Il suo lavoro certosino ha consentito di ricostruire molti
aspetti della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio, fascisti
e nazisti, di coloro che sono passati per il carcere di via Barzellini a
Gorizia. La maggior parte di essi sono sloveni, tanti sono ebrei, quasi
l’intera comunità locale, ma ci sono anche italiani antifascisti e appartenenti
ad altre nazionalità.
Per iniziativa soprattutto di Igor Komel, direttore del Kulturni dom di Gorizia, con l'Istituto Friulano per la storia del Movimento di Liberazione, è stata pubblicata e sarà presto presentata ufficialmente la traduzione del libro in lingua
slovena. Il lavoro si è dimostrato molto complesso e difficile,
soprattutto per ciò che concerne l’ampio elenco di oltre 3000 nomi che
costituisce l’appendice al testo. Il “problema” è che tutti gli internati sono
stati registrati con il nome, il cognome e il paese di provenienza
rigorosamente scritti in lingua italiana. Non si può onorare chi ha vissuto
queste tragedie senza restituire almeno l’identità conferita con la nascita e
il toponimo corretto del luogo dove si è cresciuti. Cercando di risalire alle
origini, i traduttori - in particolare Igor Tuta e Pia Lešnik, con la collaborazione di Marko Marinčič - hanno compiuto un grande ma doveroso sforzo. Se già è stato difficile ricostruire l’esatto
nome delle località, ancora più delicato si è rivelato lo sforzo di ritrovare i
cognomi, ossessivamente e violentemente trasformati dalla volontà di forzata
italianizzazione del territorio perseguita nel corso del ventennio fascista.
Lavorando intensamente su ogni persona citata nelle liste,
ricostruendo il percorso di detenzione dall’arresto ai lager, si è come
sopraffatti da un moto di grande commozione e anche di rabbia. Ogni nome e
cognome appartiene a una persona concreta, strappata con la forza alla vita
quotidiana, trascinata verso una durissima prigionia e molto spesso verso la
morte. Come non pensare alla notte o al giorno del rastrellamento, alle grida
dei soldati, al pianto dei bambini, alle suppliche delle mogli? Come non provare
vergogna per questa sistematica opera di distruzione della dignità di ogni
essere umano? Come non sentirsi compartecipi con i deportati delle ansie, dei
giustificati timori, dell’incertezza sul proprio destino? Quante migliaia di vicende
individuali e collettive si intrecciano fra loro, quanti piccoli e grandi eroi
dimenticati dalla storia hanno ritrovato almeno una menzione del loro transito
in questa vita, grazie alla ricerca di Patat!
Un aspetto che colpisce molto è anche la capillarità
dell’azione della polizia fascista e nazista. Da piccoli villaggi delle valli
della Vipava, dell’Idrijca, dell’Idrja e della Soča sono stati portati via decine di
abitanti, lasciando in essi un vuoto immenso, in un tempo già difficilissimo a
causa della guerra. Perfino da borghi sperduti tra i monti, agglomerati di al
massimo quattro o cinque case, la gente veniva trascinata sui camion militari
per essere condotta al carcere di Gorizia, dove, dopo sommario processo,
ciascuno veniva instradato verso il compiersi del suo destino.
La macchina del male assoluto ha funzionato fin troppo bene
e se nel tempo è stata sconfitta, grazie all’impegno dei partigiani e degli
eserciti di liberazione, lo si deve anche al sacrificio di queste migliaia di
donne e uomini che hanno pagato con la deportazione e a volte con la vita, la
loro silenziosa opposizione alla violenza del regime. Grazie al libro di
Luciano Patat si ravviva la loro memoria, grazie all’impegno dei traduttori
essi hanno recuperato anche il loro vero nome e la corretta dizione dei luoghi
della loro vita. Hanno ritrovato, ahimé troppo tardi, ciò che una violenza
ottusa e prepotente aveva loro sottratto, una vergogna fascista, ma anche
italiana, che richiederebbe come minimo un’urgente assunzione di
responsabilità, insieme a una necessaria, sia pur tardiva, richiesta di
perdono.
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