domenica 23 aprile 2023

Armi sì o armi no, una scelta drammatica e non scontata

 

Lunedì 24, alle ore 18.30 nella sala convegni retrostante la chiesa di Sant'Ignazio a Gorizia, Giorgio Beretta presenterà il suo libro dedicato al "paese delle armi".

E' interessante sapere che l'etimologia del sostantivo "arma" è alquanto incerta. La maggior parte degli studiosi la collega a "ramo" o al tedesco "arm" che significa "braccio". In un senso piuttosto deprimente, l'arma sarebbe intesa come un prolungamento del braccio, come a dire che quasi naturalmente lo strumento che semina morte - sia esso una clava, un coltello, una mazza, una pistola, un cannone o una bomba atomica - altro non è che un inevitabile prolungamento della normale attività umana. Altri propongono come base il latino "ars", ovvero l'azione dell'artigiano, il "mestiere delle armi", come dal titolo di un bel film di Ermanno Olmi.

Comunque sia, già l'etimologia collega strettamente l'esistenza delle armi a un'attività essenzialmente umana. Gli altri animali non costruiscono armi, per attaccare o per difendersi usano solo il loro corpo. L'uomo è l'unico essere che fabbrica strumenti in grado di potenziare al massimo grado possibile la forza offensiva del proprio braccio. Per questo, l'unico nemico che può batterlo è soltanto un altro uomo che ha costruito un'arma più efficace e distruttiva. Per questo, la logica della savana e la legge della giungla hanno le stesse regole dal Pleistocene a oggi, mentre la lotta dell'uomo contro gli altri esseri viventi e contro i propri simili ha attraversato una serie di impressionanti trasformazioni, conseguenza ma anche causa dell'evoluzione tecnologica. Così si è arrivati, passo dopo passo, dalla fionda alla fissione nucleare, fino alla soglia della possibile distruzione di ogni forma di vita sulla terra.

La logica dell'arma, qualunque essa sia, è quella di ferire e uccidere, si tratti di garantirsi il cibo con la caccia (da "captare", sforzarsi di prendere) o di mantenere il proprio spazio vitale, offendendo per allargarlo o difendendosi da altri uomini, per evitare di perderlo. E' un po' singolare, in rapporto agli animali, come l'intensità della pena per la sofferenza di chi viene colpito sia essenzialmente legata a una dimensione essenzialmente culturale, intrinsecamente rapportata allo spazio e al tempo. Si è per esempio assistito, in questi giorni, all'interminabile dibattito sulla sorte che attende l'orsa jj4, mentre solo pochi esseri umani, per lo più vegetariani e vegani provano qualunque sentimento di compassione nei confronti di miliardi di mucche, maiali o polli sacrificati ogni giorno sull'altare della naturale necessità di mangiare. Quasi nessuno si preoccupa per la tristissima sorte dei pesci, tirati fuori dall'acqua e morti soffocati, quando non sbattuti sulla pietra da incolpevoli pescatori oppure trascinati in enormi reti prima di essere distribuiti ancora agonizzanti sui banchi delle pescherie. Una violenza contro un cane in Europa sarebbe considerata alla stregua di un assassinio, mentre in altre parti del mondo si mangiano tranquillamente le carni dei cani e dei gatti, i dolci (o dolciastri, in questo caso) amici dell'uomo.

Ben più drammatica è la questione quando viene applicata al genere umano, dove non esiste alcuna delle possibili e sanamente discutibili "giustificazioni" della caccia agli altri animali o della pesca. Perché un uomo dovrebbe uccidere un altro uomo? Perché dovrebbe sentire usurpato un suo diritto, quando la Terra dovrebbe essere considerata la casa di tutti e l'unica "ars", nelle relazioni tra "fratelli" dovrebbe essere quella della "politica", ovvero della gestione democratica della convivenza? C'è un unico orribile motivo che spiega la guerra e la violenza dell'uomo contro l'altro uomo, è il razzismo, ovvero la considerazione che esistano delle "razze" o delle "etnie" che in qualche modo diversifichino qualitativamente gli uni dagli altri. In questo contesto l'arma è uno strumento micidiale per uccidere chi viene ritenuto inferiore, indegno, privo del diritto alla vita. Le guerre iniziano quando finisce il dialogo, sono in questo senso disumane, perché non corrispondono alla caratteristica fondamentale dell'essere umano, cioè la razionalità, la parola, la possibilità del dialogo, questa sì la vera arma (ars, arte) che caratterizza chi è in grado di "ragionare". La ragione utilizzata per potenziare la forza del braccio porta alla catastrofe. Per questo l'unica logica che oggi potrebbe consentire una generale inversione di rotta è il disarmo totale, la rinuncia alla logica delle armi in nome di quella della ragione.

Tra le tante questioni irrisolte è indispensabile soffermarsi su una. Cosa fare quando il prepotente costringe all'obbedienza e al silenzio il debole? Come impedire il genocidio perpetuato da chi ha dalla sua parte la forza delle armi? E' sufficiente la logica della nonviolenza, nel momento in cui lo strapotere economico e militare vuole soffocare ogni forma di libertà? Si possono accettare dittatori che massacrano i propri oppositori o interi popoli ritenuti "inferiori"? Che fare per fermarli, per bloccare la mentalità fascista che divide gli uni dagli altri, che ritiene che la propria sopravvivenza sia da garantire a tutti i costi, anche soffocando il diritto dell'altro? 

Sono domande drammatiche, alle quali si sono date diverse risposte. Gandhi ha sostenuto la necessità della nonviolenza radicale anche dopo la Shoah e Hiroshima, ma la sua posizione è sembrata a molti teoricamente condivisibile, ma praticamente debole, dopo la seconda guerra mondiale. Dietrich Bonhoeffer è stato ucciso a Buchenwald, per aver partecipato indirettamente all'attentato a Hitler, pur essendo stato uno dei grandi profeti della nonviolenza nel corso del XX secolo. I partigiani hanno messo a repentaglio la propria vita e hanno utilizzato le armi non per difendere i propri interessi di parte, ma per consentire a popoli e nazioni europee di ritrovare la libertà e la giustizia, sbarazzandosi del nazismo e del fascismo. Quello delle armi è dunque un tema molto complesso e forse non può essere delineato in modo radicale, decidendo per un "sì" o per un "no". E' necessario distinguere le diverse situazioni e possedere dei criteri di giudizio che possano consentire, nei diversi contesti, delle scelte drammatiche. 

Certo, le armi esistono per offendere e per uccidere. A volte vengono usate per distruggere e massacrare, altre volte sono considerate una triste necessità, finalizzata a disinnescare l'assoluta violenza derivata da ideologie disumane e da dittatori sanguinari. Dove sta il confine tra la ragione e il torto, come distinguere gli oppressori dagli oppressi, in particolare quando non è chiara la successione di azioni e reazioni che determinano un conflitto? Sono domande importanti e delicate, alle quali rispondere volta per volta, situazione per situazione. 

In questo senso la memoria del 25 aprile è una vera scuola di vita, una data che ricorda un evento in questo caso inequivocabile, una situazione di piena chiarezza in relazione al torto - fascisti e nazisti - e alla ragione - coloro che li hanno combattuti. La parificazione delle sofferenze non è una vera pacificazione, la devozione per ogni vita umana non può in alcun modo dimenticare la fondamentale distinzione tra vittime e carnefici, il rispetto delle memorie non ha nulla a che fare con la riconciliazione, da una parte c'è chi ha promulgato le leggi razziali, ha scatenato la seconda guerra mondiale e lo sterminio generalizzato, dall'altra chi ha tentato di fermare la barbarie. Il fascismo e il nazismo sono stati i carnefici, i loro oppositori sono stati dalla parte delle vittime ed è grazie alla Resistenza che le ideologie perverse sono state sconfitte e che è iniziata una nuova stagione di libertà e di giustizia. Hanno fatto bene a usare le armi, a trasgredire il comandamento di "non uccidere"? E' necessario dirlo, evidentemente sì, nella misura in cui non hanno garantito gli interessi di qualcuno, ma hanno voluto costruire un mondo nuovo per tutti, affrancato dall'egoismo, dal razzismo, dall'avidità, dalla totale disumanità. Per questo è giusto celebrare e valorizzare il 25 aprile, data simbolica e reale nella quale non si ricorda soltanto la fine della guerra, ma la sconfitta definitiva del fascismo e dei suoi orrori, per opera di coloro che hanno combattuto per ottenerla. Per dirla con don Milani e i suoi studenti nella Lettera a una professoressa, è stata "l'unica guerra giusta del XX secolo".

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