lunedì 31 gennaio 2022

Pensieri ad Alta Velocità

Ci fu un tempo nel quale il treno, oltre a essere strumento prezioso per gli spostamenti, almeno fra le città collegate, era un luogo di comunicazione e socialità.

Nei viaggi più lunghi gli scompartimenti diventavano spazi di narrazione, a volte addirittura specie di confessionali nei quali ci si raccontava ciò che non si sarebbe osato dire neppure al più fedele amico. Sì, perché le relazioni che nascevano erano rapide, l'"altro" seduto davanti a te era un'ombra leggera che di lì  a poco si sarebbe dissolta, inghiottita dalla giungla della Metropoli o dall'oscurità di misteriosi villaggi distesi placidamente nella pianura o sulle asperità alpine o appenniniche. Ci si poteva quindi aprire, senza tema di riconoscimento o delazione, donando e accogliendo intuizioni, paure, piccole gioie quotidiane, preoccupazioni per il presente e per il futuro.

Certo, si poteva benissimo decidere di farsi i fatti propri, ostentando lenzuolate di giornali nazionali o improbabili titoli di libri filosofici per dichiarare senza parole la propria indisponibilità al dialogo. E c'era anche chi preferiva il silenzio, chiudendo gli occhi lasciandosi cullare dal tran tran del viaggio, enfatizzato dai finestrini aperti ad accogliere l'aria calda dell'estate o raccogliendosi nei propri giacconi per difendersi dagli spifferi delle vecchie carrozze invernali.

Era bene prestare un po' di attenzione a ciò che accadeva fuori, ai campi che correvano indietro veloci quanto il treno, ai campanili dei paesi subito riconosciuti con una stretta al cuore dall'emigrante nel suo rientro verso casa ma sconosciuti ai più, intenti a osservare curiosi. Non c'erano altoparlanti, non c'era una voce metallica ad annunciare dove si stesse per arrivare. Solo nelle stazioni una voce salutava i nuovi arrivati che con occhio esperto scrutavano nella notte i cartelli fiocamente illuminati che consentivano di presentire la vicinanza di città d'arte e paesi ignoti, in attesa di raggiungere la propria meta.

Non è più così. L'homo cellularensis viaggia sempre con il telefono in mano, chiuso dentro la propria sfera, del tutto incurante di ciò che accade intorno a lui, anzi leggermente infastidito perché ancora qualcuno, soprattutto in lingue finora poco sentite, osa parlare o addirittura farsi una sonora risata. Gli altoparlanti violano incessantemente il silenzio e impediscono la concentrazione. Magari fosse solo per avvisare che "fra pochi minuti arriveremo nella stazione xxy"! Ininterrottamente, ci si sente salutare, si ricevono le indicazioni su come raggiungere la carrozza del caffé, ogn tanto sfugge al controllo qualche inopportuna pubblicità, si preannuncia l'arrivo del controllore, il tutto naturalmente in italiano e inglese, con un volume talmente alto da impedire di aprire bocca anche ai pochi sopravvissuti al trionfo della comunicazione telefonica. Non parliamo poi del periodo post-covid, con tutte le prescrizioni e i dpcm contiani e draghiani, sintetizzati in una specie di vocabolario giuridico, dalla a alla zeta, sparati dalla solita voce senza un attimo di respiro.

Addio bei dialoghi sui treni del secondo millennio, addio al silenzio e al sonno del giusto. E' la civiltà del rumore, della parola traboccata dal suo alveo naturale, alluvione di concetti che invece di fecondare la ragione, deprimono e incrementano una venefica e triste malinconia. Le "frecce" vogliono ammazzare il tempo riducendo lo spazio, ottengono il risultato di rendere insignificanti questo e quello, facendo il gioco di un Potere che nega la distinzione tra spazi e tempi laicamente sacri e religiosamente profani, un altro passo verso l'omologazione, la notte in cui tutte le vacche sono nere. Non occorre più esercitare la nobile arte del pensiero e della creatività.

1 commento:

  1. Sono felice di essere stata giovane nell'altro secolo, quando il mondo era bello davvero e la gente pure. Patrizia Socci

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