Il 9 maggio è la Giornata dell'Europa. Oltre al giustamente accorato invito alla pace, è necessario che sia caratterizzata anche dalla riflessione su altre importanti tematiche che riguardano direttamente il vecchio Continente. Per esempio, nel tempo in cui sembra che le notizie possano essere assimilate soltanto una alla volta, prima la pandemia e ora la guerra hanno cancellato dall'orizzonte uno dei problemi planetari più importanti e tragici.
Per vincere la dimenticanza, sabato 7 e domenica 8, è stato organizzato a Zugliano un grande convegno internazionale riguardante "i campi di confinamento del XXI secolo". Attraverso approfondite relazioni di esperti e coinvolgenti testimonianze di chi si trova direttamente coinvolto, si è voluto portare alla luce un dramma di fatto sparito dalle pagine di giornali.
Si è parlato dei campi in Libia e in Turchia, non-luoghi dove vivono decine di migliaia di persone, senza neppure la definizione giuridica del loro status. Sono confinate fuori dal mondo, spesso sono oggetto di violenze e torture di ogni tipo. Non hanno alcuna prospettiva di uscire dalla loro situazione che non sia il tentativo di fuga, per mare o per terra ,che molte volte finisce con il respingimento al punto di partenza o, purtroppo fin troppo spesso, con la morte incontrata lungo le cosiddette rotte della speranza. L'Unione europea può tollerare che esistano luoghi nei quali è palese la violazione dei più elementari diritti? Non soltanto tollera, ma anche finanzia il governo turco o le bande che si contendono il dominio sulla Libia, in modo da poter esternalizzare la questione dei richiedenti asilo, spostando al di fuori dei suoi confini la necessità di sopperire alle loro richieste.
Anche all'interno dell'Unione, tuttavia, la situazione è delicata. Lo è in Grecia, dove i campi sulle isole e quelli sulla terraferma vengono realizzati lontano dalle città e circondati da mura, ufficialmente per proteggere gli ospiti, praticamente per isolarli dal resto del mondo. Anche in questo caso, pur esistendo in teoria un perimetro fornito dalle legislazioni europea, le persone rinchiuse non hanno alcuna prospettiva di futuro e passano il tempo in un attesa snervante di qualcosa che probabilmente non accadrà.
Chi riesce a sfuggire ai veri e propri lager libici e turchi o all'isolamento delle isole greche, risale in qualche modo i Balcani per giungere nel cuneo di Bihac, l'ansa della Bosnia proiettata verso il cuore dell'Europa. La storia dei campi di Lipa e Velika Kladuša è abbastanza nota, con altre decine di migliaia di richiedenti asilo che fuggono dalla guerra e dalla fame, tentano di entrare nell'Unione e vengono ripresi, picchiati e restituiti dalla polizia croata a quella bosniaca. Qualcuno riesce a farcela e in qualche modo raggiunge perfino l'Italia. Qui, dopo un periodo in cui, prima che fossero dichiarati ufficialmente illegali e quindi sospesi, si sono attuati senza troppi problemi i respingimenti in Slovenia, eufemisticamente chiamati "riammissioni". Tuttavia per chi arriva si aprono le porte dei cas e dei sai, in attesa che venga definito il diritto di permanenza sul territorio, con eventuale nuova reclusione nei Centri per il rimpatrio, strutture inique e indegne di un Paese che si definisce democratico.
Questa è la teoria, unita alla delineazione giuridica e divulgativa dei diritti e dei doveri. La pratica, raccontata dai diretti interessati da chi si prodiga per alleviare le sofferenze di chi è in cammino verso il presunto Eldorado, è impressionante e suscita l'inevitabile domanda sul dove tutti ci troviamo. Come è possibile essere così indifferenti davanti a chi muore nel Mediterraneo o nei boschi dei Balcani? Come è possibile non indignarsi di fronte all'esistenza di nuovi campi di concentramento, con il loro carico di umiliazioni e torture?
E' un tema che l'Europa deve urgentemente affrontare, dal momento che ancora non si è riusciti a proporre una comune politica di accoglienza - e non di difesa - dei migranti, fondata su nuove concezioni del diritto al lavoro, alla casa, al ricongiungimento familiare, alla cultura, alla religione, alla reciproca integrazione con i sedicenti autoctoni. Occorre aprire la porte e costruire una nuova società multiculturale, senza paure e senza ipocrisie. Il tema, in prospettiva politicamente costruttiva e non rozzamente disumana, deve essere riportato in primo piano, oggetto di dibattiti a tutti i livelli, compreso le campagne elettorali, anche locali.
Sì, perché al fondo, la domanda è riportata a ogni cittadina e cittadino, ai responsabili di ogni Comune, Regione o Stato: cosa stiamo facendo per affrontare tutto ciò con serenità e rispondere con intelligenza e umanità al grido di chi fugge dalla propria terra per cercare un avvenire migliore?
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