C’era aria di festa a Betlemme. Tutti i caravanserragli
erano occupati dalle famiglie che dalla Galilea erano scesi a Gerusalemme per
registrarsi in occasione del censimento voluto da Quirinio. Gli albergatori si
fregavano le mani dalla contentezza, osservando le carovane che giungevano
nella Capitale, fuori dall’ordinaria stagione dei pellegrinaggi.
I pastori portavano i loro prodotti, vendendo ai passanti
latte e gustosi formaggi. C’era una strana luce che creava un’atmosfera magica,
al punto che nessuno si preoccupava del freddo pungente. Gli animali scorrazzavano
liberamente per il villaggio, alla ricerca di mangiatoie dove ricavare qualche
scampolo di fieno. A volte le trovavano occupate dai neonati, dolcemente
collocati sulla paglia, ma non sembravano affatto disturbati, anzi,
mangiucchiando un po’ di qua e un po’ di là, i buoi e gli asini affamati regalavano
qualche alito di calore ai piccoli piangenti.
In una sgangherata casa, affacciata sulla piazza centrale, Rachele
stava per partorire. Tutti si agitavano. Il marito, talmente vecchio da aver
suscitato qualche pettegolezzo, appoggiato al suo bastone correva avanti e
indietro non sapendo evidentemente cosa fare. Gli altri bambini avevano voglia
di giocare e non capivano tutto quel trambusto. L’unica che sembrava tranquilla
era la levatrice. Con gesti guidati dalla lunga esperienza, stava vicina alla
donna, la incoraggiava e le raccontava storie mirabolanti. Tra l’altro, diceva
che, nella vicina stalla, aveva aiutato una certa Miriam a partorire. Era
arrivata con il marito da Nazareth, “anche lui di una certa età” – aveva rimarcato
con un sorriso un po’ malizioso. C’erano un aspetto strano e un altro bello in
quell’esperienza. Strana era l’estrema facilità del parto, anche l’integrità
del corpo, qualcosa che lei, in tanti anni di esperienza, non aveva mai visto.
Bella, ma in questo caso non eccezionale, era la serenità degli sposi, non possedevano
praticamente nulla, ma si sentivano come dei principi. Avevano dato al bambino
un nome importante, Joshua. Affascinata dalla comunicazione simpatica della
levatrice, Rachele pensò con una certa invidia a quella Miriam e così, quasi
senza accorgersene, diede alla luce il figlio e lo depose su una coperta piena bucherellata.
Lo chiamò subito per nome: “Jacob, che tu sia benedetto da Adonaj!”
La levatrice, che si chiamava Salome, si affacciò all’uscio
e subito una scena attrasse la su attenzione. Miriam aveva il bambino in
braccio e Joseph – così si chiamava il compagno di strada – conduceva un asino carico
di vivande, evidentemente procurate dai pastori. Avevano imboccato la strada
del Sud, verso l’Egitto. “Che incoscienza, mettersi in viaggio in questo modo,
con una creatura appena nata. Per di più senza aver fatto il proprio dovere con
il censimento!” – disse, rivolta a Rachele alquanto incuriosita.
La spiegazione di quella repentina partenza non tardò ad
arrivare. “I soldati, i soldati” – si sentiva urlare dappertutto – “cercano il
re di Israele”. Non ci fu quasi il tempo di accorgersene o di chiedersi chi
cavolo fosse questo re di Israele. A Salome, chissà perché, venne in mente il
piccolo Joshua e cercò di reprimere un moto di rabbia. Centinaia di energumeni –
elmo in testa, spade ultimo modello – entravano in tutte le case, puntando
direttamente ai bambini, quelli nati negli ultimi tre nati. Li strappavano
dalle braccia delle madri terrorizzate e, sghignazzando, fendevano l’aria con le
lame affilate. Scorreva sangue dappertutto, le testoline rotolavano negli scarichi
delle case, le braccia venivano scagliate fin sui tetti, le mamme che si
ribellavano venivano trapassate senza pietà. Gli uomini venivano legati gli uni
agli altri e gettati in un deposito di letame, poco fuori dalla porta del paese.
Rachele, sopravvissuta al massacro, guardava e piangeva. Piangeva i suoi figli e non voleva essere consolata.

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