Mentre la parola Afghanistan, come fin troppo facilmente prevedibile, slitta nelle pagine interne dei quotidiani, si parla giustamente di accoglienza delle tante persone che sono fuggite, grazie agli aerei che hanno riportato "a casa" i diplomatici e i militari delle forze d'occupazione.
Oltre a esse, si attende la partenza di decine di migliaia di altri afghani, terrorizzati dal nuovo regime dei Talebani o anche richiamati dai propri congiunti che già si trovano in stato di protezione in qualche luogo dell'Unione Europea.
Riguardo i primi, non dovrebbero esserci problemi nell'inserimento nel tessuto sociale italiano, riguardo i secondi già è scoppiata la guerra di parole tra chi ritiene l'accoglienza un dovere fondamentale e costituzionale e chi invece, spinto da motivazioni sempre più razziste e inquietanti, paventa l'"invasione" degli stranieri.
Sempre in tema di previsioni, mentre per chi cerca di raggiungere a piedi la rotta balcanica si prospettano tempi terribili, come quelli che continuano a vivere da anni i loro predecessori bloccati nei quasi lager della Turchia e delle isole greche oppure nella sempre più affollata e ingovernabile sacca di Bihac, per i nuovi arrivati e per quelli che riusciranno a superare i sistematici respingimenti, si apre la questione dell'integrazione legale.
Per quanto riguarda l'Italia, al momento ci sono due modalità di gestione da parte dello Stato. Da una parte c'è il ricevimento degli ospiti in emergenza, radunati in enormi strutture gestite dalle Prefetture attraverso enti gestori governativi e non governativi. Sono raduni molto grandi, le persone sono ammassate con gravi disagi e le popolazioni circostanti guardano con diffidenza a queste presenze così numericamente consistenti ed evidenti.
L'altro sistema è quello dello SPRAR, che attualmente si chiama SAI (Servizio di Accoglienza e Integrazione). Tale metodo è molto rispettoso delle persone accolte e degli ambienti destinati a tale obiettivo. Gli ospiti vivono in piccoli gruppi, in appartamenti individuati dagli enti gestori e sono aiutati a raggiungere i principali scopi della loro permanenza, cioè l'assunzione lavorativa, il reperimento dell'abitazione e il ricongiungimento familiare. L'ente titolare è il Comune che deve rendersi totalmente responsabile dell'utilizzo dei fondi destinati allo scopo e si avvale della collaborazione concreta di un ente gestore, individuato attraverso regolare gara d'appalto.
In questi giorni il Servizio Centrale del SAI, di competenza del rispettivo Ministero, chiede agli enti titolari (Comuni) la disponibilità ad allargare il numero degli ospiti previsti e propone alla stragrande maggioranza dei Comuni che ancora non hanno aderito, di cogliere l'occasione per iniziare.
Certo, è senz'altro il sistema migliore, ma troppo macchinoso dal punto di vista burocratico e organizzativo, soprattutto quando a volerlo avviare è uno dei tantissimi piccoli Comuni della Penisola. Sarebbe necessario, anche per rispondere con una certa sollecitudine a situazioni di improvvisa emergenza come quella attuale, snellire le procedure burocratiche senza per questo venire meno alla necessità del controllo della spesa pubblica, creare centri competenti - a livello regionale e nazionale - di informazione e accompagnamento dei sindaci e dei funzionari nell'espletamento delle mille pratiche, stabilire una specie di "obbligo" che imponga ai municipi scelte che se condivise da tutti potrebbero essere del tutto sostenibili e precisare meglio i criteri di "qualità" da tenere presenti nell'assegnazione degli appalti.
Ci si augura che le cose vadano proprio così, anche se - torniamo al campo delle previsioni - non c'è da guardare al prossimo futuro con molto ottimismo. La buona volontà manifestata da tanti, forse sulla scia delle terribili immagini televisive delle scorse settimane, non deve essere mortificata da percorsi troppo complessi, dove diversi uffici concorrono fra loro nel rendere complicata la vita lavorativa di politici e tecnici comunali.
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