Ogni giorno, da oltre un anno, i bollettini riportano le cifre del covid - 20mila contagi, 600 morti, 1000 terapie intensive e così via. Fanno ormai parte di noi - come il crollo delle Torri Gemelle, lo sbarco dell'uomo sulla Luna o lo tsunami di Fukushima - le immagini dei camion militari che trasportano le bare di coloro che se ne sono andati senza poter ricevere neppure un saluto dai propri cari.
Sono entrate nel nostro vissuto altre tragedie, simbolicamente sintetizzate da Alan Kurdi, riverso senza vita su una spiaggia della Turchia. Rappresenta decine di migliaia di scomparsi, nelle acque del Mediterraneo e nei boschi dei Balcani. E come dimenticare i bambini della Siria, i volti terrorizzati sotto le bombe, l'ansia di fuggire verso un futuro del tutto ignoto.
Questa convivenza con la morte, questa minaccia costante alla nostra integrità, ci rende migliori? Certo, la vita procede, come se fosse niente. Si fanno programmi, si pensa a ciò che ci sta davanti, si combattono battaglie politiche , sfruttando la paura o la preoccupazione dei più. Ma il tristo mietitore sembra sempre lì, con la su falce e il sorriso sardonico, davanti all'affaccendarsi dell'essere umano che si occupa di mille cose, ritenendole importanti, fondamentali, senz'alcun dubbio indispensabili. In nome delle proprie pretese ragioni si ostacolano i progetti altrui, ci si scontra per ogni piccola differenza, si innalzano mura interiori dentro le quali ci si rinchiude per impedire a chiunque di raggiungere il cuore.
La vicinanza del dolore e della morte dovrebbero farci sentire più uniti. Non c'è nulla di più reale della sofferenza individuale, nulla che accomuna di più non soltanto gli umani, ma tutti gli esseri viventi. Eppure...
In un viaggio in Croazia, ai tempi delle terribili guerre dell'ultimo decennio del XX secolo, i religiosi discutevano tra loro di precedenze nelle processioni, mentre nei loro paesi le persone si scontravano dando vita a massacri inenarrabili. Si può vivere con la morte accanto e far finta di niente, intrisi soltanto di una tensione insopprimibile ma inconsapevole. Si può discutere di tutto, di calcio come di politica, di montagna come di filosofia, di libri e di cinema, come se non si fosse minacciati dal Nulla oscuro, come se l'oggi fosse eterno e non effimero frammento di una luce che si potrebbe spegnere da un momento all'altro.
Forse non può essere altro che così, se si vivesse sempre con la morte in faccia sarebbe impossibile sopportare lo scorrere drammatico degli istanti. Occorre al contrario vivere, intensamente vivere, impegnando tutto in quel "momento" così particolare che è l'"adesso", dilatandolo più possibile in una dimensione che almeno tenda verso l'infinità e l'eternità. Tuttavia il confine tra l'impegno immenso nel presente e la totale distrazione da un "prima" e da un "dopo" è molto labile. Solo la trascendenza - intesa come affrancamento dalla prigione dello spazio e del tempo - può liberare l'uomo individuo dalla tentazione di essere l'unica misura di tutte le cose, divenendo così preda di un Potere venefico che si alimenta proprio con il cibo dell'oblio e sa approfittare della radicale fragilità dell'Esistenza.
Per questo, non è necessario accogliere nella totalità l'invito a contemplare il teschio proposto dai monaci tibetani, dai mistici protestanti della Renania, dall'Amleto di Shakespeare o dagli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Basterebbe forse approfittare di questa rinnovata" presenza" della morte per non chiudere gli occhi davanti al mistero del Male, fisico e morale, che si stende come ombra sulla quotidianità. Ciò ci aiuterebbe a sentirci finalmente sorelle e fratelli, accomunati dallo stesso destino. E ci consentirebbe di fregiarci del nobile nome di "pellegrini", viandanti sulla Terra alla ricerca della Vita, costruttori ovunque di giustizia e di pace, "leali con il mondo, ma non schiavi del mondo", come recitava quasi duemila anni fa la Lettera a Diogneto.
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