L'ultimo dpcm ha scontentato quasi tutti. Non lo si scrive per mero pregiudizio nei confronti di questo nuovo istituto normativo sul quale, in tempo di conclamata emergenza, si può essere più o meno d'accordo, ma per alcune oggettive constatazioni, riguardo al metodo e al contenuto.
Si è cominciato a parlare del "prossimo" documento lo scorso venerdì, a fronte di un incremento esponenziale dei casi di contagio, del progressivo affollamento degli ospedali e dei primi segnali di crisi delle terapie intensive. Successivamente il Presidente del Consiglio ha incontrato una volta i Parlamentari, prima di immergersi in una trattativa fiume con i presidenti delle Regioni, giungendo a sottoscrivere il testo e a definire i "colori" delle zone mercoledì sera e a farlo entrare in vigore venerdì. In altre parole, con i poteri speciali conferiti, il povero Conte ha lasciato trascorrere un'intera settimana prima di partorire un collage di (poche) proposte accettate e di (molte) evidenti manipolazioni da parte dei più o meno forti rappresentanti delle autonomie regionali.
In questo modo tutti hanno motivo di essere poco soddisfatti. Le quattro regioni dichiarate "rosse" lamentano di essere state eccessivamente penalizzate, le pochissime arancioni sono angosciate dal dilemma se, camminando sul precipizio, cadere nel burrone delle restrizioni pesanti o sul più dolce praticello delle prescrizioni leggere, la maggioranza, cioè le regioni gialle, si lamenta non senza ragione perché le restrizioni sono troppo blande e lasciano di fatto quasi tutte le decisioni agli enti locali se non alle singole persone che si devono districare tra pagine e pagine di decreto.
Inoltre, e ciò non è di poco conto per le conseguenze sul piano del lavoro, delle relazioni affettive e della attività produttive, i "colori" in Europa sono quelli del vestito di Arlecchino, dove ciascun Paese propone la propria lettura in modo completamente differente dagli altri. Per esempio, la Germania e la Slovenia riconoscono come zone rosse quasi tutte le regioni italiane classificate gialle dal governo Conte. Per un eventuale viaggio in Italia dovrebbero quindi ritenere molto pericolose zone ritenute a basso rischio dagli italiani (Toscana, Lazio e Campania, per esempio) e invece molto tranquille zone considerate pericolosissime dal dpcm come per esempio la Sicilia e altre. Ciò induce a porsi serie domande sull'unanimità dei pareri degli scienziati che governano i diversi Paesi e sulla conclamata "unità d'intenti" dell'Unione Europea in tempo di pandemia.
Inserendomi tra i sessanta milioni di potenziali presidenti del consiglio, non mi sembra del tutto azzardato pretendere che siano resi pubblici e manifesti i criteri "oggettivi" (se ci sono) che hanno determinato l'inserimento delle regioni (perché non le zone, dato che in ogni regione spesso si riscontrano situazioni assai diverse?) tra quelle colorate di rosso, di arancione o di giallo. Inoltre, in un consesso internazionale dove sembra possibile prendere decisioni comuni per il bene comune e per i beni comuni delle e dei cittadini, non sarebbe meglio riferirsi a un unico "Comitato Tecnico Scientifico" in grado di offrire un orientamento europeo, da adattare poi, con lievi ritocchi a ciascuna delle situazioni specifiche?
Un ultimo pensiero va a chi si lamenta perché le regioni "bloccano" le proposte del governo centrale. Bene, escludendo i non ancora diciottenni nel 2001, sarebbe bene ricordare che il 64,2% dei votanti italiani ha approvato con un certo entusiasmo la riforma costituzionale che ha introdotto la suddivisione dei poteri concorrenti tra Stato e Regioni, concessione del governo Amato (centro sinistra!) al leghismo del tempo, dalla quale derivano molti dei gravi problemi attuali, soprattutto - e non solo - in materia di sanità.
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