Cosa succede in Ucraina? Ci sarà la guerra o si riuscirà a evitarla? E se ci sarà, che conseguenze potrà avere?
Una volta focalizzata la questione, meglio tardi che mai, l'opinione pubblica italiana si è resa conto che "Houston, abbiamo un problema!". Perfino il sonnacchioso movimento per la pace, sostenuto da una parte del centro sinistra alla ricerca di consensi, sembra un po' scosso e "lancia" l'idea di scendere di nuovo in piazza, rattoppando le bandiere arcobaleno ormai consunte.
Se non che, più che in altre situazioni, è difficile distinguere i cattivi dai più cattivi, dal momento che tra gli interessi statunitensi del vecchio Biden (vedesi allargamento della NATO) e quelli dello zar Putin, non si sa da che parte stare. A differenza del solito, l'ovvio auspicio che le controversie si risolvano con la diplomazia e non con le armi, si scontra con un'abissale e generale ignoranza delle motivazioni degli uni e degli altri.
Per questo l'invito al ritorno alle grandi manifestazioni dei tempi precedenti la guerra in Iraq sembra scaldare pochi animi. I vescovi italiani intervengono ricordando il famoso Catalano di Alto Gradimento, "è meglio fare la pace che fare la guerra". Il PD con in testa Laura Boldrini rispolvera il detto "senza se e senza ma". Ma tutto sa un po' di stantìo e di deja vu.
La realtà è che settanta anni di pacifismo, dopo la fine della seconda guerra mondiale, non hanno contribuito a creare un mondo migliore. Le sacrosante rivendicazioni non si sono trasformate in proposta politica e la forza delle armi non è stata indebolita da vere e concrete alternative. I corpi civili di pace sono rimasti proposta a livello di un sano e coraggioso volontariato di pochi, subito estromessi dagli scenari di guerra, non appena si comincia a fare sul serio. La critica al capitalismo, vera sorgente di tutti i conflitti attualmente in atto, non è andata oltre al generico appello al rispetto della persona, non raggiungendo che in rari momenti la forma di un'autentica e sostenibile alternativa al sistema.
Per questo, in questo contesto, più che invocare la piazza è indispensabile tornare alla Politica, possibilmente dando spazio ai giovani. Non è che la giovane età automaticamente significhi freschezza e desiderio di sano cambiamento, si sono visti giovani in grado di trascinare intere Nazioni sull'orlo e anche dentro l'abisso. Tuttavia non si può pretendere che la generazione che ha portato il mondo fino al punto in cui siamo, sia la stessa chiamata a fare ammenda dei propri stessi errori. Sarebbe più opportuno ritirarsi dai centri di potere, a qualsiasi livello, aiutando i nuovi arrivati con il racconto - per quanto possa servire - della propria esperienza e con la trasmissione delle proprie indubitabili conquiste a livello scientifico e sociale.
Solo per portare qualche esempio, Putin, settantenne, è a capo della Russia dal 1999 (23 anni!). Biden di anni ne ha quasi 80 e veleggia nella politica americana dal 1979. Draghi sfiora i 75 e Mattarella ha già oltrepassato gli 80. Non è per fare i conti con la carta d'identità, ma una troppo generalizzata occupazione senile dei posti chiave della politica internazionale rischia di favorire eccessivamente l'arrembaggio delle nuove generazioni ai ben poco democratici Poteri economici multinazionali, in mano a chi ha dimestichezza con la rivoluzione informatica e la gestione dei flussi migratori mondiali. Qualcuno invoca ancora l'ancora di salvezza dell'ONU, i cui statuti non sono stati ancora aggiornati e non si è andati oltre alle debolezze di un Consiglio di Sicurezza anacronistico e all'impasse sui complessi criteri di rappresentanza. In queste condizioni, l'istituzione non può che essere espressione del più forte di turno.
Detto questo, ci si augura davvero che la crisi in Ucraina non degeneri in una spirale di torti e ritorsioni dalle conseguenze poco prevedibili. Con un senso di profonda impotenza si ha la sensazione che in questo momento, al di là di questo ovvio augurio, sia quasi impossibile andare, né nelle "stanze" del potere, né sulle comunque tiepide piazze.
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