lunedì 27 luglio 2020

Abbandono di capannoni, bomba a orologeria.

Riprendendo un'interessante conferenza promossa dal Forum per Gorizia al Kulturni dom a metà luglio, c'è da rilevare la debolezza della situazione normativa attuale. Se infatti la tavola rotonda ha evidenziato, con interventi alquanto competenti e precisi, le rotte della criminalità organizzata nella gestione dei rifiuti, ha anche toccato - sia pur in modo marginale - la questione delle criticità ambientali non immediatamente criminogene.
Sono migliaia infatti in Italia - anche in Friuli Venezia Giulia - i luoghi abbandonati, lasciati nel nulla a deturpare il paesaggio, non senza gravi rischi per gli abitanti dei territori.
La maggior parte delle volte si tratta di capannoni utilizzati inizialmente per uno scopo, poi rivenduti a società sempre meno identificabili, normalmente strapieni di rimanenze industriali impossibili ormai da riciclare. Si tratta di enormi quantitativi di balle di carta, rotoli di materiali plastici lasciati in balia delle intemperie, lamiere di ferro e acciaio testimoni di tempi di gran lunga migliori. Nel cosiddetto "triangolo della sedia" ce ne sono tante di situazioni del genere e nessuna sembra poter o voler intervenire. Normalmente non si trovano rifiuti tossici, immediatamente dannosi per la salute o per l'ambiente, ma sono pur sempre materie alquanto infiammabili e spesso un incidente fortuito o un atto deliberato potrebbe trasformare delle brutture apparentemente innocue in vere e proprie bombe ecologiche.
Perché nessuno si muove?
Il compito di ripristinare in modo corretto i siti danneggiati appartiene naturalmente ai proprietari. Ma il gioco del domino dei trasferimenti societari rende quasi impossibile reperire nomi e cognomi ai quali rivolgersi. E anche ammesso che ciò si possa fortunatamente verificare, è altrettanto quasi impossibile che soggetti almeno ufficialmente ridotti ai limiti dell'assistenza sociale possano imbarcarsi in un'azione che si preannuncia costosissima.
L'ente pubblico, a questo punto, deve trasmettere un'ordinanza ai suddetti soggetti. I casi sono tre. Nel primo non sarà possibile reperire nessuno e l'ordinanza cadrà nel vuoto. In questo orizzonte, per legge, il Comune (o chi per lui) dovrà intervenire con i propri mezzi economici, dilapidando praticamente tutto il proprio avanzo di bilancio senza alcuna possibilità di ricevere contributi esterni, essendo effettuato l'intervento su area privata. Tra l'altro sarà necessario previamente acquisire tutte le autorizzazioni possibili di assicurazione e ingresso in aree pericolose e non di proprietà.
Nel secondo caso si può risalire a un proprietario che sarà ben felice di liberarsi di un simile impiccio, rifilando all'ente pubblico una marea di debiti pregressi che andrebbero in questo modo a interferire sulle tasche dei contribuenti.
Quello che manca è una normativa che riconosca la valenza pubblica del paesaggio e quindi il reato ambientale non solo di chi inquina direttamente acqua o aria, ma anche di chi abbandona rifiuti inevasi in capannoni o piazzali all'aperto. Il Comune dovrebbe essere messo nella possibilità di requisire un'area per manifesta incapacità di custodirla da parte del proprietario. E a quel punto, acquisita la zona, potrebbe cercare nel "pubblico" sovvenzioni europee, italiane e regionali per poter ottemperare all'obbligo di ripristino e di bonifica.
Ma questa legge non c'è e fino a quando non sarà scritta, sarà purtroppo necessario continuare a lamentarsi, osservando il progressivo impressionante deterioramento di territori che un tempo erano il fiore all'occhiello della "piccola industria" del profondo Nord e ora sono ininterrotte teorie di squallide e malinconiche cattedrali nel deserto.

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