domenica 11 aprile 2021

Qualche riflessione sul libro biblico dei Giudici

Davvero interessante è il Libro dei Giudici, il settimo nell'ordine che si ritrova in qualsiasi Bibbia. Tratta di un periodo particolare, ponte tra la conquista della terra promessa da parte degli Israeliti e l'inizio della regalità (circa tra l'XI e il IX secolo avanti Cristo). In sostanza, le vicende impegnano un paio di secoli e sono incentrate su queste figure particolari - i "giudici" appunto - che amministrano le diverse tribù. Lo schema è sempre ,lo stesso. Il popolo "dimentica" il proprio Dio e si prostra davanti agli dei appartenenti ai popoli conquistati. La punizione non si fa attendere e i vari Filistei, Ammoniti, Moabiti, Gebusei si riappropriano delle terre precedentemente perdute, seminando il panico tra i "figli di Giacobbe". Nella situazione di schiavitù gli ebrei gridano al Signore che, valutando il loro pentimento, invia un condottiero a salvarli.
Mosè e Giosué appaiono servi fedeli e integerrimi del divino, obbediscono pedissequamente alle sue leggi e realizzano i suoi cruenti desideri sconfiggendo e annichilendo i vari nemici. I Giudici invece sembrano figure moralmente meno delineate e le loro vittorie vengono ottenute spesso con l'inganno. Gedeone imbroglia i Moabiti facendoli combattere ed eliminarsi vicendevolmente. Il forte Sisara viene ucciso dalla fragile Gioele che gli conficca nella tempia un piolo della tenda, ottenendo il plauso e il canto della giudice (sì, una donna) Debora. Ietro vince contro gli Ammoniti e per ingraziarsi Dio gli promette il sacrificio umano della prima persona che avrebbe incontrato rientrando verso la sua città. Gli correrà incontro la figlia, che il padre non esiterà a immolare, dopo averle consentito un paio di mesi "per piangere la sua verginità". Sansone "fa la volontà di Dio" ingannando costantemente i Filistei, unendo il desiderio di unirsi alle loro donne alla creazione di pretesti per seminare inutili stragi. I membri della tribù di Dan, alla ricerca di nuovi pascoli, scoprono una zona definita "serena e in pace", l'attaccano sapendo che i suoi abitanti non potrebbero essere aiutati da nessuno, e "passano a fil di spada tutti i cittadini", insediandosi al loro posto.
Tutto ciò con l'appoggio di questo particolare "Dio" che garantisce al proprio popolo progresso e benessere, attraverso il sistematico massacro degli autoctoni, in cambio di totale sottomissione e che lascia Israele nelle mani dei gruppi umani circostanti, nei momenti di disobbedienza e di dimenticanza.
Insomma, la prima parte della Bibbia è piena di sangue, gli autori si compiacciono dei trentamila morti in battaglia, delle città fatte anatema con la soppressione di tutti i viventi, uomini, donne, bambini e bestiame, delle teste tagliate, per non parlare di tutti i primogeniti d'Egitto e dei carri e cavalieri sprofondati nel Mar Rosso.
In tutti questi testi la liturgia invita a riconoscere la Parola di Dio e a rispondere con il rendimento di grazie. Ma è davvero sostenibile che tutto ciò non sia altro che un modo simbolico per affermare il primato di Dio su tutto il creato? Era proprio necessario costruire un'allegoria così grondante di sangue e di palese ingiustizia? E' poi così diverso ciò che scrive la Bibbia dai miti della Grecia antica, dai comportamenti umani, troppo umani, degli dei dell'Olimpo che troppo presto siamo stati abituati a relegare nella soffitta della nostra infanzia? Come può una fede autentica nel trascendente, nel Dio definito "padre", essere compatibile con il compiacimento davanti alle orrende carneficine legate all'occupazione sistematica della Palestina? Senza cedere a immediate tentazioni anacronistiche, si può leggere in un'enfasi di ideologia religiosa lo svolgersi di quegli eventi come una lontana radice che in qualche modo tenti di giustificare la situazione attuale della martoriata "Terra Santa"? La divinizzazione dell'identità è una grande sciagura, in nome di un'invenzione umana si pretende di poter cancellare dalla faccia della terra chi non si riconosce in essa...

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