venerdì 3 dicembre 2021

Dalla prigione di Via Barzellini un forte messaggio di pace e di dignità

"Sono nato a qualche chilometro da Srebrenica, avevo un anno quando ci fu il massacro. Morirono metà dei miei parenti più stretti. Mia madre mi ha fatto crescere invitandomi a perdonare sempre, per fermare la spirale della violenza nei Balcani. Sono musulmano, in cella con gli amici serbi e ci vogliamo bene, usciti di qua vogliamo costruire un mondo migliore". 

"Sì, se siamo qua vuol dire che qualche cavolata l'abbiamo fatta, ma in questo luogo siamo uniti, ci comprendiamo e speriamo nell'indulto non solo per uscire di qua, ma soprattutto per raccontare a tutti, "fuori", che è possibile convivere nella diversità di lingue, di opinioni, di religioni. Vogliamo portare a tutti un messaggio di pace".

"Certo, non è facile qua dentro. Non ho potuto vedere mio figlio, appena nato. Ho "beccato" un anno per piccoli reati, Ma è giusto impedire a un giovane padre di stare lontano dalla propria famiglia per così tanto tempo? Non sarebbe meglio scontare pene alternative, magari più utili che passare il tempo senza poter fare quasi niente, chiusi qua dentro?"

"Vivere in otto in una stanza non è facile, ognuno ha il suo carattere e la propria modalità di affrontare le cose. Ma ci proviamo e tutto sommato quasi sempre ci riusciamo. Però avremmo bisogno di essere più ascoltati  forse anche di raccontare a chi sta all'esterno chi siamo veramente. Siamo considerato criminali, non "persone" compartecipi della stessa umana natura..."

E così via. Queste e molte altre riflessioni mi hanno colpito oggi pomeriggio, incontrando grazie all'iniziativa di don Alberto De Nadai gli ospiti detenuti nella Casa Circondariale di via Barzellini. Prima ancora che i problemi - il ben noto sovraffollamento, l'iperburocrazia che colpisce persone colpevoli di piccoli reati, la difficoltà nelle piccole vicende quotidiane, la carenza del personale addetto all'assistenza, ecc. - mi hanno colpito la disponibilità e la serietà dei partecipanti. Una ventina di uomini, italiani sloveni bosniaci serbi marocchini tunisini bangladeshi cinesi..., si sono riuniti in cerchio e insieme abbiamo parlato di convivenza pacifica, di rispetto reciproco, di riconciliazione tra le persone e i popoli. Dove poter vivere un momento simile di unità nella diversità, nel territorio Goriziano, al di fuori del carcere? 

La prigione diventa allora un possibile modello di coesistenza, dai corridoi chiusi da pesanti inferriate emerge un messaggio di autentica pace che vorrebbe uscire da quelle mura, travalicarle ed espandersi sul territorio.

Ciò potrebbe essere possibile se il Comune di Gorizia si dotasse di un "Garante delle persone private della libertà personale". Si tratta di un ruolo istituzionale che permette a chi ne viene insignito, sulla base di un bando ben impostato dall'ente locale, di entrare nella "Casa", ascoltare gli ospiti cercando di tutelare le loro giuste rivendicazioni, ma anche di aiutare chi esce dal carcere a trovare un lavoro e a ricominciare una vita, in una (difficile!) prospettiva di un'autentica Libertà degna di questo solenne nome. 

Insomma, da subito, ci siano alternative al carcere per i reati con pene inferiori almeno a tre anni, la pena sia riabilitativa e non punitiva, ci siano ovunque i "garanti" per tutelare i diritti di tutti. 

Possibile che 35 anni dopo la straordinaria Legge Gozzini (1986) si debba ancora ribadire e rivendicare ciò che di essa purtroppo non è stato recepito e realizzato? 

3 commenti:

  1. Ottima idea che il comune di Go si dotasse della figura del "Garante delle persone private della libertà personale", peraltro già attivata in Regione e nell'ex Provincia ....

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  2. Giustissima idea. Toccanti le testimonianze

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