domenica 14 maggio 2023

I care: spunti sulla vita di don Lorenzo Milani

 Dalla rivista online Apertamente ricavo questo mio articolo, in vista dell'ormai prossimo centenario della nascita di don Lorenzo Milani. E' un po' lungo, ma credo valga la pena dedicrae qualche minuto. (ab)

Don Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923 e muore, sempre a Firenze, il 26 giugno 1967.

Pochi anni di vita, pochi chilometri percorsi, eppure il suo messaggio ha i connotati dell’avvenimento storico e ha raggiunto tutti i confini della terra.

Cresciuto in una ricca famiglia fiorentina, portatrice di diverse culture e valori, improvvisamente e con grande sorpresa dei suoi amici e parenti, decide di lasciare ogni forma di comodità e carriera per entrare in Seminario e diventare prete. Forse ha compiuto questa scelta per un sottile senso di colpa derivato dalla consapevolezza di essere nato privilegiato, forse è rimasto colpito – come lui stesso ha raccontato – dal rimbrotto di un mendicante che gli aveva detto “non si mangia il pane bianco nelle strade dei poveri”. Fatto sta che tutta la sua esistenza è stata dedicata a innalzare la cultura delle persone con le quali ha condiviso la sua missione.

Don Lorenzo inizia la sua missione In un’Italia lacerata dalle divisioni politiche tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. Viene inviato come aiuto parroco a san Donato a Calenzano, nella periferia industriale del capoluogo toscano. La sua prima “impresa” è la realizzazione della scuola popolare, una sorta di università degli illetterati. Per mesi si alternano sulla “cattedra” alcuni tra i personaggi più noti e influenti della politica, della cultura, del giornalismo e dell’economia, suscitando accesi dibattiti e appassionati momenti di confronto e di dialogo. E’ il tempo dell’elaborazione del primo libro, le famose “Esperienze pastorali”, un testo che ancora oggi – o forse a maggior ragione oggi – dimostra una straordinaria attualità. Ovviamente l’impegno del cappellano non piace a tutti e ben presto le lamentele dei benpensanti occupano la scrivania del vescovo, l’ottuso cardinale friulano Ermenegildo Florit. Ben distante dalla tempra spirituale del suo predecessore – il cardinale Elia Della Costa che aveva fatto chiudere ostentatamente i balconi della sua residenza al passaggio del corteo di Hitler e Mussolini nel 1938 – il presule non trova altra soluzione che quella di inviare lo scomodo giovane prete a Barbiana, nell’alto Mugello.

Per capire cosa sia Barbiana, basta andarci, tenendo presente che negli ultimi ottanta anni le strade sono totalmente cambiate, ovviamente in meglio. Da Firenze si sale a Borgo san Lorenzo, da lì un percorso asfaltato tortuoso conduce a Vicchio (il paese di Giotto!). Si imbocca una stradina che attraversa uno stretto ponte a schiena d’asino e si trova l’indicazione – forse l’unica esistente – per Barbiana. Ci si inerpica per un viottolo, fino a non molto tempo fa un vero e proprio tratturo, sugli spalti del Monte Giovi. Si intravvedono, lontano, qua e là, caseggiati contadini oggi rimaneggiati, ma a quei tempi quasi diroccati. Si arriva a un bivio, dal quale si scende, in circa un chilometro su terreno franoso, al “centro” di Barbiana. Una canonica incollata a una chiesetta, qualche albero e, un centinaio di metri più in basso, un piccolo cimitero di montagna. Ci si volta di qua e di là, niente, sembra di essere arrivati nel Deserto dei Tartari di buzzatiana memoria.

Insomma, una delle menti più fervide e dei cuori più appassionati dell’Italia del tempo, viene relegato in una parrocchia sostanzialmente inesistente, successore di nessuno, dal momento che dall’inizio del secolo la sede parrocchiale era vacante. Chi non si sarebbe ribellato? Chi non avrebbe mandato a quel paese l’obbedienza al vescovo? Chi non avrebbe invocato l’appoggio di amici potenti, che peraltro a lui non mancavano? Don Milani no, non si rifiuta, prova tutta la sofferenza del mondo, lascia san Donato e si trasferisce a Barbiana, talmente deciso a restarvi per tutta la vita da acquistare immediatamente lo spazio in cimitero dove oggi si trova la sua tomba.

Non si perde d’animo e immediatamente crea la scuola che avrebbe reso celebre il minuscolo borgo del Mugello. Reclutati uno a uno nelle case coloniche, i bambini venivano a scuola 365 giorni l’anno, a volte camminando oltre due ore per andare e tornare. Imparavano dal priore a leggere, a scrivere, a conoscere il mondo. Diventavano un po’ alla volta padroni della “parola”, il formidabile strumento che, solo, consente agli uomini di essere liberi, entravano nei meccanismi della politica e dell’economia, diventavano capaci di viaggiare, di incontrare altri mondi, perfino di nuotare, imparando in una rudimentale fossa chiamata pomposamente piscina a salvare altri esseri umani nel caso ci si fosse trovati testimoni di un naufragio. Tutto era finalizzato a conoscere e ad amare e rispettare tutti gli esseri viventi e a non lasciarsi schiavizzare mai da nessuno. Il motto – divenuto molto noto – “I care” campeggia ancora oggi sulla porta dell’aula scolastica, accanto ai grafici delle elezioni politiche del 1966, ai sestanti per lo studio dell’astronomia e alla ricca biblioteca. Significa “mi sta a cuore, mi interessa”, come scriveva lo stesso don Milani “il contrario del motto fascista me ne frego”.

Negli interessi della scuola c’era soprattutto la storia e l’educazione civica. Una riflessione sul ruolo dei cappellani militari che avevano criticato l’obiezione di coscienza e sulla necessità di contestare la disciplina militare, aveva suscitato uno scandalo e don Milani fu portato in tribunale. Il suo memoriale difensivo si trasformò in un capolavoro, anch’esso tuttora attualissimi, “L’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”. Nella spietata analisi, si rileva come nessuna guerra alla quale l’Italia ha partecipato negli ultimi duecento anni è stata difensiva, se non la Resistenza che ha consentito di scacciare i sostenitori del razzismo, della violenza sistematica e dell’aggressione imperialistica al mondo.

A difesa dei suoi scolari, sistematicamente bocciati nelle scuole statali del tempo, don Milani inventa la scrittura collettiva, costruendo insieme a tutti i ragazzi di Barbiana la “Lettera a una professoressa”. E’ un inno all’importanza dell’istruzione come fondamento della libertà, una traccia definitiva per la strada di ogni persona che abbia l’onore di svolgere questa, che non può essere definita professione ma vocazione e missione. Sono cambiati i tempi e la situazione sociale del Mugello e dell’Italia non è certo quella di quegli anni. Ma il contenuto della “Lettera” è quanto mai attuale anche oggi, non tanto forse per la denuncia di un  analfabetismo letteralmente inteso, quanto per quello culturale, più sottile e difficile da riconoscere. Il testo richiama le suggestioni latino americane del rapporto Faure e la scrittura rivoluzionaria del “Descolarizzare la società” di Ivan Ilich, collegandosi di fatto con le più importanti istanze mondiali relative alla necessità di una riforma strutturale del sistema dei percorsi didattici ed educativi.

Grazie alla collaboratrice Eda Pelagatti, la scuola di Barbiana è stata anche luogo di amicizia, di costruzione di rapporti, di incontri incredibili con personalità di ogni genere. Gli “amici” di don Lorenzo affrontavano volentieri le curve del viottolo per raggiungere le panche sulle quali venivano trattati come imputati a un processo, bersagliati da migliaia di domande che gli scolari avevano preparato per poter conoscere meglio i misteri della società, attraverso il racconto di qualificati testimoni. Per conoscere la vivacità di tali momenti di incontro, i percorsi intellettuali del priore e anche le sue intime preoccupazioni, basta leggere i due meravigliosi epistolari, pubblicati già pochi anni dopo la morte, le “Lettere di don Milani” e le meravigliose “Lettere alla mamma”, un tributo d’affetto alla figura di gran lunga più influente nella sua vita, ma anche un vero e proprio trattato esperienziale di psicologia e di filosofia.

I pochi anni di vita di don Lorenzo Milani hanno rivoluzionato la scuola, la società e la chiesa cattolica, che ha trovato in lui un testimone credibile e affidabile della necessità prima e dell’attuazione poi, del Concilio Vaticano II (1962-1965). Le incomprensioni con la gerarchia fanno parte del passato, del suo passato. Barbiana ha ricevuto negli scorsi anni addirittura la visita di papa Francesco e il 27 maggio è atteso il presidente della Repubblica Mattarella. Le strade sono state risistemate e gli eredi degli antichi scolari vivono in caseggiati ristrutturati e moderni, la situazione precedente è soltanto un ricordo. Barbiana è meta di pellegrinaggi continui e forse tra un po’ quello che era considerato un prete ribelle sarà canonizzato e innalzato agli onori degli altari.

Sarebbe un bel segno per la Chiesa, ma forse anche un pericolo. Molte volte la proclamazione della santità è un formidabile modo per disinnescare la potenza dei messaggi che vogliono inquietare e trasformare il mondo. Anche la memoria di don Milani seguirà questa strada? La sua profezia sarà inglobata in una nuova stagione nella quale il suo pungolo verrà arrotondato e non ferirà più le coscienze?

Può darsi. In effetti, al di là della potenza trascinante del fondatore, i messaggi trasmessi hanno aleggiato come spirito creativo e hanno portato a qualche modifica e a qualche timida riforma. Tuttavia oggi – nonostante gli sforzi di una classe insegnante in generale molto consapevole e cresciuta proprio sul seme degli insegnamenti milaniani, nella società sembrano tornati di moda le differenze di classe, il razzismo fattuale di chi chiude la porta ai migranti, perfino la distinzione tra scuole umanistiche e tecniche, la condanna per la moltitudine dei poveri a una povertà sempre più accentuata e il percorso dei pochissimi ricchi verso una ricchezza sempre maggiore.

Insomma, c’è bisogno più che mai di un nuovo “don Milani”, magari anche senza il “don”.

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