenza di tutti? No, proprio di tutti no; ecco un tizio uscire da un negozio, poggiare sul banco la merce appena acquistata e avvicinarsi a Disham: “vuoi una mano? Se non ti offendi ti porto per qualche centinaio di metri la croce…” Il tempo di riscuotersi dallo stupore, un pensiero a svignarsela clamorosamente come nella scena consimile del film Brian di Nazareth e il tronco era già sulle spalle dell’uomo di Cirene; solo che non era il suo, bensì quello di Hanozri, più rapido nell’acconsentire alla richiesta del mercante. No, proprio di tutti no; ecco un gruppo di donne, dal velo sgorgano occhi limpidi e belli; una sembra molto giovane e accorre… “Dio, se mi tergesse un po’ di sudore!” Niente da fare, anche quella fanciulla sembra non accorgersi della sua presenza e sfuggendo alla presa delle guardie raggiunge in fretta Joshua, stende un fazzoletto sul suo viso e poi resta come impietrita a contemplare i segni del sangue rimasti impressi sul lino.

“Almeno la madre mi degnerà di uno sguardo!” Trattenute a stento dai soldati tre donne cercavano di raggiungere i condannati: la prima interruppe ben presto i suoi sforzi, il figlio che procedeva spedito davanti agli altri, incurante del peso che gravava sulle sue spalle, le aveva lanciato uno sguardo carico di odio prima di riprendere con grande dignità il cammino; la seconda aveva intessuto una breve ma dolcissima  conversazione senza parole con Hanozri; niente da fare, la madre di Disham aveva cominciato a inveire contro di lui, definendolo la rovina della famiglia per non essere riuscito a portare a termine con successo la missione che gli era stata affidata.

“Meno male che per me non sono previsti i chiodi!” pensava Disham mentre sentiva le urla del compagno di sventura mentre i ferri acuminati facevano a brandelli pelle tessuti e muscoli delle mani e dei piedi. “L’unico vantaggio è che morirà prima e dovrà sopportare per meno tempo questo supplizio”. Si lasciò docilmente legare - ormai non c’era proprio più niente da fare – e fu issato sulla croce: non ebbe certo il tempo e la voglia di ammirare dall’alto lo straordinario panorama della grande città le cui mura risaltavano particolarmente, sullo sfondo il cielo azzurro. Cercò la posizione migliore ma ogni sforzo provocava atroci dolori; nonostante ciò volle guardare gli altri due, in fondo erano accomunati dalla stessa terribile morte. Accanto a lui c’era Jeshua che sembrava assopito, forse – beato lui! - era svenuto per il dolore dei chiodi e per la lenta ma costante perdita di sangue dalle ferite recenti; più in là il terzo malfattore continuava a ostentare sicurezza e prendeva in giro i romani che peraltro non sembravano prendersela più di tanto. Fino a quel momento l’aveva ammirato per la forza e il coraggio che aveva dimostrato, ma ora Disham pensò che prima di morire forse sarebbe stato meglio recitare con il cuore qualche preghiera piuttosto che esalare l’ultimo respiro bestemmiando contro tutto e contro tutti; quando poi il terzo condannato se la prese addirittura con il vicino Hanozri accusandolo di essere un vigliacco, egli trovò le ultime energie per invitarlo a tacere e a rispettare “chi era coinvolto nella stessa pena”. Tanto più che quel poveraccio sembrava davvero incapace di fare del male a qualcuno, mentre invece loro due…

Oltre alla sofferenza c’era l’umiliazione della nudità: l’esposizione del corpo e il dileggio dei soldati ma anche di molti passanti senza pietà provocavano più sofferenza degli arti stiracchiati dai lacci. Almeno davanti a Jeshua c’erano qualche donna e un giovanotto imberbe che piangevano talmente rumorosamente da allontanare i curiosi e gli impertinenti. Forse fu proprio quella presenza amorevole a risvegliare il condannato dal torpore: aveva cominciato a dire qualcosa, ma era molto difficile capire il senso delle sue parole. Disham fu sorpreso dai suoi occhi - non avrebbe mai pensato che ci fosse ancora in lui la forza di muovere la testa sollevando un nugolo di mosche che bevevano il sangue senza alcuna devozione; non c’era alcun dubbio, erano occhi tanto buoni così come buona era la voce che emetteva una specie di mugolio indistinto. Riuscì ad afferrare soltanto “oggi stesso sarai con me in paradiso!”; non ebbe il tempo di pensare cosa volesse dire, in quel momento la terra sembrò sussultare ai piedi della croce, si fece buio ovunque e si udì un sinistro frastuono di macerie provenire dalla zona del Tempio.

giovedì 1 aprile 2021

Allegoria del giovedì santo

Yup'ik, l'inuit, pensò subito alla sabbia portata dal vento. Appoggiò la testa fra le mani, osservò le dolci colline punteggiate di mille macchie bianche e sorrise. 
Komenan, il sudanese, le chiese il perché di quel sorriso e lei rispose che quella sabbia candida impigliata fra i rami degli alberi era davvero affascinante.
"Ma non è sabbia, Yup'ik. Quella viene portata dalle tempeste bollenti che si scatenano nel Sahara e riempie le tende e le case, rende difficile perfino il respiro. Quella che stai contemplando è la neve, che si è posata pian piano sugli arbusti".
"Non scherzare, Komenan, vuoi che non sappia che cosa sia la neve? Ho passato tutta l'infanzia nelle case di ghiaccio, con il gelo che nei mesi oscuri ti stringeva la gola."
"In effetti c'è troppo freddo perché sia la sabbia del deserto", constatò l'africano e il suo pensiero corse al Sole umido del suo Paese, alle raffiche di mitra che lo avevano spinto a intraprendere il cammino verso il Nord.
"In effetti c'è troppo caldo perché sia la neve sugli alberi", rifletté sottovoce Yup'ik, pensando con nostalgia alla sua famiglia lontana, che aveva lasciato per cercare fortuna.
Era la prima volta che emergevano dal buio nel quale vivevano da quasi un anno. Lei aveva trovato un posto come assistente di un'anziana signora, resa insopportabile dalla solitudine e dalla malattia. Usciva solo per raggiungere il negozio di fronte alla casa e per il resto era stata reclusa, senza poter neppure aprire una finestra e guardare i germogli nel parco. Lui lavorava in una fabbrica e dormiva nell'enorme cantina dello stabilimento. Si alzava ogni mattina prima dell'alba e si coricava a notte inoltrata.
Quel giorno, un figlio era venuto per la prima volta a trovare la madre e a malo modo le aveva detto che poteva anche prendersi una giornata di vacanza, "comunque detratta dallo stipendio!". Quel giorno, era prevista una visita alla fabbrica da parte della polizia e il padrone aveva costretto Komenan ad andarsene in tutta fretta, anche a lui naturalmente la giornata era detratta dalla paga".
Si erano incontrati, dopo aver camminato a lungo e si erano seduti insieme, su una panchina che consentiva uno sguardo limpido e immenso. Si erano guardati e si erano capiti, senza bisogno di sprecare parole. Ma a quel punto, avevano rotto il silenzio ed era necessario trovare una risposta: "se non è neve, se non è sabbia, che cosa è questo candore che rende così luminose le colline?" 
"Sono i ciliegi in fiore". Si voltarono e si accorsero del giovane che aveva spento il motore del trattore e li stava osservando. "E' lo spettacolo della primavera, si accendono all'improvviso tutti i colori dell'arcobaleno e la natura si prepara a offrire al mondo le foglioline, i fiori splendidi e i frutti che donano nuova energia a tutti i viventi".
Yup'ik e Komenan si guardarono, poi contemplarono l'estrema bellezza di quel paesaggio, si guardarono di nuovo e si abbracciarono, mescolando i loro umani profumi dell'alta valle del Nilo e dei ghiacciai della Groenlandia. Intuirono che ancora qualcosa stava per accadere, qualcosa che avrebbe cambiato per sempre i loro destini.
Il giovane scese dal trattore, stese un fazzoletto sulla panchina e vi collocò una pagnotta rugosa. Poi prese da chissà dove una bottiglia di vino nuovo, la stappò e ne bevve con evidente piacere. Dalla tasca estrasse un coltello e si ferì il polso, lasciando scorrere qualche goccia di sangue dentro il recipiente del vino. Sorrise gioiosamente ai due amanti sconosciuti e li invitò cordialmente a mangiare e a bere con lui. Nessuno osava porre domande, nessuno avrebbe mai voluto che quell'istante finisse, non erano mai stati così bene. Sentivano salire dal loro cuore un senso di universale ribellione per come erano stati fino a quel momento trattati, ma la rabbia si trasformava costantemente in desiderio di cambiare lo stato delle cose. Le loro sofferenze sembravano confondersi con il dolore del mondo e in quella manciata di minuti, mentre si tenevano per mano e sentivano la straordinaria forza che promanava da quel giovane strano, compresero di essere gli eletti. 
Fu in quel momento che egli prese il pane, pronunciò qualche buona parola e lo diede loro. Ne mangiarono insieme, aveva un sapore di carne e di essenze divine. Disse: "Avete mangiato il mio corpo". Poi offrì loro la bottiglia del vino. Prima lei e poi lui bevvero con gusto e in abbondanza, tanto da quasi inebriarsi. Non avrebbero mai trovato le espressioni adatte, quel liquido era troppo superiore  qualsiasi altro sapore assaggiato in precedenza. E lui disse: "Avete bevuto il mio sangue. Fate questo in memoria di me". E in quel momento risalì sul trattore, accese il motore e scomparve dietro a una duna.
Lontano, reduci dall'inverno appena trascorso, le montagne si inchinarono maestosamente. Umiliando le armi e le strategie della violenza, all'insaputa dell'universo circostante, iniziò in quel momento, nel cuore del Collio Goriziano, la Rivoluzione.