Durante gli anni '90 del secolo scorso, iniziò a serpeggiare in Friuli Venezia Giulia una brutta parola, riguardante gli interventi in campo sanitario: aziendalizzazione.
Le unità sanitarie distrettuali diventavano "aziende" diffuse sul territorio regionale, finalizzate all'offerta di "servizi" ai cittadini nell'ambito appunto della sanità.
Qualcuno per la verità aveva espresso dei dubbi riguardo alla trasformazione di simili strutture in realtà destinate alla realizzazioni di utili, stante che al centro di ogni intervento in questo orizzonte dovrebbe essere praticamente in esclusiva la "salute fisica e psichica" delle persone.
Era stato assicurato che una miglior gestione economico-finanziaria avrebbe senz'altro favorito la serenità e l'efficacia delle prestazioni. Inoltre si era fortemente sottolineato come una maggior decentralizzazione (leggi depotenziamento delle strutture ospedaliere) avrebbe permesso di realizzare un'ottima attività di azione sul territorio, consentendo quindi agli "utenti" un migliore e più capillare servizio.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. A parte alcune lodevolissime esperienze, come quelle dell'"infermiera/e di comunità" nella Bassa Friulana e il quasi eroico impegno del personale dell'Assistenza domiciliare integrata, gli ospedali sono risultati effettivamente depotenziati e il personale dedito al territorio è talmente scarso da rendere purtroppo irrilevante tale preziosissimo servizio, soprattutto quando si parla di patologie importanti e comunque facilmente sostenibili anche a domicilio.
Si aggiunga la più volte richiamata assenza sempre più rave dei medici di medicina generale. Intere zone ne sono ormai del tutto privati, i pazienti sono indirizzati al Pronto soccorso che così viene ancora più intasato di quanto già non lo sia normalmente, dove si sentono quasi rimproverare per "non essersi recati prima presso l'(inesistente) medico di base".
Dopo oltre venti anni, l'aziendalizzazione - o più ingenerale l'intervento politico regionale in ambito sanitario - si rivela molto poco efficace per realizzare l'obiettivo primario della valorizzazione della sanità pubblica e i bilanci sempre più ristretti non lasciano prevedere nulla di particolarmente incoraggiante. La stessa esperienza pandemica, con la risposta d'emergenza affidata molto poco alla cura ordinaria e sostanzialmente nel primo periodo quasi solo al ricorso sistematico e tardivo alla terapia intensiva, dimostra l'esautorazione dei medici di medicina generale, ridotti praticamente spesso a ufficio informazioni telefoniche e non punti di riferimento preminenti per l'intervento terapeutico.
Tutto ciò che sta accadendo, con il contestuale e crescente malcontento della popolazione, porterà inevitabilmente alla privatizzazione sistematica? Si tornerà - o si è già a questo punto - a un welfare classista che favorisca i ricchi e penalizzi i poveri? Il modello Lombardia, con le conseguenze che abbiamo constatato nella primavera del lockdown, è quello verso il quale ci dirigiamo?
Tanti protestano e chiedono interventi drastici per impedire questa deriva. Ma cosa si può fare, ci si chiede? In realtà l'unico strumento di cambiamento è in mano a ogni cittadina e cittadino. E' una matita che serve per segnare con una crocetta la scheda elettorale. Sì perché tutto ciò che accade non dipende dal destino cinico e baro, ma da precise scelte Politiche che conducono il vapore, da una parte o dall'altra della barricata. quelle che hanno portato alla situazione attuale, iniziata proprio con l'aziendalizzazione, sono firmate da precisi nomi e cognomi.
Lo si ricordi bene! Ogni disimpegno o impegno poco consapevole, significa lasciare agli altri il compito di decidere. Prima che resti solo il mugugno, occorre prendere in mano la situazione e decidere di esserci, se non con altro, almeno con il proprio voto.
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