Aquileia, Giona rigettato dal pesce (inizio IV secolo) |
Una delle possibili etimologie della parola “pasqua” deriva
dall’ebraico “pesach” che significa “passaggio”.
Gli ebrei vivono una situazione drammatica in terra
d’Egitto, ridotti alla schiavitù dal faraone di turno. La loro condizione
sembra disperata e irrisolvibile. Il libro biblico dell’Esodo racconta una
storia inattesa, un intervento del trascendente consente loro di “passare”
attraverso le acque del mar Rosso e il deserto, per raggiungere la terra
promessa.
Cosa c’è dietro a questo racconto che porta tutte le
caratteristiche di un mito fondatore della coscienza identitaria del popolo
ebraico? C’è una storia di sofferenza, di ribellione, di resistenza, di
liberazione, di oppressione. Come ogni vicenda umana, come ogni esperienza di
popolo. La “pasqua” è la rilettura teologica degli avvenimenti quotidiani, una specie
di fuga dall’ordinarietà della classica successione schiavitù, liberazione, nuova
oppressione che sembra caratterizzare ogni autentica rivoluzione. E’ il
riconoscimento dell’assoluta e non derogabile responsabilità individuale e
collettiva relativa all’andamento del mondo. Ma è anche una possibile apertura
fiduciale nei confronti di un possibile “senso della storia” che in ogni caso
può essere attinto esclusivamente nella dimensione della fede.
Tanto più questo è vero, se ci si riferisce alla prima
pasqua cristiana. Il “passaggio” in questo caso è ancora più sconvolgente,
riferendosi alla madre di tutte le paure, quella della morte. I vangeli narrano
la vicenda con un linguaggio molto profondo, dove il “prima” del Gesù storico è
chiaramente distinto dal “dopo” del Cristo della fede, per usare un’espressione
celebre del teologo Rudolf Bultmann. La vita pubblica, la sofferenza e la morte
di Gesù fanno parte dell’orizzonte della ragione. Sono quanto di più reale ci
possa essere, il fascino di una condivisione dell’umano che coinvolge anche il
momento supremo della fine. E’ un assassinio in piena regola, perpetrato dai
capi religiosi e militari del momento. Lo si può studiare, analizzare, perfino
provare con le documentazioni letterarie e archeologiche che arricchiscono di
giorno in giorno la conoscenza. La risurrezione è “un altro mondo possibile”,
un evento che non riguarda l’al di là, ma il modo di essere in “questa”
vicenda. E’ un’altra storia che si nasconde (o si rivela) in questa storia.
L’una è irriducibile all’altra, la morte nasconde la vita, ma non ne può
disporre.
Ecco allora l’annuncio pasquale che per sua stessa indole è
universale, non certamente limitato alla sola dimensione della fede credente,
meno ancora a una specifica forma religiosa. La risurrezione afferma la
possibilità dell’inattesa vittoria della Vita sulla morte, in una prospettiva
che è contemporaneamente immanente e trascendente. E’ immanente, perché non
toglie neppure un minimo segno alla scelta umana di costruire pace piuttosto
che guerra, perdono invece che vendetta, amore e non odio, tutti termini da
considerare anche nella loro essenziale ambiguità e non immediata
traducibilità. E’ trascendente, perché apre una nuova possibilità in una nuova
dimensione che coinvolge l’essere in un’altra storia. In altre parole, si può
vivere da risorti in questa vita, così come si può vivere da morti pur essendo
vivi.
Forse è un altro modo per dire ciò che proponeva Carlo
Michelstaedter, parlando di persuasione e rettorica. Si tratta dal passare
dalla dimenticanza all’essere pienamente se stessi, con tutta la drammaticità
che questa scelta comporta. “Passare”, appunto, dalla morte alla vita.
Che sia una Buona Pasqua allora, per il mondo intero!
Un augurio di Buona Pasqua anche a Monfalcone che sta attraversando questo passaggio. Auguri Andrea
RispondiEliminaBuona Pasqua
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