Quello che impressiona non è soltanto il numero esorbitante di casi finora relegati nell'oscurità, ma il sistema di protezioni e omertà che ha consentito alla piaga criminosa di proliferare e diffondersi ovunque come un virus pernicioso e odioso. E' vero che ormai la questione è sotto gli occhi di tutti e anche le guide delle comunità cattoliche sono corse ai ripari. E' anche vero che c'è stato bisogno delle denunce delle vittime e delle azioni penali dei tribunali civili per far scattare, con molto ritardo, la triste e quasi quotidiana sequela di ammissioni di colpevolezza, quando proprio non se ne può fare a meno.
La spiegazione più semplice è scaricare l'intera responsabilità sui criminali, presentandoli come mele marce, come squallidi approfittatori della propria autorità morale per devastare la psiche e il fisico dei più piccoli e dei più deboli. In effetti nei soggetti condannati è evidente una fragilità psichica e una fondamentale incapacità congenita di relazioni. L'aspetto patologico non giustifica in alcun modo gli atti di pedofilia, ma chiama inevitabilmente in causa anche l'istituzione cattolica, i cui "capi" non se la possono cavare soltanto prendendo le distanze da coloro che sono stati accusati nell'ambito della giustizia ordinaria.
Da questo punto di vista, tanti sono i punti deboli della Chiesa Cattolica in quanto tale. Il primo e più immediato è legato alla questione del celibato imposto a coloro che desiderano diventare sacerdoti. La condizione di vita di un celibe, privato non solo della possibilità di sposarsi, ma anche di una vita affettiva completa, non per scelta o necessità ma per obbligo, è di per sé stessa contro natura. Tale situazione, esclusi i rari casi di piena consapevole convinta e motivata decisione, crea nella maggior parte degli altri la necessità di compensazioni spesso poco rispettose della dignità propria o dei soggetti maggiorenni liberamente coinvolti. In caso di particolare immaturità, l'orribile pianta della violenza sui bambini, fondata sul principio di sacralità della figura del religioso e corredata dall'ingiunzione del silenzio, trova spesso terreno fecondo in un celibato coatto e mal sopportato. Quando la Chiesa Cattolica affronterà in termini risolutivi e normativi questo ormai vetusto, grave problema?
In secondo luogo, il numero delle cosiddette "mele marce" è talmente elevato da mettere in discussione la professionalità e competenza degli agricoltori. Come è possibile che dai Seminari, dopo gli anni del Concilio per un breve periodo soggetti a interessanti sperimentazioni al momento interrotte, escano tanti giovani killer delle anime, presuntuosi, arroganti, senza scrupoli, quando non appunto criminali? Quanto si affrontano i temi più sensibili e delicati, anche riguardo alla stessa esperienza personale dei candidati al sacerdozio? Quanto spazio viene dato alla maturazione psicologica, alla comprensione delle vere motivazioni delle scelte, al di là dei pur indispensabili studi teologici e dei rari colloqui con gli operatori sanitari? Non è che forse venga dato un po' tutto per scontato, data la grande crisi di vocazioni che costringe le chiese particolari nazionali a continui cambiamenti e adeguamenti pastorali? In termini più drastici, è ancora necessario il "Seminario" - almeno così come ancora è - per la formazione del clero?
C'è infine da affrontare una tematica prettamente teologica, ovvero la necessità urgente di rimettere mano alla concezione del ministero di guida nelle comunità cattoliche che deve tornare a essere funzionale e non sacrale. E' fin troppo semplice leggere nel Nuovo Testamento e negli scritti dei Padri dei primi secoli come "in principio" non esistesse alcuna forma di gerarchia "sacra" all'interno dei gruppi cristiani. Il diacono è, come dice la parola derivata dal greco, il "servitore", il presbitero l'"anziano" preposto alla guida di una comunità e il "vescovo" il sorvegliante che coordina un'intera zona suddivisa in diversi settori. Solo dopo la svolta costantiniana a ancor di più teodosiana del IV secolo, il presbitero diventa "sacerdote" (cioè colui che dà il sacro, in una mediazione che il Vangelo di Gesù aveva abolito), il vescovo "pontefice" (colui che crea i ponti fra il divino e l'umano) e il vescovo di Roma, detto anche Papa, addirittura "Sua Santità". Fino al IV secolo la guida è legata alla specifica "funzione", poi diventa prerogativa "sacra", sulla base del sacramento dell'Ordine che distingue il sacerdote dal battezzato non solo sulla base del compito da svolgere, ma anche della sua "essenza". Cosa significhi questa acquisita differenza ontologica di "essenza", ribadita purtroppo perfino nel Vaticano II, non lo si capisce bene.
Certo, portare sul piano dell'identità personale una simile distinzione, conferisce al cosiddetto "consacrato" un'autorevolezza immane, fondata sull'identificazione con l'Assoluto. E da tale innalzamento fino al cielo di una creatura debole incapace perfino di calpestare la terra, non può derivare nulla di buono. Se invece non fosse altro che un coordinatore della vita comunitaria, non ci sarebbe un affiliato a una casta divina da difendere, ma solo un essere umano che sbaglia, da assicurare alla giustizia, costringendolo a scontare la giusta pena per le colpe di cui è responsabile, aiutandolo piuttosto in un percorso di maturazione affettiva, personale e anche spirituale.
Nessun commento:
Posta un commento