Quel 19 luglio 2001, in veste di direttore del settimanale Voce Isontina, mi incontrai in piazza san Pietro a Roma con il professor Alberto Gasparini, allora direttore dell'Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia. Intorno alle 9 entrammo nei Palazzi Vaticani, accompagnati da un solerte monsignore. Enormi scalinate, logge con panorami mozzafiato, un luminoso ufficio nella zona riservata alla Segreteria di Stato. Ci ricevette mons. Leonardo Sandri, divenuto successivamente, nella breve era Ratzingeriana, influente Cardinale di Curia. E ci disse di sì, che la Santa Sede era d'accordo e che avrebbe inviato una delegazione di alto profilo a Gorizia, a dibattere sul tema delle "città divise" nel mondo, presentando l'esempio, a suo parere assai virtuoso, della Roma capitale d'Italia e della Città del Vaticano.
C'è stato il tempo di un cerimonioso saluto e poi si è andati via quasi di corsa, verso San Luigi dei Francesi. In uno spettacolare palazzo ottocentesco, ci aspettava proprio lui, Giulio Andreotti. Ci ricevette in vestaglia, facendoci accomodare nel suo studio privato e ci ascoltò con grande attenzione. Ci promise tutto il suo interessamento per far arrivare a Gorizia i più importanti rappresentanti del dialogo israeliano palestinese, soprattutto gli accademici delle rispettive università. Gerusalemme città divisa per eccellenza, si sarebbe presentata a Gorizia con la prospettiva della speranza di un futuro diverso, fondato sul riconoscimento, sul rispetto e sulla valorizzazione delle diversità. Così si sperava, così si auspicava in quella calda estate. Prima di salutarci, Andreotti mi consigliò di non risalire attraverso Genova, perché "sarebbe di sicuro accaduto qualcosa di grave".
Quale migliore invito per correre verso il nord ovest?
Arrivai a Genova nella tarda mattinata del 20 luglio, lasciai per precauzione la macchina a poche centinaia di metri dallo stadio di Marassi e attraversai a piedi un lembo di città che sembrava essere stata attraversata da un tornado di fuoco. I famosi black blok, tanto famosi da non essere mai stati identificati, avevano messo a ferro e fuoco quel quartiere, ovunque vetrine spaccate, auto incendiate, cassonetti maleodoranti dai quali si sprigionavano alte colonne di fumo. L'obiettivo di innalzare al massimo la tensione era riuscito. Oltre il tunnel della ferrovia mi trovai tra il gigantesco pacifico corteo che voleva raggiungere la "linea rossa" invalicabile del G8 e un autentico esercito di polizia in tenuta antisommossa. Iniziò il bombardamento di lacrimogeni, le sirene risuonavano dappertutto, gli elicotteri volavano sulle teste dei manifestanti, la confusione regnava ovunque. Non si respirava quasi più e non si vedeva niente oltre la nebbia. Con alcuni appena sopraggiunti fummo respinti al di là del tunnel e non mi restò altro da fare che incamminarmi mestamente verso il ritorno. Avevo la sensazione che quei lacrimogeni non soltanto mi avessero stordito, ma che anche portassero con sé il sinistro annuncio della fine di tante, immense speranze. Svaniva l'ultima eco del'68, il mondo non sarebbe cambiato da un giorno all'altro, riprendeva per tutti una lunga marcia, senza più mobilitazioni di massa, idee altisonanti e auspici di giustizia e di pace perenni. Tutto ciò trovava ulteriore conferma, mentre ascoltavo la radio, sfrecciando sull'autostrada verso Milano. "Sembra che sia morto un giovane, in piazza Alimonda... sembra che ci siano scontri ovunque..." E più tardi, "sembra che ci sia stata una perquisizione nella caserma di via Diaz che ospitava tanti manifestanti...". Ci voleva poco per capire che dietro a ogni "sembra" c'era una tragica realtà. La morte di Carlo Giuliani è diventata l'emblema del fallimento di uno stato incapace di garantire i diritti e la democrazia, ma anche un riferimento di memoria tuttora vivo, in attesa che quei semi sparsi in quella settimana di Genova possano una volta o l'altra germogliare e fiorire, dopo l'inverno delle Twin Tower, della guerra infinita di Bush, delle crisi finanziarie, degli interminabili conflitti planetari, della totale dimenticanza degli "obiettivi del Millennio", del Covid19...
Ecco, era questo il contesto nel quale era stata concepita, era maturata e si stava per perdere nel vento del tempo l'idea di fare di Gorizia e Nova Gorica la sede delle prime trattative di pace per popoli in guerra e il centro di addestramento dei corpi civili di pace europei. Con Gasparini si pensava già agli istituti religiosi e laici come sedi delle delegazioni, ai programmi da costruire per avvicinare i diplomatici gli uni agli altri, immaginando gite lungo l'Isonzo o sulle colline del Carso. E si ipotizzava l'acquisto di una delle caserme ormai dismesse per creare il campus universitario. Giovani da tutta Europa avrebbero potuto venire a Gorizia e Nova Gorica, vivere comuni esperienze, prepararsi grazie all'apporto delle Università e dei centri accademici.
Si arrivò al grande convegno sulle città divise, nell'auditorium della Regione in via Roma. Fu il punto vertice del cammino di quegli anni. Poi, sull'onda della repressione di Genova, tutto svanì nel nulla, se ne parlò ancora qua e là, in conventicole di convinti pacifisti, ma non ci fu mai più nulla di pubblico.
Fino a dopodomani, sabato 30 dicembre 2023, quando, dalle 14 alle 19 presso il Conference Center dell'Università di Trieste a Gorizia, il tema di Nova Gorica e Gorizia capitale europea della Cultura dell'Accoglienza e della Pace, sarà al centro della prima parte del convegno nazionale organizzato da Pax Christi in collaborazione con il Comitato permanente per la Giustizia e per la Pace di Nova Gorica e Gorizia. Sarà il rilancio del sogno di oltre venti anni fa? Si capirà l'importanza di un evento come quello che si sta per celebrare? Si uscirà dal convegno con idee chiare su come proseguire tutti insieme un cammino così concreto ed entusiasmante di autentica pace? E' una speranza che travalica la piccola realtà locale e che si diffonde ovunque nel mondo, soprattutto "là dove la terra brucia".
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