Sì, questa constatazione non particolarmente originale viene in mente ogni volta che, per un motivo o per l'altro, si varcano le mura e si passa attraverso i cancelli.
Si tratti di Rebibbia, Pisa, Piazza Armerina in Italia, di Bouaké in Costa d'Avorio o Massinga in Mozambico, l'impressione è sempre quella di trovarsi davanti a uno specchio sul quale sono riflessi i problemi della comunità circostante.
Sì, proprio circostante, in quanto la prigione è segregazione nel cuore di un territorio, etimologicamente un "tempio", cioè uno "spazio ritagliato" in un centro cittadino. E' vero ovunque, anche a Gorizia, dove la casa circondariale di Via Barzellini, collegata direttamente al Tribunale e a dieci metri dal giardino del Municipio, costituisce lo spazio più centrale e nello stesso tempo meno conosciuto e agibile dell'intero territorio.
Non si tratta delle relazioni interne. Già si è avuto modo di sottolineare la delicata sensibilità delle persone, soprattutto giovani, che in questo momento sono "ospitate" nella struttura per scontare brevi pene comminate per qualche - come dicono essi stessi - "piccola cavolata". Non si tratta neppure della direzione, della polizia penitenziaria, delle ottime professionalità legate alle prospettive scolastiche ed educative, del servizio religioso ad ampio raggio o del prezioso volontariato.
Si tratta di scelte politiche concrete, rinviate negli ultimi quaranta anni e costantemente archiviate in un enorme e scandaloso dimenticatoio.
Se la pena deve essere riabilitativa, come è possibile che non funzionino ancora le proposte di alternativa al carcere, se non in minima misura? Abolire la segregazione, sostituendola con azioni al servizio della società in ambienti umanamente accoglienti, almeno per le pene inferiori ai tre anni, contribuirebbe a risolvere ampiamente il problema del sovraffollamento e - cosa più importante - permetterebbe a chi le deve scontare di non buttare via anni preziosi della vita.
Un investimento finanziario per migliorare le strutture fatiscenti di un edificio costruito nei tempi dell'Austria Ungheria e sostanzialmente rimasto come era, potrebbe permettere di avere maggiori spazi fruibili per la socializzazione, per lo studio e per la ri-creazione, a persone che si trovano costrette a rimanere chiuse in piccole stanze da otto letti, senza alcun riguardo alla privatezza.
Una convinta de-burocratizzazione potrebbe far pensare a una moltiplicazione dei permessi da accordare per uscite "controllate", per motivi di approfondimento culturale, conoscenza maggiore del territorio e - perché no? - di testimonianza intorno a un modo di vivere sostanzialmente sconosciuto a chi non lo ha mai sperimentato. Inoltre si dovrebbero senz'altro facilitare gli incontri con familiari e amici, creando spazi adeguati a incontri affettivi degni di questo nome, con mogli, mariti e figli già tremendamente provati dall'esperienza carceraria della o del congiunta/o. Importante è anche un'adeguata mediazione culturale, data la presenza di tanti migranti, finiti rinchiusi per qualche scorciatoia intrapresa in un mondo "esterno" non molto incline a favorire l'integrazione di chi cerca di fuggire dalla fame o dalla guerra.
Sono problemi politici a livello nazionale. In molti Paesi europei e anche in altri Continenti si sono avviate interessanti sperimentazioni sull'"umanizzazione" delle prigioni e forse sarebbe il caso di studiarle e metterle in pratica anche in Italia.
Ma è un problema politico anche locale, non solo per ciò che concerne le strutture esterne, ma anche per un'attenzione speciale a persone che in ogni caso, fino a quando risiedono - volenti o nolenti - in questo territorio, sono a tutti gli effetti "Goriziani".
Per questo, uno dei primi passi possibili, è quello dell'istituzione immediata, a livello comunale, del "Garante dei diritti delle persone private della libertà individuale". E' presente in ogni capoluogo dove ci sia una prigione, tranne che a Gorizia. O meglio, c'era il garante provinciale, nella fattispecie don Alberto De Nadai, scelto sulla base di un bando ai tempi in cui in FVG esistevano le Province. C'è ancora il garante regionale che ha il compito di visitare tutti gli ambienti e di coordinare i garanti comunali. E se si vuole guardare a un modello cui ispirarsi, non occorre andare lontano, basta chiedere lumi al vicino Comune di Gradisca d'Isonzo che lo ha istituito recentemente, tenuto conto della presenza del CPR di via Udine.
E' solo un primo passo, l'offerta alle persone detenute di un punto di riferimento importante, in grado di portare le loro istanze ai livelli decisionali e di garantire una "voce" a chi purtroppo ne ha fin troppo poca. Ma è anche un punto di collegamento tra il "dentro" e il "fuori", aiutando chi procede verso l'esaurimento della pena a immaginare un futuro diverso rispetto a quello dell'entrare e uscire costantemente dal carcere. Occorre sostenere la ricerca del lavoro, della casa, del ripristino dei normali rapporti familiari. E occorre in particolare lavorare per cancellare quell'"impronta" (stigma, lo si chiama tecnicamente) che trasforma in un inferno, in un "fine pena mai", la vita di chi ha avuto la sventura di pagare oltre ogni limite sopportabile i propri - a volte minimi - errori.
Avanti dunque, caro Comune di Gorizia, sia emesso subito il bando per individuare il miglior possibile "Garante dei diritti delle persone private della libertà personale"!
Credevo che don Alberto fosse il garante! Non e' cosi'?
RispondiEliminaNo, don Alberto era il garante della Provincia, decaduto con la cessazione dell'ente. Lo è di fatto, andando volontariamente ogni giorno in via Barzellini. Condivido con lui l'urgenza di nominare il garante comunale, con un riconoscimento formale istituzionale...
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