La Francigena, partenza del tratto dal San Bernardo a Roma |
Sono loro i veri camminatori, i pellegrini del nostro tempo.
Tuttavia è degno di nota il fatto che, anche nel ricco e opulento Occidente, i
viandanti si siano moltiplicati. Non quelli che investono tutta la loro
esistenza percorrendo le strade del mondo, ma quelli che per una settimana o un
mese smettono il vestito gessato, lasciano gli uffici rinfrescati dai condizionatori,
abbandonano i soffici letti ordinari per vivere un’esperienza del tutto
diversa. Per una settimana o per un mese ci si mette in gioco, si fa fatica
portando lo zaino di dieci chili sulle spalle – anche se oggi i pulmini
consentono di trasferire i bagagli da una parte all’altra – si accettano le vesciche
sui piedi, si dorme in cameroni con altri cinquanta, sessanta, addirittura
cento (a Roncisvalle) colleghi, iscritti di solito al campionato dei russatori.
Anche qui, c’è da dirlo, ormai molti si portano dietro una buona carta di
credito con la quale si possono aprire porte di alloggi ben più confortevoli
dei comunque suggestivi “ostelli” disseminati un po’ ovunque.
Nel 2005, ai tempi del “mio” primo lungo percorso, erano
molto conosciuti soltanto il “Cammino” di Santiago de Compostela, la Francigena
verso Roma e forse il Cammino di San Francesco tra Umbria e Toscana. Oggi è
diventata una moda, non soltanto decidere di iniziare un cammino, ma anche di
idearlo e proporlo alla massa di sedicenti (nel senso che così amano essere
definiti) pellegrini, viandanti, esploratori, ecologisti e chi più ne ha più ne
metta. A livello europeo, ai classici si sono aggiunti la via Postumia, la Romea
Strata, quelli di San Martino di Tours dall’Ungheria alla Francia, dei Santi Cirillo
e Metodio, il Cammino Celeste – da me e altri amici fondato nel 2006, sicuramente
tra i primi dieci “nuovi” in Italia - la Via Flavia, la Via d’Allemagna, dalla
Germania a Roma, ora la Via della Capitale Europea della Cultura, da Aquileia a
Sveta Gora, solo per citare quelli che hanno a che fare con Aquileia e con il
Friuli Venezia Giulia.
Tutti questi percorsi, qualcuno più qualcuno meno, hanno
sempre più interessato sociologi, filosofi, ma anche operatori turistici ed
economici. Ciò che un tempo sembrava un’eccentricità di pochi, passare le vacanze
camminando o andando in bicicletta, armati di tenda o del coraggio di bussare a
una porta per chiedere ospitalità, oggi è diventata un’opzione sempre più
gettonata, anche grazie alla comprensione di una serie di elementi ovvii: marciare
o pedalare, possibilmente su strade sterrate o comunque poco trafficate, fa
bene alla salute, favorisce la contemplazione della natura e la bellezza degli
incontri con i propri simili, consente abbastanza anche se non troppo di risparmiare,
per chi ha maggiore sensibilità, contribuisce a migliorare la qualità dell’aria
e a combattere i cambiamenti climatici, senza inondare di anidride carbonica il
Pianeta.
Per questo, fiutato l’affare, attorno ai cammini è fiorita
una vera e propria industria turistica che da una parte ha reso possibile la
pubblicizzazione e la diffusione di questo modo ormai non più alternativo di andari
in vacanza, dall’altra ha affievolito l’istanza ideale, avventurosa e
pionieristica dei primi tempi.
Ma, al di là delle opportunità e dell’indotto portato dall’organizzazione
sistematica dei cammini moderni, se ci chiediamo quale sia il motivo del loro
straordinario successo, arriviamo paradossalmente a chiudere il cerchio con le
tesi iniziali. Premesso che questi che chiamo “cammini moderni” sono riservati
a pochissimi privilegiati appartenenti a quel 20% di abitanti del Pianeta che
se lo possono permettere in quanto dotati di sufficienti risorse fisiche ed
economiche, la domanda più profondo è: perché piace “camminare”? perché
utilizzare le ferie in questo modo, dopo un anno di lavoro svolto in condizioni
spesso difficili e stressanti?
La risposta non superficiale è: camminiamo perché desideriamo sopravvivere. Certo, gli eroi del cammino sono i già citati migranti, che lasciano una terra nella quale la vita è diventata impossibile, per donare una prospettiva di sopravvivenza a sé stessi, alle loro famiglie e ai loro popoli. Portano con sé la forza del rischio, la passione per la vita e la convinzione dell’assoluta necessità e per questo fanno paura a chi è sprofondato nelle sicurezze della falsa ricchezza e a chi non crede ad altro che alla necessità difendere la roccaforte sempre più vuota dei propri privilegi. Il pensiero a loro e alla difficoltà che si ha ad accoglierli (come Rstutus che nel IV secolo venendo dall’Africa era stato accolto ad Aquileia “più che dai suoi stessi genitori”), tuttavia ci rimanda anche al perché si decide di smettere per un mese di essere nel tran tran assillante della vita quotidiana per mettersi in gioco sulle ben più comode vie pedonabili o ciclabili dell’Europa. Si cammina perché si vuole cercare – e possibilmente trovare – un senso nella Vita. I pellegrini antichi camminavano per anni per raggiungere la Terra Santa, Compostela o Roma, perché raggiungendo quei luoghi e toccando il sepolcro vuoto e le reliquie di chi aveva visto, sentito e toccato Gesù, trovavano la forza di ritornare a casa completamente trasformati, con un nuovo senso con il quale affrontare la vita. Lo stesso valeva per i pellegrini dell’Islam alla Mecca, dell’ebraismo, finché è stato possibile, al Tempio di Gerusalemme, degli indù alla Kumbamela, alla confluenza tra Gange e Bramaphutra. Lo stesso vale oggi, qualunque sia la motivazione per la quale ci si mette in cammino. Si cerca per sé una storia diversa da quella che si vive ordinariamente, ci si vuole affrancare da quella sottile insoddisfazione che coinvolge tutti coloro che possiedono i beni materiali ma hanno perso la strada verso la felicità. I cammini moderni, con tutta l’opportunità e i limiti che rivestono, sono delle occasioni per scoprire un altro modo di essere. Si affrontano i (piccoli) rischi e disagi del percorso per raggiungere delle mete preordinate, ma con la consapevolezza che la vera meta è il cammino stesso e non la meta. Quella settimana, quel mese trascorsi a 4 chilometri all’ora, nella condivisione con altri esseri umani portatori di diverse lingue, culture, concezioni della vita, correggono lo sguardo sulla realtà, permettono di scoprire nuovi valori, aiutano a ritrovare una risposta ai tanti perché che ogni vita porta con sé. In una parola, aiutano a tornare, almeno per un po’, cambiati nel profondo, a scoprire che sì, forse vale ancora la pena vivere, vale ancora la pena dedicare il proprio tempo e il proprio spazio a generare ancora Vita e a lottare perché la Vita di ogni nostro simile sia piena di dignità, di giustizia e di bellezza.
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