La questione delle unioni omosessuali, ritornata alla ribalta negli ultimi giorni a causa di un documento della Congregazione per la dottrina della fede, rileva il limite strutturale del pontificato di Francesco e nel contempo evidenzia l'urgenza di una radicale riforma del pensiero e dell'azione della Chiesa cattolica.
Francesco ha inaugurato una prassi pastorale del tutto innovativa e, per usare un'espressione giornalistica, "al passo con i tempi". Con i suoi gesti e le sue parole ha di fatto messo in discussione dottrine e perfino dogmi consolidati, realizzando di fatto le indicazioni di quella parte del dettato del Concilio Vaticano II che ha aperto sentieri da lungo tempo trascurati. Ciò vale per la linea del dialogo interreligioso, certo più sulla scia della Dichiarazione Nostra Aetate che sulle tracce della Costituzione dogmatica Lumen gentium. Lo stesso si può dire del confronto ecumenico con le altre confessioni cristiane, soprattutto con alcune espressioni del protestantesimo più che con la maggior parte delle chiese autocefale ortodosse. Molto importante è il dialogo propugnato con il mondo laico, con il forte accento pacifista e sottilmente antimilitarista che ha radice in alcuni capitoli della Costituzione pastorale Gaudium et spes. In questo quadro si innesta la passione comunicativa e l'impegno a farsi percepire come "primus inter pares", dove i "pares" non sono i vescovi o i sacerdoti, ma ogni essere vivente, da accogliere e amare in quanto "persona". La sua proposta è quella di una comunità ecclesiale non ripiegata su sé stessa, ma aperta alla condivisione dell'avventura della vita con ogni compagna e compagno di strada, indipendentemente dalla sua fede e dalla sua situazione di vita.
Tutto bello e nuovo insomma? Sì, se ci si limita alla figura simpatica, paterna e accogliente di Francesco, pastore che - come lui stesso spesso richiama - è in contatto con tutto ciò che è autenticamente umano e "odora delle pecore". Meno, se ci si domanda che cosa resterà della sua testimonianza.
Ciò che sembra più debole è la dissociazione fra la prassi pastorale e la riflessione teologica. La prima affascina credenti e non credenti, pur suscitando qualche rumorosa ma minoritaria perplessità da parte di riconoscibili e ristretti gruppi di tradizionalisti ultraconservatori. La seconda, per lo più celata dalle mura vaticane e delle facoltà accademiche pontificie, a lungo andare può contribuire a diffondere un senso di malessere. Proprio come è accaduto in occasione della pubblicazione del documento nel quale viene (assurdamente!) vietata la benedizione delle unioni omosessuali, suscitando l'impressione di una dissociazione tra il pensiero di un apparato ecclesiastico retrogrado e la parola/azione di un papa "progressista", peraltro per diritto canonico capo assoluto anche della struttura organizzativa della Chiesa stessa.
In realtà, come non si possono porre in alternativa la filosofia e la prassi, così non si possono scindere la teologia e la pastorale. La relazione con la persona in quanto tale, consapevolmente o (di solito) meno, è molto influenzata dalla concezione del mondo che ciascuno di noi ha progressivamente costruito nella propria vita. Essa orienta la coscienza morale, individuale e sociale, come pure le scelte esistenziali e politiche. La Chiesa cattolica, anche in buona parte del dettato del Concilio Vaticano II, è ancora ancorata alla concezione della Creazione e della Rivelazione ispirata all'aristotelismo tomista e dogmaticamente definita nel Concilio Vaticano I. Esistendo un'unica Natura, espressione del "principio e fine di tutte le cose", essendo il "primo motore immobile" lo stesso Dio che si è rivelato in pienezza attraverso Gesù Cristo ed avendo questi affidato agli apostoli e ai loro successori il compito di interpretare autenticamente la parola divina presente nella Creazione e nelle Scrittura, il magistero della Chiesa ha il ruolo di determinare non solo ciò che compete alla vita dei fedeli, ma anche ciò che è conforme alla Natura e ciò che non lo è. Tutto ciò stride evidentemente con tutto il pensiero moderno e postmoderno, dove di postula all'opposto l'accettazione del fatto che esistono diverse concezioni del mondo e di conseguenza diverse visioni della natura e della morale che ne consegue. Dal punto di vista politico, è in fondo il principio della democrazia, dove la sempre fragile verità è determinata essenzialmente dal consenso della maggioranza. Non è l'ideale, certamente, ma è il superamento del suo opposto, cioè dell'assolutismo.
Ora, una Chiesa che si presenta pastoralmente relativista e teologicamente assolutista, vive in sé stessa un'inevitabile dissociazione che crea disagio (non necessariamente negativo) fra i fedeli. Come superare questa distinzione? Con un nuovo Concilio, urgente. Esso deve essere molto aperto, secondo l'orizzonte inclusivo della persona di papa Francesco, ma anche molto determinato a superare l'impasse dogmatico, mettendo in discussione radicalmente la Tradizione codificata, senza necessariamente cancellarla, ma sicuramente superandola.
Certo, c'è un rischio da correre. Una Chiesa cattolica che rinunci a essere la coscienza morale di tutti, che non si ritenga esclusiva (o piena) depositaria della Verità, che non attribuisca al suo capo la prerogativa dell'infallibilità, che cessi di essere potenza politica ed economica, smantellando il sistema di potere capillarmente diffuso in tutte le Nazioni, pronta a perdere tutti i propri immensi privilegi... perderebbe la maggior parte della sua forza profana. A quel punto, senza tanti riflettori planetari, potrebbe dissolversi nel nulla oppure, ben più probabilmente, dovrebbe semplicemente tornare alle origini, povere, umili, apparentemente perdenti, del suo fondatore e dei suoi primi discepoli. Perchè non provarci?
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