Memorie... |
Eserciti invasori sono contrastati dai difensori autoctoni, conflitti planetari seminano morte e distruzione nei più sperduti villaggi fra le montagne, stragi di civili compiute ovunque, con lo scopo di terrorizzare le popolazioni.
Ognuno ha la sua memoria, gli eroi che hanno dato e tolto la vita pur di conquistare, annientare o tutelare i diritti propri e dei propri cari.
Ci sono monumenti con enormi liste di morti, prima guerra mondiale, seconda guerra mondiale, guerre balcaniche, ma si può risalire ai tempi dei romani, dei greci e degli Illiri. Si trovano sempre antiche e nuove testimonianze, una violenza estrema che sembra drammaticamente collegata all'essere "umani" e al voler sopravvivere sopraffacendo l'altro.
C'è qualche possibilità di uscire da questo tunnel oscuro? Ci si può affrancare dalle armi, dal gemito dei feriti, dagli sguardi di innocenti condotti al macello?
Forse due insegnamenti, per quanto inattuati, potrebbero indicare una via alternativa alla guerra. Nel Vangelo Gesù propone la nonviolenza attiva, "se uno ti percuote su una guancia, tu porgigli anche l'altra". Gandhi sostiene la legge del Satyagraha, "meglio e più efficace combattere morendo che uccidendo, essendo ferito che ferire". È una prospettiva affascinante e comprensibile a livello individuale, ma debole in una visione collettiva. Se uno vuole uccidere non te ma i tuoi cari, lo lasci fare in nome della nonviolenza? Se un tiranno distrugge sistematicamente ogni parvenza di libertà, scatena guerre mondiali e crea campi di sterminio, lo lasci fare cercando solo di convincerlo con belle parole? E se un esercito occupa quella che tu consideri tua terra e ti sottopone a ogni sorta di umiliazioni e persecuzioni, come ti devi comportare?
Senza dimenticare che perfino nel nome di Dio e delle parole contenute nei vangeli, si dono perpetuate orrende stragi, musulmani contro cristiani, cristiani contro ebrei, cattolici ortodossi e protestanti tutti contro tutti.
E allora? C'è qualche altra possibilità? Forse, ma il tema è gigantesco e sarà da approfondire, potrebbe cambiare qualcosa se ci si sentisse prima di tutto parte di un'unica meravigliosa affascinante e drammatica umanità. In essa, prima di ogni pretesa identitaria, dovrebbe prevalere il senso di appartenenza alla medesima famiglia umana e le diversità culturali linguistiche e sociali non sarebbero occasione di pretesa superiorità o privilegio, ma ricchezza da condividere fra tutti. Tutto potrebbe procedere da un'immediata constatazione. La Terra è un piccolo pianeta che ruota vorticosamente nell'immenso vuoto che separa gli elementi dell'universo. Ogni suo spazio appartiene a ogni abitante, nessuno escluso e se ci deve essere un'organizzazione non può essere altro che un servizio pieno e totale a tutto ciò che fa parte della Vita.
Già, la Vita. È una realtà straordinaria, il frutto di un'incredibile concatenazione di casualità che ci ha condotto a essere quello che siamo, due miliardi di anni incastonati in ogni nostra cellula, in ogni anfratto della nostra memoria.
Come mai siamo così inclini a soffocare questo dono meraviglioso? Perché la rendiamo così difficile agli altri, pur di raggiungere i nostri meschini scopi? In che modo far sì che il rispetto per la vita prevalga sul gioco effimero e immaginario delle pretese identità?
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