K2 sta per Karakorum 2. E' la seconda montagna più alta della Terra, certamente la più difficile, unendo le problematiche legate al meteo e alla rarefazione dell'aria tipiche dell'Everest e degli altri "8000" a quelle più strettamente tecniche. Non a caso è rimasta fino a quest'anno l'unica vetta importante mai scalata in veste "invernale". La prima bandiera a sventolare su una sommità a lungo ritenuta inviolabile è quella italiana, grazie alla memorabile e molto discussa impresa di Achille Compagnone e Lino Lacedelli, il 31 luglio 1954, un anno dopo la conquista dell'Everest da parte di Edmund Hillary e Tenzing Norgay.
L'intervista rilasciata qualche giorno fa ad Avvenire dall'alpinista Tamara Lunger, oltre a essere un avvincente e drammatico racconto dell'assalto alla cima realizzato da diversi gruppi nel corso di questo inverno, è un toccante documento relativo alla sfida dell'essere umano alla natura "estrema" di certe montagne.
La storia è cronaca già ampiamente documentata dai media. Gli sherpa nepalesi, normalmente provette guide e accompagnatori di scalatori provenienti da tutto il Mondo, questa volta hanno fatto tutto da soli e la prima assoluta del K2 invernale appartiene a loro. Tanto di cappello, successo straordinariamente meritato.
E' per tutti gli altri che il sogno si è trasformato in un incubo. Il tentativo di cordate multinazionali è finito in tragedia, con la morte di almeno cinque persone, annientate dal gelo, dalla stanchezza, dalle imprevedibili condizioni della montagna. La Lunger, una delle più esperte nell'ambito dell'alpinismo italiano, già "padrona" di alcuni 8000 e di altre imponenti e ardite vette, si è trovata nel cuore del dramma. Ha assistito da vicino, accompagnandola con la parola e il conforto, alla morte di un compagno di avventura scivolato. Ha trascorso molte ore nella solitudine degli oltre 7000 metri, senza sapere nulla degli amici che si erano inerpicati verso il passaggio chiave, detto "Il collo di bottiglia", dal quale non sarebbero più tornati indietro. A differenza di molti che in simili condizioni, a un passo dal coronamento del desiderio di una vita, hanno deciso di proseguire "costi quello che costi", Tamara è tornata indietro, portando sulle spalle, insieme allo zaino e alla solitudine, l'angoscia per il destino degli altri e la delusione per il fallimento dell'obiettivo.
Sono tanti gli alpinisti che hanno perso la vita, in questi ultimi anni, sulle montagne dell'Himalaya e del Karakorum. Il corpo di molti non è più stato trovato, alcuni sono stati lasciati nel luogo della morte, spesso triste richiamo ai limiti di chi transita, proseguendo il proprio cammino verso la meta. Un po' ciò dipende anche dall'incoscienza legata alla spedizioni commerciali che, con cifre astronomiche sborsate da chi si può permettere emozioni ad alto costo, accompagnano sulle più alte vette persone poco preparate o comunque costrette a lunghissime soste in fila oltre gli 8500 metri, quella che viene definita significativamente la "zona della morte". Non è a questi che va il pensiero, ma a coloro che hanno la montagna nella mente e nel cuore, per i quali il rischio del salire coincide con il mistero della vita. Sono i portatori e le guide che vivono sulle falde di tutte le più alte montagne del mondo e che dal loro lavoro traggono l'unica possibile fonte di sostentamento in luoghi dominati dalla povertà. E sono coloro che sfuggono al tran tran del quotidiano per sfidare essenzialmente sé stessi, affrontando con consapevolezza e competente prudenza l'ineliminabile possibilità di non ritornare mai più a casa.
Tra essi senz'altro Tamara Lunger che ricorda la spedizione invernale al K2 come un sogno divenuto incubo ma che nello stesso tempo si dichiara pronta a ripartire, nel ricordo di chi non c'è più, sospinta dal desiderio di andare sempre più in là degli angusti confini della comune ordinarietà. A Mallory, l'alpinista che con Irvine tentò nel lontano 1924 la scalata all'Everest, scomparendo entrambi senza aver lasciato alcuna prova di una possibile violazione della vetta, fu chiesto perché volesse scalare l'Everest. Rispose: "Perché è lì!" Forse a ogni alpinista che tenta di conquistare una cima si può porre una domanda simile: "Perché vuoi arrivare lassù? Perché tanta fatica? Perché mettere a repentaglio il dono più prezioso?". Chissà cosa ognuno potrebbe rispondere... Forse in modo simile: "Perché è lì e perché io sono qua". E' un altro modo per celebrare il fascino misterioso e arcano dell'Essere.
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