domenica 13 agosto 2023

Onorare i disertori e ripensare la nonviolenza

Le guerre, prima o poi, finiscono. 

Ogni Stato è disseminato di monumenti alla memoria, file interminabili di nomi, di fronte ai quali ci si inchina, eroi i propri morti, nemici quelli degli altri. I reduci ritornano trionfanti, alcuni perfino orgogliosi delle ferite riportate e chi li ha inviati nei campi di battaglia e ha raggiunto i propri squallidi obiettivi, se ne frega altamente della loro vita. Meglio onorare i caduti, tanto non possono più parlare.

I vincitori sono eroi, gli sconfitti sono terroristi neutralizzati, salvo repentine riabilitazioni, al rapido mutare delle alleanze e delle relazioni, con conseguente modifica delle lapidi in pietra.

Chi esce dalla trincea - avanti Savoja! - perché non vuole uccidere i propri simili, viene ucciso dai carabinieri che hanno l'ordine di non tollerare la diserzione. Per lui non ci sarà un monumento, neppure lo straccio di un ricordo, migliaia di giovani che hanno preferito morire piuttosto che uccidere, ottenendo in cambio riprovazione e vergogna.

Eppure, in ogni guerra, questi disertori sono quelli che avevano ragione, che con il loro sacrificio dimostravano quanto sarebbe stato molto chiaro alla fine di ogni conflitto. La guerra è un'inutile strage, un'orrenda carneficina, le cui "ragioni" potrebbero benissimo essere risolte con la trattativa e la diplomazia. "Potrebbero", appunto, se non fosse che le vere motivazioni non sono quelle per le quali generazioni di ragazzi vengono inviati periodicamente al macello, ma quelle dei signori dell'economia che giocano con le esistenze altrui.

dio patria e famiglia, rigorosamente scritti con l'iniziale minuscola, sono gli assoluti ai quali i potenti del mondo sacrificano nel sangue i popoli, obbedendo all'insaziabile unica vera loro divinità, l'interesse economico e la gestione del potere.

Sarebbe ora di innalzare i monumenti ai disertori, in particolare della prima guerra mondiale, ai tanti dei quali si conosce il nome e ai tantissimi di cui non si sa più nulla, inghiottiti dalla propaganda e ormai dimenticati. Hanno ritenuto che Dio non potesse chiedere loro di spegnere il dono della Vita, che la Patria non fosse un mattatoio al servizio di pochi potenti e che la Famiglia dovesse essere la culla e non la tomba di ogni esistenza.

Il ponte sulla Neretva a Jablanica
Come direbbe don Milani, c'è un'eccezione e si riferisce alla guerra partigiana. Ha ragione, proprio perché essa ha una caratteristica tutta particolare, almeno nella sua essenza originaria. Non è stata combattuta per difendere una nazione contro un'altra, né per tutelare gli interessi di una parte del mondo rispetto a un'altra. E' stata combattuta per portare al mondo intero la libertà e la giustizia, soffocate dal mostro nazista e fascista. Questo aspetto non è da dimenticare, neppure nelle manifestazioni nelle quali si celebra la Resistenza. Chi ha combattuto il fascismo non l'ha fatto solo per difendere la propria patria, ma per sconfiggere un'ideologia perversa fondata sul razzismo, sul nazionalismo e sulla violenza sistematica. L'antifascismo non è patriottismo, ma internazionalismo della giustizia e della libertà. Per questo occorre essere grati, in questo caso, a chi non ha disertato, ma ha dato la propria vita per difendere e affidare ai posteri tali valori. Questo almeno era l'ideale da cui è partita la lotta all'invasore, come ricordato a Jajce, nella sala dove il 29 novembre 1943 è nata la prospettiva della Jugoslavija e a Jablanica, presso il ponte sulla Neretva, dove i partigiani sono riusciti a salvare i feriti e i malati, resistendo in un'epica battaglia contro le forze numericamente e tecnologicamente superiori degli eserciti italiano e tedesco.

Certo, il loro esempio e quello di molti altri che sono "saliti in montagna", anche in Italia, pone qualche problema alla purezza della proposta della nonviolenza attiva. Il tema è certamente da sviluppare, ma anche negli ambienti pacifisti dovrebbe essere quanto prima affrontato. Certo, io posso scegliere di morire piuttosto che uccidere, di essere ferito piuttosto che ferire, ritenendo questa una strategia vittoriosa, proprio perché fondata sul sacrificio del mio sangue. Ma cosa devo fare quando vedo la violenza esercitata su qualcuno altro, sotto i miei occhi? La resistenza passiva è davvero sostenibile quando il mio mancato intervento non impedisce a qualcuno di far del male a qualcun altro, magari a un bambino inerme e indifeso? E se ci si trova davanti a un dittatore sanguinario che vuole portare folle immense alla rovina, posso fermarlo soltanto con il mio enunciato di principio? 

E' logico che il fine ultimo di ogni azione nonviolenta è portare i contendenti al tavolo della trattativa. Ed è anche logico come non sempre sia chiaro chi sia l'aggressore e chi l'aggredito, in situazioni complesse e cariche di risvolti storici ai più sconosciuti. Così è per esempio nel caso dell'attuale guerra in Ucraina, dove l'invio di armi e l'esplicito sostegno di USA e UE non sostengono una lotta per la giustizia e la libertà, ma rendono possibile il prolungamento di una tragica spirale di estrema violenza, nella quale i due protagonisti principali, Putin e Zelensky, fanno a gara per portare alla rovina russi e ucraini.

In conclusione, questo breve scritto caldeggia due proposte, rivolte in particolare al mondo pacifista: onoriamo i disertori che hanno perso la vita disobbedendo agli ordini impartiti dai rispettivi eserciti; apriamo una profonda discussione sul ruolo della nonviolenza attiva in contesti di grave sopraffazione della vita e della libertà di singoli individui e di interi popoli.

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