domenica 5 febbraio 2023

La guerra non è una follia

No, non è una contraddizione rispetto a quanto lodevolmente affermato spesso dal Vescovo di Roma Francesco, è piuttosto un titolo provocatorio, finalizzato a una specie di approfondimento, a un'umile ricerca di ulteriore chiarificazione.

Si avvicina il 24 febbraio, anniversario dell'inizio della sciagurata guerra in Ucraina. Ci sarà tempo, purtroppo, per parlarne ancora, tanto più se la vicenda del pallone aerostatico cinese, abbattuto sull'Atlantico diventerà pretesto per la diffusione di ulteriori nuvole oscure sul cielo planetario.

Due osservazioni più generali, anche se in qualche modo collegate, possono essere tratte dalla situazione attuale.

La prima è la constatazione - o la triste ammissione - che in realtà "la guerra non è una follia". Non lo è perché ha delle "ragioni", sulla base delle quali si combattono le "ragioni" degli altri. Ciò è spiegabile nell'ambito degli integralismi religiosi che propugnano la "giusta causa" del proprio "assoluto" contro quella degli infedeli che peraltro affermano un altro assoluto (si noti "la contraddizione che nol consente"). Ma funziona tragicamente bene anche dopo la svolta antropocentrica del pensiero moderno, là dove la "ragione" di ciascuno ha, almeno in teoria, uguale diritto di cittadinanza rispetto a quello di ogni altro. Purtroppo, nell'un caso come nell'altro, non sembra essere stata individuata - e se lo è stata, non è stata se non assai raramente applicata - una modalità diversa per farsi valere che non sia quella della violenza. Eppure, da che mondo è mondo, l'alternativa nonviolenta potrebbe essere veramente l'unica possibile svolta rispetto a una strada lastricata di delicati equilibri che da un momento all'altro farebbero pesare maggiormente la bilancia dalla parte della catastrofe definitiva. 

Dunque, ogni conflitto si accende per motivi razionali, non è affatto una follia. Ciò vale anche per le rivendicazioni di giustizia, più o meno condivisibili, che devono perforare il muro della "ragione" dell'altro per poter essere ascoltate e a volte anche prese in considerazione. In questi casi - e gli esempi si potrebbero citare a migliaia, la lotta di liberazione partigiana in primis - è molto meno evidente che l'eventuale uso della violenza sia effettivamente una "follia", come drammaticamente meditato da Bonhoeffer in merito alla decisione di partecipare all'attentato a Hitler, per fermarsi soltanto a un esempio celebre riguardante lo straordinario autore di Resistenza e resa. Come dare voce alle ragioni di chi non ha voce? C'è qualche altra strada rispetto a quella della violenza? La questione è come (ma anche se) convincere i razionali belligeranti del fatto che la nonviolenza (intesa come disponibilità attiva a essere colpiti piuttosto che colpire, a essere uccisi piuttosto che uccidere, a far prevalere il perdono sulla vendetta) sia sempre metodo per la risoluzione dei conflitti, effettivamente più razionale della violenza. Là dove a creare problema e a rendere incandescente la domanda può essere proprio quel "sempre". La nonviolenza è "sempre" il metodo adeguato a risolvere i conflitti, come peraltro afferma anche il nostro famoso articolo 11 della Costituzione, quello sul "ripudio" della guerra?

L'altra questione è relativa al singolare rapporto che c'è tra la visione universale e quella individuale, in altre parole tra la guerra totale e le quotidiane incomprensioni tra gli esseri umani. Anche nell'ordinarietà si scontrano spesso le "ragioni" degli uni con quelle degli "altri". Molto spesso, anche chi sostiene con convinzione la "razionalità" della nonviolenza contro la "follia" della guerra, di fronte a una piccola incomprensione reagisce con una violenza commisurata alle proprie potenzialità. Per esempio, in una discussione si anima e si scaglia con sicumera contro il sostenitore del pensiero opposto (spesso anche su questioni di semplici interpretazioni del settato nonviolento o sull'organizzazione di una determinata attività) oppure si allontana ostentatamente dalla discussione, ritenendo inutile il dialogo con quell'"altro" ritenuto troppo distante dalle sue posizioni. E così, nel "piccolo", si riflette ciò che accade nel "grande", ovvero si preferisce impedire all'altro di parlare o si ritiene inutile la "trattativa", lasciando quindi solo alla legge del più forte il compito di dirimere le questioni. In ogni caso, dietro a tali atteggiamenti, ci sono sempre altre "ragioni", a volte nascoste anche agli stessi interlocutori, che non possono bucare la "superficie" dei dibattiti proprio perché soffocate dall'esplosione dei piccoli conflitti. A pensarci bene, è proprio come nel livello universale, dove le "ragioni" nascoste delle guerre rimangono celate alla considerazione dei più, perché il fragore delle armi e il vociare dei media impediscono qualsiasi altrimenti indispensabile approfondimento. Sì, perché la scoperta delle vere ragioni disinnescherebbe immediatamente l'entusiasmo delle tifoserie e renderebbe possibile riportare tutte le questioni a un più - questa volta davvero! - ragionevole modo di affrontarle.

Tutto questo per dire al mondo dei costruttori di pace e dei sostenitori della nonviolenza che c'è in questo tempo una speciale responsabilità, quella di gestire e vivere i conflitti quotidiani con un soprassalto di attenzione e di sensibilità. Il che non significa affatto rinunciare a discutere accettando supinamente l'aggressione (verbale o fisica) dell'altro, ma al contrario rivendicare proprio l'uso del metodo nonviolento, incentrato sul non abbandonare mai lo spazio del dialogo, sulla ricerca di comprensione (non giustificazione) delle "ragioni" dell'altro, sulla nobile fatica di raggiungere insieme non il minimo comune multiplo, ma il massimo comune divisore. E' importante farlo lo stesso, ma certamente è meno credibile la richiesta a Putin e Zelensky di sedersi insieme sul tavolo della diplomazia, nel momento in cui non si è capaci di raggiungere un accordo nemmeno su questioni infinitamente più quotidiane e ordinarie.

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