La montagna è verticale, consente di allargare lo sguardo, di cogliere ampi orizzonti, senza per questo costringere a rinunciare al particolare.
Lo sanno bene gli alpinisti che la sfidano - o forse accettano la sua sfida - contemplando dall'alto panorami incredibili, nello stesso tempo attenti alla minima incrinatura della roccia, possibile minimo appiglio o appoggio.
Cosa spinge un essere umano ad affrontare la fatica del salire verso una vetta, l'adrenalina di affidare la propria vita a un chiodo piantato in una fessura incerta, il rischio di scivolare sul ghiaccio o di essere travolti da una valanga?
La risposta più sensata l'ha forse offerta George Mallory. A chi gli chiedeva perché ci tenesse così tanto a scalare l'Everest, diceva lapidariamente "perché è lì!". Era uno che se ne intendeva, forse con il compagno di cordata Andrew Irvine è stato il primo a mettere piede sulla cima più alta del mondo. E' un grande e irrisolto giallo alpinistico, prima di precipitare negli abissi nepalesi, l'8 giugno 1924, avevano provato la gioia di essere arrivati in vetta? Probabilmente non lo si saprà mai.
In fondo gli scalatori sono un po' come i pellegrini di una volta, quelli che, armati soltanto di bastone e fragile bisaccia, camminavano per anni o per tutta la vita, dipendendo totalmente dalle bizzarrie della Natura e dalla fragile fiducia negli esseri umani.
Raccontano un'"altra" vita, rispetto a quella ordinaria, talmente diversa da non essere comprensibile a chi è immerso nello "squallido quotidiano", non riuscendo o non potendo alzare lo sguardo. La folla che si assiepa intorno ai binocoli del Rifugio Locatelli, segue con apprensione le avventure dei "ragnetti" che si inerpicano sulla parete strapiombante. Sono così piccoli, così indifesi, apparentemente spersi nell'immensità della Cima Ovest di Lavaredo.
Proprio l'assoluta inutilità del loro gesto mette in discussione l'obiettivo dell'ordinaria funzionalità di ogni istante. La monotonia dell'essere costringe e a pensare che non esistano alternative. Si nasce, si cresce, ci si innamora, si entra nel tran tran, quando la salute tiene si invecchia e poi si muore. Così è sempre stato e così sempre sarà.
E poi arriva lui, lo scalatore che, appeso al chiodo il seggiolino che ondeggia sull'abisso, si prepara a dormire nella solitudine della notte alpina, immaginando le difficoltà del giorno successivo. Oppure giunge il viandante, con la sola ricchezza dei suoi piedi scarnificati dalle piaghe e degli occhi grandi capaci di penetrare fin nell'intimo del cuore umano e al di là del velo che copre il segreto dell'esistenza dell'Universo.
Dove vanno? Perché gli scalatori rischiano la vita per conquistare l'inutile, quando ormai gli stessi meravigliosi panorami li si può contemplare, raggiungendo le montagne con l'auto o con al funivia? Perché i pellegrini, i profughi, i viandanti non hanno una casa, un lavoro, una famiglia? Cosa cercano nel loro instancabile cammino?
Cercano essenzialmente quello che ogni essere umano desidererebbe, ciò che la civitas del consumo ha atrofizzato, sostenendo e soprattutto convincendo ogni membro inconsapevole della società dell'opulenza, che il valore dell'avere sia più importante di quello dell'essere. Sì, ciò accade scindendo pericolosamente i due ausiliari della lingua italiana, contrapponendoli, così come i Nord del Mondo si contrappongono ai Sud, difendendo il diritto di possedere e negando quello di vivere.
La banalità dell'esistere è la fonte della noia, radice profonda del sonno della ragione che genera mostri, come dal titolo di uno delle celebri acqueforti di Francisco Goya (1799).
L'alternativa che riporta l'essere umano alla sua essenza è l'accoglienza della sfida, l'accettazione del rischio. Quello che lo scalatore e il viandante dimostrano, è che si può dare un senso non utilitaristico alla vita, anche senza far del male agli altri, ma sfidando sé stessi nell'orizzonte della Bellezza assoluta.
L'alpinista estremo e il pellegrino assoluto sono dei rivoluzionari, testimoni credibili del primato dello spirito sulla materia, proprio per questo sono un richiamo che inquieta l'anima degli stanziali, a riscoprire il senso del tempo e dello spazio, contrastando l'ingiustizia e cercando di essere ovunque costruttori di pace.
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