lunedì 7 agosto 2023

Il ponte sulla Drina, ricordando Ivo e Radovan

 

Di solito, quando ci si aspetta molto da un luogo, quando lo si raggiunge si resta un po' delusi, la realtà a volte si presenta meno poetica dell'immaginazione.

Non è così per il ponte sulla Drina, la cui vista, ma soprattutto il cui attraversamento, suscita un'emozione straordinaria.

Sarà per essere stato quasi il punto di arrivo di un meraviglioso viaggio nei Balcani, sarà per aver dormito nella stanza utilizzata da Ivo Andrič per scrivere il suo capolavoro, sarà per tanti altri motivi, i nove archi rispecchiati nell'ampio fiume rimangono inevitabilmente impressi nella memoria.

Certo, la lettura del famoso libro aiuta a comprendere meglio il paesaggio, cominciando dal quasi manzoniano "fiume che esce dalla valle tenebrosa come dal nulla", per passare alla ricerca delle case antiche e delle rovine del caravanserraglio, fino a rivivere le gesta eroiche e tragiche dei vari protagonisti letteralmente dipinti con straordinario acume e straordinaria umanità.

Tuttavia camminando su quelle pietre levigate dal tempo, tentando di interpretare la lapide dedicatoria al "pasha" che l'ha voluto, sedendo sul "divano" insieme alla gente del luogo, non si può che pensare a quanto lo scrittore avrebbe potuto aggiungere, se avesse potuto continuare la sua opera. Oltre alla leggendaria costruzione, all'indescrivibile sorte del guastatore impalato, al passaggio degli eserciti dall'una all'altra sponda, agli eventi internazionali che si sono succeduti mentre il ponte continua a sovrastare il corso d'acqua, alla triste vicenda della promessa sposa che si getta tra i vortici dall'alto per sfuggire a una vita non desiderata, quante altre storie collettive e personali si sarebbero potute scrivere, dagli anni '50 in poi? Il ponte sulla Drina avrebbe visto consolidarsi il sogno federale della Jugoslavija di Tito, il suo dissolversi nella disgregazione degli anni '80, la tragedia delle guerre balcaniche e la frammentazione della Bosnia "a macchia di leopardo", l'avvio di una lenta e difficile ricostruzione della speranza, il nuovo isolamento con il covid, il timido rilancio di un turismo in questo caso culturale e letterario. Si potrebbe aggiungere anche cinematografico, visitando la "città di Andrič", una specie di Portopiccolo di Sistiana in salsa balcanica, voluto e finanziato dal regista Emil Kusturica.

Fatto sta che il "ponte" insegue il visitatore ovunque egli si muova, di giorno e di notte, offrendosi a scatti fotografici come una vamp dello spettacolo, parlando con le parole della storia mentre lo si percorre con un brivido di commozione, penetrando talmente dentro l'anima e l'animo da continuare a sopravvivere, molto tempo dopo aver lasciato la Bosnia, quando gli occhi si chiudono o quando l'inconscio genera sogni avvincenti e incubi paurosi, incastonati nel magico scenario delle sue armoniose arcate.

Sì, sono molti i luoghi simbolo di questo incredibile crocevia di popoli, culture, lingue, caratteri linguistici, religioni, ideologie che è la penisola balcanica. Ma difficilmente se ne può trovare una sintesi più eclatante rispetto al ponte di Višegrad, collegamento tra le sponde del fiume dell'essere, del collettivo e dell'individuale, della guerra e della pace, della capacità umana di costruire e di distruggere, della gioia e del dolore, della bellezza e dell'inquietudine. 

C'è anche lo spazio per un nome, per un incontro personale. Radovan offre il suo servizio, portare una borsa, custodire l'auto, indicare una trattoria nelle vicinanze. E' il custode dei bagni dell'unico albergo della zona, costruito proprio a poche decine di metri dal famoso ponte. Ha 64 anni, è stato gravemente ferito durante la guerra, a metà degli anni '90 e non può svolgere alcun lavoro pesante. Riceve una sessantina di marchi bosniaci (circa 30 euro) ogni mese, come pensione di invalidità. Sopravvive grazie alle mance degli utenti della "tualet" e con grandi sforzi è riuscito a far studiare i quattro figli, tutti diplomati e con un buon lavoro, tre a Belgrado e uno in Russia. Quando parla del ponte, gli occhi si inumidiscono, lo sente come proprio, da giovane è stato il trampolino dal quale si è gettato molte volte nel fiume gareggiando in coraggio con i suoi coetanei. Ha imparato a suonare la chitarra e la fisarmonica e spesso suona alle feste, dei bosniaci serbi e di quelli musulmani. Non odia nessuno, neppure chi gli ha sparato addosso, sente la guerra come un'assoluta assurdità. "L'obiettivo della mia vita è essere cordiale e volere bene a tutti coloro che incontro. Forse per questo tutti vogliono bene a me". Come tanti altri incontrati lungo la via delle ex repubbliche della Jugoslavia, ricorda con nostalgia il tempo in cui si era uniti e non c'erano confini, le persone religiose si rispettavano tra loro e non si combattevano e Tito aveva portato il Paese a una rilevanza internazionale ormai persa per sempre. Adesso la crisi economica, l'inettitudine politica e la corruzione hanno portato a una situazione nella quale "chi ha le gambe per camminare è costretto ad andare via" e le giovani generazioni hanno abbandonato definitivamente la città che oggi sopravvive solo grazie allo scarno turismo. La conclusione della chiacchierata con Radovan è molto "Andričiana": "Da centinaia d'anni il ponte è lì e ha visto migliaia di donne e uomini, amici e nemici, tutti convinti di essere molto importanti e di essere decisivi per le sorti del mondo. Poi sono morti e della quasi totalità di essi ci si è dimenticati. Oggi siamo noi, qui a parlare insieme della mia cittadina e della nostra Europa. Ce ne andremo come loro e il ponte sarà ancora lì a vegliare, stabile sui suoi nove pilastri e forte nell'affrontare le piene del fiume e della storia. Forse nessun altro al mondo lo saprà, ma rimarranno impressi nelle sue pietre anche i nostri sguardi odierni, la gioia di esserci incontrati e di aver potuto pronunciare la parola "amici".

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