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| Pinzolo, Danza macabra |
Se intendiamo con la parola "santo" un essere riconosciuto come già iscritto nell'albo dei salvati, non ne esiste alcuno sulla faccia della terra. Ciò vale anche per il suo contrario. Potrebbe aver senso che esistano santi e dannati, se la vita non avesse limiti. Essendo invece evidentemente condizionata da un inizio e da una fine, nessun uomo può raggiungere vertici di bontà o di cattiveria talmente trascendenti le categorie esistenziali da meritare un premio o un castigo eterno. Meglio allora rassegnarsi a una certa "mediocritas", condizionata dagli ambienti e dai contesti in cui si vive, che favoriscono il realizzarsi di modelli di umanità più o meno affascinanti o riprovevoli. E immaginare i "santi", in linea con la chiesa dei primi secoli, semplicemente come "appartenenti" alla comunità dei cristiani o meglio, diremmo oggi, alla famiglia degli umani e più in generale ancora, dei viventi. Allora sì, oggi è la festa di tutti, proprio di tutti i santi, ancora in cammino sulla terra o già passati al di là dell'ostacolo definitivo. E domani, due novembre, si metterà a tema proprio quel muro misterioso, frontiera tra l'al di qua e l'al di là. Ecco di seguito una breve riflessione sul tema, tratta dal settimanale Novi Matajur. (ab)
Dagli alberi cadono le foglie, le giornate sono sempre meno
illuminate dal Sole, si accendono i colori dell’autunno, ultimo sussulto di
bellezza prima della pausa invernale. E’ un periodo che ha sempre impressionato
l’homo sapiens, che ha dedicato questi giorni a un particolare e malinconico
pensiero. Insieme al tramonto della Natura si ricordava il tramonto della vita,
si dava forma al desiderio di incontrarsi di nuovo con i morti, si celebravano
riti propiziatori di passaggio. Queste usanze erano talmente radicate che papa
Bonifacio IV, agli albori del VII secolo, istituì la festa di “Ognissanti” e
Gregorio III (metà VIII secolo) la stabilì definitivamente il Primo Novembre. A
essa si unì ben presto la Commemorazione del 2 novembre, dedicata a tutti i fedeli
defunti. La tradizione precristana continua a vivere sotto diversa forma, ma
con identica sostanza: la tristezza per la fine, la consolazione del rito, il
desiderio della compagnia di chi ci ha preceduto. In un modo o nell’altro, lo
stesso Halloween - non a caso richiamo in inglese americano a “tutti i santi” -
porta una ventata di contemporaneità a miti e valori la cui origine è fissata
dagli antropologi nella notte dei tempi.
In fondo, tutto ciò porta a una semplice, ma drammatica
constatazione. Che cosa accomuna ogni essere umano, anzi ogni vivente? La
morte. Da Gil Gamesh che nel primo Fantasy della storia percorre monti e mari
per trovare le fonti dell’immortalità ai sillogismi aristotelici, dagli appelli
dei padri della chiesa alle suggestioni dell’Oriente, dai Sepolcri del Foscolo
alla meditazione sull’essenza dell’essere di Heidegger, dalle danze macabre ai trionfi della morte rinascimentali... è sempre dominante il
tema del confine dei confini, della madre di tutte le paure, quella che
condiziona tutte le altre. Ogni perdita è un piccolo o grande riflesso della
fine della vita, del timore di quell’apparente “ni-ente” che contraddice così
clamorosamente la consapevolezza dell’”ente”. Si è di fronte a ciò che non può
essere pensato, perché sfugge alle categorie dello spazio e del tempo, le
uniche attraverso le quali siamo in grado di rappresentare la realtà. La morte
sfugge al controllo della ragione, è una porta verso l’ignoto, o forse una
finestra aperta sull’infinito o semplicemente la fine di tutto. Questo spazio
di non conoscenza le consente di sfuggire all’invasione della tecnica, alla
strumentalizzazione della coscienza, alle pretese incontrollabili del sapere.
In un momento nel quale siamo in grado, premendo lievemente su un tasto, di
ricevere miliardi di informazioni su qualsiasi remota piega dell’esistente, la
morte si para davanti a ciascuno di noi come l’assoluto in-comprensibile,
temuta dagli opulenti viaggiatori della postmodernità, desiderata da chi -
piegato dalla miseria, dalla sofferenza o dalla disperazione, non trova un
motivo sufficiente per continuare a vivere.
Ecco allora l’auspicio, nella più classica delle feste autunnali. Se tutti ci aspetta quella che Francesco chiamava “sorella”, perché non dedicare ogni istante a far sì che ogni vivente possa gustare ogni frammento della sua esistenza, nella gioia della solidarietà e dell’amore?

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