Negli anni '60 del XX secolo, la ribellione contro la guerra del Vietnam fu la scintilla, ma anche la forza dei moti del 1968. E' un anno del quale non sembra che si parli volentieri, il 45mo anniversario è passato del tutto in sordina.
I giovani di quegli anni si sono poi divisi, una parte è stata riassorbita dal procedere del liberismo. Si è accolta la carica di cambiamento riguardante le relazioni sociali, la rivoluzione sessuale, in parte anche l'identificazione tra il personale e il politico. Ma nello stesso tempo, ci si è fatti strada nei percorsi tracciati dal Capitale, inquadrati negli schemi professionali e dimentichi dell'ansia giovanile di pace e di giustizia. Alcuni hanno rinunciato per il venire meno delle convinzioni, altri semplicemente - ma anche comprensibilmente - per salvaguardare il bilancio familiare.
Un'altra parte ha cercato di resistere e di riproporre, anno dopo anno, le istanze di quel tempo, pian piano penetrato nel tessuto mitologico delle rispettive ideologie. Si è tornati in piazza, a volte in gruppi sparuti, a volte ancora con la speranza di mobilitare le masse, come accaduto il 15 febbraio 2003, in occasione della protesta globale contro l'imminente intervento militare americano in Iraq. Il problema sta nel fatto che i "marciatori" del 2003 erano più o meno gli stessi del 1968, passo un po' malfermo, slogan d'epoca, canti degli enormi Joan Baez e Bob Dylan. C'erano anche dei giovani, pochi, ci sono ancora, normalmente figli e figli dei figli dei protopacifisti.
Si è avuta questa impressione anche nei recenti eventi goriziani, gli assai interessanti convegni del 30 e del 31 dicembre e la "56ma marcia della pace", da Oslavia a Nova Gorica. I tradizionali mondi della sinistra culturale e del cattolicesimo militante si sono incontrati per celebrare un grido di pace quanto mai indispensabile in tempi come questi. Il problema è che tali atti, purtroppo, non suscitano oggi quasi nessuna reazione.
Ai tempi delle marce del Vietnam, i giovani tornavano a casa e spesso si beccavano un solenne ceffone da genitori che avevano sperimentato l'avanzata "liberatrice" degli americani in Europa durante la seconda guerra mondiale. Veniva mobilitata la polizia e sono ormai storiche le immagini di pesanti manganellate nei confronti di ragazzi entusiasti, sofferenti e inermi. Oggi nessuno si gira indietro, anzi, la marea di capelli grigi suscita un naturale moto di simpatia. Dietro alla bandiera arcobaleno sfilano un po' tutti, rivendicando la propria ortodossia e cercando di evitare qualsiasi slogan o discorso in grado di disturbare la "riuscita" spettacolare dell'avvenimento.
E così, mentre qualcuno richiama che oltre 20.000 persone, la metà bambini, sono state massacrate dall'esercito israeliano, marcia con i pacifisti anche chi in fondo ritiene che Israele abbia tutto il diritto di difendersi, dal momento che è stato vittima dei tremendi attentati del 7 ottobre. Mentre si invoca la trattativa come unica, proprio unica soluzione alla guerra in Ucraina e ovunque, c'è che ritiene sacrosanto l'invio delle armi da parte del cosiddetto Occidente alla "resistenza" guidata dall'inqualificabile Zelen'skj contro l'altrettanto inqualificabile Putin. Mentre ci si preoccupa enormemente per le guerre sotto i riflettori mediatici, non si sa neppure di cosa si stia parlando quando vengono nominati il Darfur, lo Yemen, il Sudan e così via.
Si marcia tutti insieme, si gode della compagnia, dell'incontro e dell'abbraccio con l'amico perso di vista dalla manifestazione precedente, ma non si può negare un certo senso di impotenza di fronte al bivio tra la polarizzazione e l'irenismo. Da una parte si è talmente radicati nelle proprie convinzioni e inseriti nell'area confortevole delle rispettive tifoserie, da ritenere inutile qualsiasi scambio di opinione con chi la pensa diversamente. Dall'altra si ha talmente paura di essere "inquadrati" in una posizione precisa, da costringere ogni incontro comune a un esercizio di dialettica finalizzato a evitare qualunque concetto che potrebbe - e forse dovrebbe - dividere o in qualche modo disturbare.
E allora?
Allora ci sono, tra le altre, almeno tre urgenze.
La prima è domandarsi come intercettare l'interesse delle giovani generazioni, molto impegnate nel richiamo alle minacce del riscaldamento globale e della catastrofe ecologica, ma lasciate abbastanza sole nella loro ricerca e nella loro azione.
La seconda è come creare luoghi di dialogo, anche di forte dialettica, che non presuppongano l'oscurare il proprio parere per non entrare in conflitto, ma siano incentrati sulla disponibilità a un ascolto aperto e disponibile a comprendere le ragioni dell'altro.
La terza è ritrovare la chiarezza esplicita e l'entusiasmo trascinante del primo pacifismo. Ciò significa manifestare con obiettivi espliciti e distinti, con slogan inequivocabili, per esempio riguardo all'invasione e al massacro di Gaza, all'invio delle armi all'Ucraina, alle implicazioni drammatiche del cambiamento climatico, alle chimere del liberismo selvaggio, alla critica alle politiche disumane che contrastano il movimento dei migranti in Europa e nel mondo.
Solo una posizione precisa può interessare in modo continuativo anche i giovani e può consentire un confronto aperto, sereno e costruttivo con chi la pensa diversamente. E solo la forza della convinzione, condivisa da grandi gruppi di persone appartenenti a ogni generazione, può in qualche modo incidere sulle scelte di violenza e di guerra che in questo momento sembrano dominare e condizionare il nostro povero e fragile Pianeta.
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