giovedì 25 marzo 2021

Memoria, tra mito e storia...

Molto interessante è stato il dibattito online dell'altra sera. Il tema è scottante: verità, pace, giustizia, tra memoria e desiderio. I relatori sono stati al di là delle aspettative, Angelo Floramo, Marinetta Cannito Hjort e don Alberto De Nadai. Non è possibile sintetizzare tutto ciò che è stato detto, per un approfondimento si rinvia alla registrazione, accessibile tramite link youtube https://www.youtube.com/watch?v=VLWJ4R5_tRA.

In questo contesto sembra urgente riprendere una riflessione di Alessio Sokol, relativa al tema della memoria, in rapporto alla storiografia e alla prospettiva politica. L'argomento è veramente decisivo e la condivisione di Angelo Floramo ha soltanto aperto la porta di un edificio molto grande, tutto da scoprire o da riscoprire.

"E' fondamentale - è stato detto - che alla base di tutto ci sia la ricerca storico-scientifica, senza la quale gli eventi del passato e del presente rischiano di essere costantemente strumentalizzati".

Come non essere d'accordo? Tuttavia, l'amara constatazione non è quella della valorizzazione, bensì della persecuzione di chi si dedica a un autentico e libero esame sistematico delle fonti. Ciò accade soprattutto quando il processo della memoria investe antiche e recenti, irrisolte conflittualità.

In questi casi sembra prevalere l'emozione e la narrazione politico-culturale - intesa in questo contesto come costruzione o imposizione di una visione identitaria - coniuga la sicumera del più forte con le sensibilità ferite delle componenti numericamente maggioritarie. Ci sono voluti 60 anni per istituire un "Giorno della memoria" e la sua celebrazione è generalmente approvata dalla stragrande parte della popolazione. Dopo oltre 75 anni, crea invece ancora ogni anno una scia di polemiche la "Giornata del ricordo". 

Perché accade ciò? Forse perché, dal punto di vista sociale, la tragedia dei campi di sterminio nazisti (e fascisti) è in-condizionata. La storiografia, in questo caso, è diventata la base della memoria popolare e politica, ma perché i suoi risultati fossero comunemente accettati dalla politica ci sono voluti oltre 60 anni. Prima se ne parlava poco e mal volentieri. Se si chiedevano informazioni per raggiungere i lager la gente nicchiava, faceva finta di non sentire. Perfino i documenti sul dialogo interreligioso pubblicati negli atti del Concilio Vaticano II non fanno alcun riferimento esplicito alla Shoah, limitandosi a un generico accenno - "spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica" - alle persecuzioni subite dagli ebrei "in ogni tempo e da chiunque". C'era bisogno che la generazione degli oppressori scomparisse, che la Germania facesse i propri conti con il nazismo, che l'umanità si interrogasse sui limiti dell'obbedienza agli ordini piuttosto che ai dettami della propria coscienza. Solo a quel punto la consapevolezza storica si è trasformata in racconto fondante l'identità multipla. Fin troppo, si potrebbe dire, dal momento che il generalizzato accordo trasforma la storia in mito, proiettandola in una realtà astratta e sostanzialmente virtuale, in grado di reggere l'urto del tempo fin quando il rito viene ripetuto con la passione e la forza dei "martyroi", cioè dei testimoni diretti. In ogni caso il "mito" antinazista, alimentato anche da miriadi di libri, film, conferenze a tutti i livelli, ha annientato il mito nazista, confinandolo nella miseria umana di pochi nostalgici abbastanza controllati.

La situazione che viene ricordata il 10 febbraio, a livello solo italiano, è completamente diversa, anzi in un certo senso opposta. In questo caso le "vittime" non sono il frutto di un dramma sciolto da qualsiasi possibile giustificazione storica. La violenza è la conseguenza di altra violenza, la sofferenza anche dell'innocente è l'ultimo frutto della pianta del fascismo che ha prodotto i frutti velenosi della cancellazione dell'identità culturale di un popolo, delle fucilazioni e dei rastrellamenti, dei villaggi bruciati senza pietà, delle deportazioni. In questo caso lo scontro tra i miti - e cosa c'è di più irrisolvibile dei conflitti tra religioni o tra sistemi mitologici? - non è esaurito, perché l'antifascismo italiano non è riuscito a estirpare il fascismo, l'Italia non ha mai fatto fino in fondo i conti con la tragicità del proprio "ventennio" di dittatura. In questo caso gli storici hanno vita dura, fanno fatica a perforare la cappa buia calata sull'informazione, anche attraverso la letteratura, il cinema strappa-emozioni, perfino il teatro e i discorsi dei rappresentanti dello Stato. E ogni "vittima" si allinea dietro al proprio racconto, contrapponendolo a quello dell'altra. E se il ricercatore riesce a smentire i caratteri del mito attraverso la forza del documento, deve venire azzittito perché non c'è nulla da dimostrare nella verità che si è fatta mito, esiste e basta.

Del resto, se è vero che non si ricordano più i gerarchi fascisti anche se si ricevono solennemente i reduci sopravvissuti della X Mas e della repubblica di Salò, è altrettanto vero che città come Gorizia continuano a essere intrise di un'insopportabile retorica militarista. I nomi delle vie, i monumenti nei Giardini, le scritte sulle lapidi ripropongono in modo potente l'epica mitologica della prima guerra mondiale, nonostante l'ormai assodata documentazione storiografica relativa a quella orrenda carneficina che ha sottratto all'Europa una generazione di giovani. Certo, pochi oggi esalterebbero il macellaio Cadorna o penserebbero con ammirazione agli "eroi" annichiliti nelle trincee. Tuttavia altrettanto pochi affronterebbero il lieve disagio di un cambio di carta d'identità pur di cambiare i nomi alle vie e di indicare altri esempi da seguire, donne e uomini di un territorio Goriziano in grado di guardare un futuro "unito nella bellezza delle sue diversità". 
 

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