Gran parte delle condizioni che ci caratterizzano sono frutto della fantasia dell’essere umano. Basti pensare agli elementi che costituiscono la nostra cosiddetta identità. Cosa significa essere italiano, sloveno, friulano, ucraino, russo, come pure cristiano, musulmano, buddhista, se non sentirsi appartenente a un contesto culturale, i cui miti, riti e valori morali sono tutti “inventati” dall’uomo?
Sui muri di Riace
Che cos’è che ci accomuna naturalmente, in quanto parte non soltanto della famiglia umana, ma anche di quella ben più vasta dei viventi? La risposta è: il dolore.
In battaglia ci si scanna per difendere una bandiera, frammentario e momentaneo emblema di un’appartenenza del tutto fittizia. Ma la ferita provocata dalla baionetta, dal cannone o dalla bomba genera una sofferenza che accomuna vincitori e vinti, assalitori e assaltati, umani, animali e anche vegetali. Il dolore è reale, non inventato dalla fantasia e rende tutti congiunti, vittime e carnefici, colpiti dalle armi o dalle più o meno prevedibili catastrofi della Natura.
Questa constatazione potrebbe essere densa di conseguenze. La prima viene proposta dalle vie dell’Oriente. Se si è tutti collegati, interconnessi e uniti nell’immenso legame che si chiama vita, lo sguardo sull’altro non può che essere quello della com-passione, la compartecipazione attiva alla sofferenza universale. Da ciò deriva anche il fondamento filosofico del Satyagraha, la nonviolenza attiva proposta da Gandhi, l’obbligo etico di non generare altro dolore e di chinarsi amorevolmente su quello già esistente. Ciò potrebbe indebolire la forza dell'indignazione, potrebbe dare ancora maggior spazio alla prevaricazione del prepotente? La nonviolenza non potrebbe addirittura incrementare i progetti perversi dei violenti? Se lo chiedeva anche uno dei più grandi pacifisti del XX secolo, Dietrich Bonhoeffer, che decise di contraddire il suo stesso progetto di vita partecipando all'attentato a Hitler. Sono domande drammatiche. E’ profondamente umano lasciarsi picchiare guardando negli occhi l’offensore che esercitare la propria forza fisica per fargli del male. Ed è vero che l’indignazione per l’ingiustizia possono trasformarsi in azione concreta di risposta all’odio con l’amore e alla vendetta con il perdono. Ma quando è in gioco il destino degli altri, siano essi persona indifesa vilmente attaccata o intera popolazione minacciata di genocidio, è ancora lecito trincerarsi dietro alla nobile causa della nonviolenza? E' sufficiente invocare un boicottaggio quando l'offensore dispone della bomba atomica (se lo chiedeva del resto lo stesso Gandhi nel suo testo Antiche come le montagne)?
Forse una via di risposta può essere individuata nel concetto di memoria. La scelta dell'istante non può prescindere dal grado di ingiustizia e di sopraffazione. La risposta nonviolenta non sta forse nell'utilizzo o meno degli strumenti che possono impedire l'aggravarsi di una catastrofe, bensì nella motivazione che spinge alla Resistenza nei confronti dell'oppressore. L'esempio della Lotta per la Liberazione dal nazifascismo è l'esempio più eclatante, in quanto determinata dalla disponibilità a perdere la propria vita per il bene e la libertà di tutti. In un certo senso, si può affrontare l'avversario violento, razzista, guerrafondaio, mossi da un sentimento di amore nei confronti di ogni oppresso, paradossalmente anche di colui che si combatte, rinchiuso nella tomba di un'ideologia perversa.
Il nostro territorio di confine ha sperimentato più volte quanto tutto questo sia vero. E’ impossibile condividere il ricordo di tanti eventi accaduti, troppo grande è la sofferenza individuale e collettiva generata dagli eventi che hanno caratterizzato il XX secolo. Nell'ottica della nonviolenza il giudizio storico sulla prevaricazione fascista e nazista rimane, ma è tuttavia possibile conoscere e rispettare il dolore. In questa profonda compartecipazione del dolore, diventa possibile accogliere con rigore razionale la ricerca di oggettività del dato storico e nel contempo l’emozione soggettiva di chi nei conflitti ha perso figli, genitori, fratelli e amici. Il dato storico orienta senza tentennamenti all'esplicito rifiuto delle azioni di chi ha provocato tanto male (giusto per fare un esempio, la necessaria rimozione della cittadinanza onoraria a Mussolini o il rigetto della richiesta di accoglienza dei reduci della Decima mas in Municipio). Il rispetto per il dolore dell'altro depriva il dato storico e le sue conseguenz3 della componente dell'odio e del desiderio di vendetta.
Tutto ciò non risolve i problemi e neppure i giudizi sull’evolversi della storia. Il fascismo resta un crimine e non un’opinione, comunque lo si chiami, il genocidio di Gaza grida giustizia al cospetto dell’intera umanità e chi lo consente o addirittura promuove è un criminale. Ma la compartecipazione all’universale dolore umano è soltanto un primo passo, autenticamente rivoluzionario. Davanti ai corpi straziati seminati ovunque da un’enorme violenza, si può invertire la rotta soltanto riconoscendo l’immensa, comune sofferenza. La com-passione da una parte non censura l'ingiustizia, dall'altra non genera la rappresaglia, ma la ricerca dell’accordo e del negoziato, affinché la vita possa prevalere sulla morte.
E’ la basagliana “utopia della realtà”?
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