Ciò che sta accadendo in Afghanistan suscita grande preoccupazione e perplessità, anche per il rapidissimo svolgimento degli eventi che hanno portato in pochissimi giorni (vedi qui post del 9 agosto) l'universo mediatico da un sostanziale disinteresse a un vero e proprio diluvio di "notizie". Il virgolettato è d'obbligo, dal momento che è molto difficile discernere cosa ci sia di vero e di falso nelle parole e nelle immagini che si stanno riversando nelle nostre case.
E' interessante notare l'assenza quasi completa di proposte.
I tanti che hanno sostenuto Bush e l'intervento militare seguito all'attentato dell'11 settembre - la stragrande maggioranza tra i rappresentanti delle forze politiche in parlamento nel 2001-2002 - ora smarriti scoprono l'acqua calda, cioè che "la democrazia non si esporta con le armi". E non sapendo cosa dire rispetto alla situazione che si è contribuito decisamente a creare, si preoccupano di "salvare" almeno le persone che hanno collaborato con le forze militari in campo. Tra essi ci sono ovviamente quelli più aperti che premono (nei confronti di chi, non si capisce bene) perché si aprano i "corridoi umanitari". E ci sono anche i soliti razzisti, il cui timore esplicito è che ci sia una nuova "invasione" di richiedenti asilo, fingendo di non sapere che l'Unione Europea investirà qualche miliardo in più di euro per finanziare la Turchia e le isole greche con i loro campi di concentramento che fungono da "filtro" a salvaguardia degli interessi occidentali.
I pochi - tra essi senza alcuna soddisfazione posso iscrivermi, ricordando gli editoriali su Voce Isontina di quell'ormai lontano periodo - che avevano "azzeccato" la peraltro facile previsione su come sarebbe andata a finire, tendono a fermarsi all'antipatico "Lo avevamo detto noi", senza però procedere, adesso come allora, a qualche proposta alternativa.
Gli uni e gli altri cercano di evitare di rispondere alla domanda cruciale: e quindi? Quindi che cosa si sarebbe dovuto fare venti anni fa? Quindi cosa si dovrebbe fare adesso?
La conquista di Kabul non strappò che una piccola parte di Afghanistan alle guide religiose, esse continuarono più o meno tranquillamente la loro azione nel resto del Paese. Ora, dopo evidenti accordi di salvaguardia degli interessi delle Nazioni più esposte, i Talebani riprendono in mano l'intero Paese. Chi voleva l'intervento "per salvare la democrazia, per dare la libertà alle donne, per eliminare il burka... e via dicendo", ora cosa propone? Ritornare sui propri passi e riproporre un altro intervento militare? Lo stesso Biden, nel suo discorso, ha ragionevolmente sollevato il dubbio sul senso del rimanere in eterno con un esercito di occupazione in un Paese straniero. Accettare supinamente che i Talebani creino uno Stato non riconosciuto se non da pochissimi altri Paesi. dove far crescere germi terroristici o spazi di strumentalizzazione da parte di Nazioni interessate al controllo dei punti strategici del Pianeta (vedi Russia per esempio)? E cosa propone chi non voleva l'intervento e ora si esprime con giusta preoccupazione nei confronti delle persone, soprattutto delle donne, lasciate sole in un territorio dominato dai nemici delle libertà individuali? Come fare a "convincere" i Talebani a non esercitare violenza nei confronti di chi li ha osteggiati negli anni precedenti o di chi si rifiuta di sottostare alle leggi del fondamentalismo islamico? Prima di rispondere, c'è un dato da non dimenticare. E' facile attribuire "ai Talebani" ogni proposito di governo medievale e liberticida. Tuttavia senza il consenso delle masse, sarebbe inspiegabile l'avanzata trionfale - rallentata da una minima difesa territoriale - dell'esercito dei religiosi. Sarebbe pericoloso ritenere che una minima minoranza riesca a tenere in scacco una nazione intera. Ovviamente con metodi coercitivi e massificanti (ma non enormemente diversi da quelli che consentono la creazione del consenso, politico o fino a non molto tempo fa anche religioso, in quelle che chiamiamo democrazie), i seguaci dei Talebani sono tanti e ritengono che i veri nemici siano gli "occidentali" e chi collabora con essi.
E allora? Allora, obtorto collo o con convinzione, è indispensabile riconoscere che esistono solo due risposte alle pressanti domande del momento.
La prima è l'accoglienza illimitata di coloro che fuggono, creando ponti aerei o corridoi autonomi che consentano a chiunque lo ritenga necessario di andarsene da un luogo in cui la vita è minacciata. Occorre anche favorire l'espatrio e l'integrazione dei familiari di coloro che sono venuti in Europa negli ultimi anni, accelerando e facilitando tutte le pratiche relative ai ricongiungimenti familiari e alla concessione del diritto d'asilo. E' inimmaginabile la sofferenza di chi ha lasciato in Afghanistan i propri cari, ora non ha più notizie di loro e si attende da parte delle autorità italiane ed europee aiuto e comprensione.
La seconda è il riconoscimento e il dialogo con i Talebani. Solo riconoscendo l'interlocutore, è possibile un confronto che potrebbe - sottolineando il "potrebbe" - consentire alcuni auspicati accordi, relativi alle garanzie dei diritti universali delle persone, al rispetto della dignità della donna, al rifiuto della violenza come strumento di azione politica, all'accettazione di regole chiare riguardanti i permessi di espatrio per gli oppositori del nuovo regime che li richiedono. Certo, stare attorno a uno stesso tavolo implica una sorta di previo riconoscimento dello status quo, con tutto ciò che esso comporta. Ma, pensandoci bene ed evitando slogan triti e ritriti sui quali in teoria nessuno che abbia un poì di senno potrebbe dissentire, quale alternativa al dialogo se non quella, già per fortuna esclusa, di riprendere e continuare una guerra che mieterebbe altre centinaia di migliaia di vittime, senza risolvere assolutamente nulla?
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