domenica 1 novembre 2020

Primo Novembre al tempo della pandemia

Gli alberi perdono le foglie e la Natura sembra avviarsi a una fredda fine. Gli intensi colori di ottobre lasciano il posto al grigiore uniforme dei rami spogli e sui monti al candore della prima neve.

Proprio in questo periodo, mentre le zucche annunciano la fine dell'annata agricola e ci si prepara alle feste del Ringraziamento, nel ricordo di san Martino, da tempo immemorabile gli umani si interrogano sul mistero più inquietante e affascinante della loro breve ed effimera esistenza. Tutto ha un principio e una conclusione? Oppure, come accade a ogni rivoluzione della Terra intorno al Sole, a ogni fine corrisponde un nuovo inizio? Si trovano da qualche parte coloro che abbiamo incontrato e amato? Se sì, esiste un luogo in cui ci ritroveremo e ci riconosceremo in una gioia infinita, dove riceveremo un giudizio di salvezza o di condanna da Qualcuno per i nostri meriti o indipendentemente da essi? Oppure, come nei racconti epici delle "discese" degli eroi, c'è un luogo triste e malinconico dove i fantasmi vagano all'infinito, senza piacere e senza dolore? O, come nell'avvincente rielaborazione del mito di Orfeo e Euridice proposta da Dino Buzzati in chiave moderna, gli inferi sono il luogo della noia eterna, perché in essi non esistono il limite e la paura? Tutto passa per essere assimilato in una Totalità nella quale niente si crea e niente si distrugge ma tutto (apparentemente) si trasforma? Oppure per ritornare a quel Nulla che è paradossalmente l'essenza dell'essere?

Fatto sta che proprio in questi giorni di inizio novembre, in epoca pre-cristiana e nell'emisfero boreale, si celebravano grandi riti, collegati al desiderio ancestrale di sopravvivenza e al sogno di potersi ricongiungere, ameno per una notte autunnale, con le persone care già transitate sull'altra sponda. Innumerevoli sono i segni che ricordano il culto dei morti tra le popolazioni antiche, dai gesti legati alle culture agricole ai sacrifici agli dei protettori, dai racconti più o meno spaventosi di incontri con gli spiriti dell'aldilà alle più piacevoli e gustose tradizioni culinarie, legate alle mille possibilità offerte dalle zucche o ai dolcetti a forma di ossicini che nel Nord Italia vengono chiamate fave o favette.

Tanto erano presenti tali tradizioni da costringere i pontefici cristiani a sconsigliare il ritorno al paganesimo, arrivando, nell'VIII secolo con Papa Gregorio III, a proclamare il Primo Novembre il giorno di Tutti i Santi. Qualche secolo dopo sarà aggiunta, il giorno successivo, la Commemorazione dei fedeli defunti. Con questa scelta di "mettere il cappello" su tradizioni ben precedenti alla diffusione del cristianesimo, si intendeva dare un nuovo significato alla memoria, in un tempo di influenza determinante della struttura religiosa sulla cultura e sulla politica degli imperi. A ben pensare, si tratta del procedimento opposto a quello della postmodernità e della civitas capitalista, con il trionfo di Hallowen (storpiatura di All Saints day) e con il ritorno - fino a un certo punto scherzoso ma anche emblematico di un nuovo modo di pensare - alle concezioni più antiche.

Insomma, quello che suscita questa Giornata è la domanda delle domande e la madre di tutte le paure, ovvero la questione della Morte. Nei meandri culturali del fiume dello strapotere occidentale, la questione continua ad affacciarsi e proprio per questo viene più possibile tacitata o esorcizzata. In meno di venti anni c'è stato un cambiamento profondo e molto poco studiato intorno al rapporto con la corporeità, la cremazione sta rapidamente sostituendo l'inumazione, metodo che consente un evidente prolungamento della memoria dei propri cari "visitati" nei cimiteri, ma che anche suscita maggior orrore rispetto alla più poetica - se così si può dire - trasformazione in cenere o dispersione sulle cime delle montagne, nei fiumi o nei mari. E' un'ulteriore prova di un tentativo di dimenticare la morte o una modalità per riportarla a una considerazione meno drammatica? E' difficile dirlo, quello che diventa sempre più evidente è che il tema superi l'ormai consolidato ostracismo e si ricominci ad affrontare il Limite non come una privazione, ma come una condizione per poter vivere in pienezza ogni istante del proprio cammino. In fondo, qualcuno, contestando il dominio di una tecnica che ha invaso qualsiasi recesso della nostra esistenza, ha scritto che l'unico spazio rimasto di non-conoscenza (e di conseguenza di interesse) è proprio quello che ci fa comprendere la nostra identità come "essere per la morte". Ciò viene detto non per demolire, ma per costruire senso e significato nella vita. E' importante e urgente non trascurarlo, non soffocarlo sotto le cascate di numeri e i torrenti di parole che, nei giorni della pandemia, sembrano voler far dimenticare che "non di solo pane vive l'uomo".

Nessun commento:

Posta un commento