La guerra è orribile. Ogni guerra è in sé orribile.
Spesso si nota con orrore il coinvolgimento dei civili. Ma anche il massacro di giovani soldati, anche di quelli che hanno scelto liberamente di combattere, è sconvolgente. Che dire poi dei bombardamenti che distruggono case scuole, ospedali o delle quotidiane stragi di innocenti, con il carico di ulteriori violenze, anche contro i bambini, esercitate con inaudita ferocia da uomini resi dai conflitti bruti irrazionali e incontrollabili.
E' veramente importante conoscere le cause e le responsabilità, quelle immediate e quelle remote, anche se nessuna di esse può giustificare l'immenso dolore delle vittime. I morti e i feriti sono morti e feriti, con il loro carico di sofferenza fisica e morale, siano stati colpiti da armi "convenzionali" o di "distruzione di massa". La differenza sta solo nella quantità, non nella qualità, perché ogni attentato all'integrità fisica e alla vita è in realtà espressione dell'incapacità dell'Uomo di essere degno di tale nome, di usare il proprio raziocinio per edificare e non per distruggere, per amare invece che per odiare.
Come evitare che la guerra sia considerata strumento per risolvere i conflitti fra i popoli e le nazioni? Come avviare una modalità diversa da quella che - come si suol dire - c'è sempre stata ma non necessariamente per sempre ci sarà? Una risposta semplice, fin troppo semplice è quella di smantellare tutti i mezzi che servono per combattere, il disarmo generale, comprendente tutti i tipi di ordigni atti a provocare devastazione e morte. Accanto a questa, c'è un'altra risposta, altrettanto semplice al punto da sembrare ingenua, costituire un organismo di arbitrariato internazionale - più efficace dell'attuale Organizzazione delle Nazioni Unite - al quel ogni Stato dovrebbe conferire una parte importante del proprio potere.
In attesa che ciò avvenga, come risolvere un conflitto in atto? Come impedire che dilaghi, portando con sé l'enorme potenza distruttiva che in poco tempo cancella storie, culture, esistenze inermi? Logicamente, ci sono solo due possibilità. La prima è che una delle parti risulti più forte dell'altra e "vinca la guerra", risolvendo apparentemente i problemi e sradicandoli, lasciando ordinariamente uno strascico di lutti e di desideri di vendetta che si prolungano per molto tempo, diventando spesso il terreno fertile per la realizzazione di nuovi e anche più tragici contrasti. La seconda è che ci si sieda attorno a tavoli di trattativa, cercando con tutti gli sforzi possibili di trovare soluzioni diplomatiche in grado di garantire una stabilità duratura fondata sulla giustizia e su una sufficiente condivisione della "verità". Più si lascia tempo alla voce delle armi, meno è facile trovare accordi.
Alla luce di queste premesse, cosa dire dell'attuale conflitto tra Russia e Ucraina? Una prima affermazione non può che essere la condanna senza attenuanti dell'aggressione voluta da Putin contro un Paese e contro il suo diritto all'autodeterminazione. Le indiscutibili contestualizzazioni che inchiodano anche Zelen'sky e i governanti ucraini alle loro responsabilità, non sminuiscono la gravità e l'assurdità dell'intervento armato delle armate di Mosca. La giusta ricerca di colpevolezza e di adeguata informazione riguardo alle terribili stragi di Bucha, di Mariupol e purtroppo presumibilmente di molti altri luoghi, non cancella la tragedia delle vittime, conseguenza ineluttabile di ogni guerra. Che sia colpa degli uni o degli altri, la sofferenza è sempre sofferenza, le vittime sono vittime e i carnefici sono carnefici. In ogni caso, chiunque li abbia compiuti, i massacri di guerra sono un conseguenza dell'infausta decisione di chi l'ha scatenata.
Ma allora, cosa fare per fermare l'aggressore? Come impedire a Putin di continuare questa invasione armata che tanto dolore provoca tra gli abitanti dell'Ucraina? Come bloccare questa semina di morte che alimenta l'orrenda pianta della guerra?
Piaccia o meno, ci sono solo due possibilità. La prima è che uno dei due contendenti vinca e perché questo possa accadere occorre che i Paesi contrari alla Russia rendano militarmente più forte possibile l'esercito e quella che alcuni definiscono la resistenza popolare ucraina. Essendo le forze in campo evidentemente dispari, accrescere la potenzialità di vittoria significa anche non limitarsi al rifornimento di armamenti ma intervenire direttamente sul campo di battaglia, con le conseguenze inevitabili di un allargamento del conflitto, con probabile ulteriore intervento di altri attori importanti, schierati presumibilmente dalla parte opposta. In altre parole, la moltiplicazione delle armi, anche nel caso in cui contribuisca ad alleviare la solitudine dei resistenti, non può provocare altro, nel migliore dei casi, che una cronicizzazione delle operazioni belliche. E' quello che reclamano i caduti, armati o inermi? Prolungare a tempo indeterminato questo stillicidio è il modo migliore per vendicare l'orrore che li ha colpiti?
La seconda possibilità è la trattativa a oltranza. Facile a dirsi, quando non si è sotto le bombe e quando la minaccia non è rivolta contro il proprio Paese o i propri cari. Sì, facile a dirsi, ma quale alternativa c'è? Si può dire che in questi 40 giorni ci sia stata una pressione internazionale per una svolta diplomatica almeno altrettanto forte rispetto alla condanna inequivocabile della Russia e al contestuale invio di ulteriori armamenti a sostegno delle ragioni di Zelen'sky? Dove sono l'ONU e i negoziatori della diplomazia europea? Perché non sono stati ancora attivati i "corpi civili di intromissione nonviolenta", chiamati a intervenire per collocare i primi mattoni su cui edificare l'edificio della Pace? Perché questo unilaterale asservimento alla volontà di Biden e agli interessi geopolitici ed economici dell'attuale amministrazione americana? Perché non si innalzano altre voci e proposte di mediazione, oltre a quella di papa Francesco e di alcune personalità del tormentato mondo pacifista, anch'esso alle prese con discussioni e contraddizioni interne?
Non "senza se e senza ma", è comunque necessario ribadire la convinzione che la guerra non può mai essere considerata strumento per la risoluzione delle controversie, rinnovare l'adesione allo spirito del "ripudio della guerra" solennemente codificato dall'art.11 della Costituzione, credere nella forza risolutrice della nonviolenza, là dove il sacrificio della propria vita si rivela ben più potente che la soppressione di quella degli altri. Ci si crede ancora? O pensiamo che non ci sia altra possibilità che inviare oggi armi - domani chissà? - e relegando we shall overcome, peace and love, Genova 2001, Perugia-Assisi, i ponti durante i bombardamenti in Serbia, le marce contro l'intervento in Iraq... nella soffitta delle belle illusioni, svanite nel tempo insieme alla primavera della nostra vita?
No armi non dobbiamo smettere di urlarlo, no armi
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