Yuval Noah Harari nota che quasi tutto ciò che concerne la vita individuale e sociale è frutto dell'umana immaginazione.
In effetti, se ci domandiamo chi siamo, ci accorgiamo immediatamente che le nostre risposte non hanno nulla a che fare con una realtà indipendente dai nostri "inventati" concetti.
Ciò ha permesso all'homo sapiens uno strabiliante cammino nella storia che lo ha portato da debole animale braccato a signore incontrastato della natura. Ma gli ha consentito anche di incrementare la propria forza attraverso la costruzione di immagini e sistemi simbolici dei quali è divenuto schiavo.
Alla base delle religioni, delle ideologie, delle intuizioni sociali c'è una narrazione mitologica, resa costantemente viva e presente attraverso ritualità e liturgie che hanno la finalità di offrire alle persone linguaggi comuni e obiettivi condivisi. Ciò vale dalla protostoria fino ai nostri giorni, passando dalla collaborazione tribale al nazionalismo razzista, dalla lotta per la sopravvivenza allo strapotere delle multinazionali.
Nel nome di simboliche totalmente inventate - la patria, la religione, la bandiera, il denaro, il potere e così via - milioni di esseri umani hanno creduto, si sono riconosciuti in un'identità, hanno parlato diverse lingue, si sono ferocemente massacrati, hanno realizzato opere d'arte, hanno generato cultura, hanno costruito imperi e hanno dato forme ai concetti astratti di libertà, di giustizia, di verità, di pace.
La questione, se così posta, ha il vantaggio di relativizzare tutto ciò che si crede fondamentale e di portare alla luce quelle pochissime "realtà" costitutive e indipendenti della famiglia (altra interessante "invenzione") umana. Quali sono? Essenzialmente due, il dolore e l'amore.
Per esempio, dopo una guerra combattuta per difendere una "nazione", correndo dietro a una "bandiera", per stabilire dei "confini" o dei nuovi "sistemi economici", i sopravvissuti vincitori onorano gli "eroi" e disprezzano le "vittime" sconfitte del "popolo" contro il quale si è combattuto. In realtà, cosa c'è di reale in tutto ciò che ha provocato, riempito di sangue e poi risolto un conflitto? Il dolore dell'individuo concreto. Questo è ciò che rimane, al di là della patria e della sua retorica, ma anche al di là dei "morti" e dei "feriti". Rimane Giacomo, Francesco, Maria, Giovanna... Anzi, neppure i loro nomi, soltanto il dolore acuto della carne straziata o del cuore oppresso dalla sofferenza per la perdita e per l'abbandono.
Tutto ciò non vuole contrastare l'avventura dell'immaginazione, senza la quale non sarebbe mai esistito il computer con il quale sto scrivendo o il drone di Perseverance che cerca le tracce della vita su Marte. Anzi, al contrario, è un invito alla filosofia ad avviare una nuova narrazione su ciò che è l'uomo e sul curarsi di lui, per parafrasare il salmo 8 della Bibbia ebraica.
Se si procede con Cartesio al dubbio sistematico intorno alla "realtà", si giunge alla celebre costatazione del "cogito ergo sum" e si può rifondare l'esistente sulla base del rovesciamento delle "certezze" di Aristotele e Tommaso d'Aquino. Se si accetta la lezione di Harari, ci si può avviare verso una nuova rivoluzione del pensiero, procedendo dal "patior ergo sum" o - se si preferisce - dall'"amo ergo sum".
In questo modo, si potrebbe davvero procedere alla ricerca di un dialogo simpatetico di "simboliche costruttive", a partire non dalla venefica assolutizzazione dell'invenzione dell'uno o dell'altro, ma dall'immediata condivisione del "dolore individuale", dalla quale solo possono nascere i sentimenti della compassione e della solidarietà. Oppure, ma in fondo non è poi così diverso, si può ricostruire ciò che l'analisi ha demolito, a partire dall'amore interpersonale, fondamento istintuale, ma anche carico di significati culturali, di ogni autentica relazione finalizzata alla costruzione di una nuova immagine di "società".
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