mercoledì 6 maggio 2020

6 maggio 1976

Verso le 19 il trillo del citofono ci aveva fatto sobbalzare. Avevo 16 anni e frequentavo la I Liceo. Con mio padre stavamo guardando un telegiornale e mia madre stava preparando la cena perché doveva andare a tenere una conferenza presso la sua scuola a Gradisca. Andai a rispondere, aprii la porta e appoggiato alla ringhiera della scala attendevo con una certa curiosità il visitatore, il cui nome non mi aveva suggerito alcun volto. Era un giovane africano, veniva dall'Uganda, inviato da un prozio missionario a salutare i parenti "goriziani". Studiava in Italia la teologia, in quel tempo non era molto frequente incontrare sulla propria strada persone provenienti da altri Continenti. L'accoglienza fu davvero entusiastica, preparammo subito la stanza e poco dopo ci trovammo tutti attorno a una minestra fumante e a una bistecca ben cotta. Mia madre a malincuore ci lasciò, mentre mio padre e io cominciammo a tempestare di domande il nuovo venuto che rispondeva con grande piacere, parlando con un'invidiabile calma che contrastava con il nostro grande desiderio di conoscere.
E arrivarono le 21. C'era un caldo opprimente, tutte le finestre erano aperte ed era evidente la stranezza di un clima che costringeva alle maniche corte già dall'inizio di maggio. Il pavimento della cucina sembrò leggermente sussultare, diedi un'occhiata a mio padre che tradì una leggera sorpresa, mentre Jean continuava serenamente a raccontare della vita ugandese. Dopo una manciata di secondi tutto cominciò a sobbalzare, gli armadi della cucina dondolavano come ubriachi, i piatti cadevano con frastuono dalle mensole, i lampadari oscillavano impazziti. Ci alzammo e senza guardarci indietro percorremmo a tutta velocità le sei rampe di scale e ci trovammo in un batter d'occhio sulla strada, la Via Angiolina, affollata di persone trafelate che avevano avuto la nostra stessa idea. La sensazione era quella di un'impotenza assoluta di fronte a una Natura infinitamente più potente di noi. E Jean? Jean lo ritrovammo una mezz'ora dopo, quando, terminato l'accesso di panico, eravamo risaliti. Stava consumando tranquillamente la sua insalata e alla domanda se non avesse avuto paura, aveva seraficamente risposto che se il suo destino fosse stato quello di morire in quel modo, non avrebbe potuto cambiarlo, tanto valeva finire tranquillamente di mangiare. Verso le 23, rientrata anche mia madre da Gradisca, sono arrivate le prime notizie del disastro che si era verificato nel Medio Friuli. La mattina successiva trovammo la scuola chiusa e, saliti sull'auto di un compagno già diciottenne, andammo più velocemente possibile nella zona terremotata. In quei tempi non esisteva la Protezione Civile e ogni aiuto, nelle prime ore dopo il dramma, era accolto con benevolenza. Incuranti dell'oggettivo pericolo, ci inoltrammo per le vie di Gemona e ci inviarono a trasportare i cadaveri estratti dalle macerie, dalle case a una specie di centro di raccolta. Un silenzio di morte incombeva ovunque, rotto ogni tanto dalle nuove scosse di terremoto che facevano tremare come foglie le case rimaste miracolosamente ancora in piedi. Non avrei mai più dimenticato quelle impressioni, quei giorni di maggio, quella sensazione di una tappa della storia di quella terra e della mia vita: la fine di un'epoca,l'inizio di un'altra, come in effetti poi fu. Questo è stato il mio 6 maggio 1976.

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