Voglio invece sottolineare un dato di fatto.
Nel corso del XX secolo, si erano confrontate e scontrate due visioni antitetiche della società e dell'economia.
Da una parte c'era la visione liberale che, in parole povere, privilegiava la libertà di azione dell'imprenditore e limitava al massimo l'intervento dello Stato. La logica di tale tale posizione nasceva - almeno a parole - dalla convinzione che la crescita dell'iniziativa di pochi illuminati imprenditori, avrebbe concorso al benessere di tutti, attraverso la creazione di posti di lavoro e la corresponsione di salari adeguati che avrebbero dovuto incrementare virtuosamente la dinamica tra produzione e consumo. Per ottenere questo risultato, sostenuto da tutti i governi conservatori, è necessario ridurre al minimo la tassazione, con conseguente affidamento dei servizi essenziali al privato, legato ai potentati economici, a discapito dell'ambito pubblico che manterrebbe, per quanto possibile, soltanto una superficiale funzione di controllo.
Dall'altra si era stabilizzata una visione più sociale, fondamentalmente animata da una concezione opposta della crescita globale. In questo caso lo Stato assume una funzione di grande importanza, garantendo a quanti più cittadini possibili condizioni di benessere e di tutela dei più importanti diritti, alla vita, alla salute, al lavoro, all'istruzione. La crescita complessiva del sistema sociale dovrebbe, in questo orizzonte, favorire anche un progresso economico complessivo, là dove l'imprenditore dovrebbe mettere a disposizione la sua competenza e capacità non del proprio arricchimento individuale ma del bene comune di una determinata realtà. Ovviamente, in questa ottica, portata avanti dai governi cosiddetti progressisti, le tasse non possono che essere elevate e determinate dall'asserto secondo il quale chi più possiede più deve mettere a disposizione di tutti, ciò che ha.
La visione liberale ha ancora un grande spazio nel mondo capitalista attuale e viene clamorosamente sostenuta anche da elettori molto lontani dal mondo dell'imprenditoria. Essi votano le compagini conservatrici, convinti della bontà delle loro promesse, enfatizzate da sapienti campagne mediatiche. Ciò accade - e sembra che la storia stia per ripetersi anche in Italia tra poco più di un mese - nonostante il fatto che tutti gli indicatori scientifici abbiano dimostrato che l'abbassamento delle tasse ai ricchi non abbia mai fatto crescere l'economia di nessun Paese, provocandone al contrario il tracollo a causa dell'indebitamento dello Stato, impossibilitato a rispondere alle più immediate necessità della stragrande maggioranza dei cittadini. Così accadde, solo per portare un esempio tra centinaia possibili, negli USA di Ronald Reagan, dove l'abbassamento sensibile della tassazione, portò lo Stato sull'orlo del collasso e costrinse il successore Bill Clinton a una politica di sacrifici e austerità per poter salvare il Paese.
Il fatto è che, ovunque si sia dato credito al principio "più imprenditoria meno Stato", il risultato è stato, a livello locale e globale, la crescita della distanza tra i sempre più numerosi e poveri poveri e i sempre meno numerosi e sempre più ricchi ricchi.
Questo è da tenere presente, al di là delle schermaglie di facciata tra gruppi d'opinione, nel momento in cui si va a votare, per sapere la posta in gioco e non essere presi in giro (per usare un eufemismo).
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