martedì 3 marzo 2020
Nuvole oscure all'orizzonte, una nuova marcia nei Balcani?
Il tema che occuperà i media dopo il già calante (nell'interesse generale) virus, sarà l'arrivo di milioni di profughi dalla rinascente rotta balcanica. Le incredibili condizioni di Lesbo Samos o Bihac le conosciamo. Ora Erdogan minaccia e prova l'apertura delle frontiere con la Grecia. E il resto d'Europa che fa? Si prepara con qualche proposta concreta da tenere a disposizione nell'urgenza (tendopoli, sinergia fra enti e associazioni, ecc.)? E superata l'emergenza? Saranno tenute in conto le municipalità e l'accoglienza diffusa? I piccoli sprar sono stati modello sui tavoli governativi di Albania Macedonia e Montenegro, prima della cancellazione di tutto attraverso i fascisti decreti sicurezza... C'è da temere che la seminagione di paure possa portare un'abbondante raccolto di consensi a una Destra sempre più disumana e razzista. E intanto i bambini muoiono nell'Egeo, Lesbo e Samos (8000 esseri umani in un campo preparato per 800!) stanno urlando un'immane giustizia al mondo, a Velika Kladuša decine di migliaia di persone attendono invano un passaggio di confine dal quale hanno finora ricevuto solo pestaggi e persecuzioni, sui confini della Grecia si spara e si rovesciano gommoni pieni di poveri, donne, bambini, uomini disperati. E su tutto sembra dominare la nuvola oscura dell'impotenza, mentre sembra prepararsi una nuova immensa marcia della morte, un fiume umano che risalirà con grande fatica i Balcani per essere arginato dalle dighe costituite dalle frontiere dell'opulenta Comunità Europea.. Ma questa volta non ci sarà Erdogan che in cambio di milioni di euro rinchiuderà i profughi nei suoi campi di concentramento e non ci saranno i trafficanti libici a lucrare sulle inefficienze degli Stati. che accadrà?
Dunque, dove eravamo rimasti?
Questo è l'antico e nuovo blog di Andrea Bellavite, in esso si trovano opinioni personali e riflessioni collettive, un piccolo contributo al dibattito in un momento drammatico e interessante della vita dell'Europa e del mondo. Auguro agli eventuali 2,5 lettori un'inquieta pace, un'indignazione nonviolenta, una misericordiosa giustizia. Buona lettura...
domenica 5 maggio 2019
No al trasferimento dei richiedenti asilo alla Cavarzerani di Udine
Gli effetti del Decreto cosiddetto Salvini si stanno facendo sentire ovunque. Ma in questi giorni il punto più "caldo" è Udine, dove le persone ospitate da mesi presso le strutture delle ottime associazioni locali stanno per essere trasferite presso la caserma Cavarzerani, certamente inadatta ad accogliere donne, bambini, malati e disabili. La situazione è davvero difficile, tenendo conto che finora i richiedenti asilo sono stati aiutati ad affrontare in modo sereno il percorso di inserimento nella società italiana. Con le nuove regole e con i nuovi limiti di finanziamento previsti dai recenti decreti legislativi, è accaduto proprio quello che si era previsto. Hanno infatti fiutato l'affare le vere realtà a scopo di lucro, le quali a costi molto limitati (per loro) offriranno un servizio alquanto penalizzante nei confronti di tutti, ma insostenibile per i soggetti cosiddetti vulnerabili. In altre parole, si abbandona una strada che ha prodotto buoni frutti per incamminarsi su un'altra che da subito genera tristezza, rabbia e senso di ingiusto abbandono, tra breve tempo anche conseguenze economiche e sociali di grande portata. Le questioni sollevate da chi ha seminato timori fra la gente invocando una mai avvenuta invasione di profughi, sono state essenzialmente quattro: il mancato controllo, la scarsa integrazione, i costi elevati e la "speculazione" delle organizzazioni umanitarie. La legge "in-sicurezza" riesce a centrare tutti gli obiettivi, togliendo ogni possibilità di controllo impedendo l'iscrizione anagrafica dei nuovi arrivati, rendendo impossibile l'integrazione e cancellando l'esperienza di legame con il territorio caratteristica del sistema sprar e di alcuni cas, creando megastrutture che richiedono investimenti ben più impegnativi dei precedenti e dando in mano a pochi consorzi che se lo possono permettere e non trovano ciò immorale una gestione improntata al principio del massimo profitto con il minimo sforzo. Per tutto ciò è necessario intervenire per fermare dall'inizio quella che potrebbe trasformarsi nei prossimi tempi in una vera e propria deportazione. Solo un'azione concordata fra società civile, politica e cultura può realizzare questo obiettivo e cercare di invertire una rotta che ci sta portando verso la completa e preoccupante disumanità. E vincere a Udine potrebbe essere il primo passo.
In memoria di Lojzka Bratuž
Lojzka Bratuž è stata una donna straordinaria che ha contribuito in modo determinante alla crescita culturale di Gorizia/Gorica. Per tutti, non solo per la comunità slovena e per il mondo cattolico da lei delicatamente e saggiamente rappresentati, la sua scomparsa è motivo di tristezza e di memoria. Figlia del martire Lojze Bratuž, ucciso in modo tremendo dai fascisti e dell'insigne poetessa Ljubka Šorli, Lojzka Bratuž ha dedicato la sua vita alla diffusione della conoscenza della cultura slovena, in particolare nel Goriziano. Insieme al fratello Andrej, per lunghi anni direttore prima del settimanale Katoliški Glas e poi del Novi Glas, è stata un grande punto di riferimento per tutti coloro che desiderano un territorio goriziano unito nella valorizzazione delle sue diversità, linguistiche e culturali.
lunedì 18 settembre 2017
L'ordine delle cose
L'ordine delle cose, di Andrea Segre, è un film complesso nel quale si incrociano diversi approcci. L'elemento dominante è la crisi del protagonista che si trova a fare i conti con una situazione drammatica provocata di fatto dai suoi stessi successi professionali. L'elemento psicologico è trattato molto bene, con la sottolineatura dei particolari stati d'animo che si succedono man mano che la vicenda si svolge.
Le domande interiori, riportabili ma solo in parte al rapporto tra ragione di Stato e coscienza individuale, si dipanano all'interno di una specifica situazione geopolitica - la Libia del dopo Gheddafi e l'Italia del pd renziano - e sociale - l'intensificazione dei movimenti migratori attraverso il Mediterraneo. La descrizione degli eventi risulta quasi profetica, dal momento che la fiction è stata superata dalla realtà proprio nei giorni dell'"uscita" del film nelle sale. Sembra infatti descritto l'antefatto dell'accordo Minniti, sottoscritto con il governo libico, in cambio del pattugliamento delle coste africane cospicui aiuti finanziari.
La forte accentuazione del logorio interiore del protagonista rende meno significativa la descrizione del contesto. I centri di detenzione per gli immigrati e i rozzi comandanti sono rappresentati in modo convenzionale e a tratti quasi caricaturale, la stessa descrizione fotografica della città di Tripoli è talmente standardizzata da renderla priva di qualsiasi riferimento riconoscibile. La denuncia del mancato riconoscimento dei diritti della persona risulta molto sfumata, a fronte delle terribili notizie reali che provengono dai veri e propri campi di concentramento allestiti sulle coste libiche.
In questo modo il contesto rischia di essere ridotto a mera occasione nella quale si svolge il percorso psicologico del funzionario del Ministero, potrebbe essere sostituito da qualunque altro tra i fin troppi contesti di sofferenza umana planetaria.
Da segnalare l'interpretazione del sempre più bravo Giuseppe Battiston, anche se in un ruolo non da protagonista. Non eccezionali gli altri attori.
Le domande interiori, riportabili ma solo in parte al rapporto tra ragione di Stato e coscienza individuale, si dipanano all'interno di una specifica situazione geopolitica - la Libia del dopo Gheddafi e l'Italia del pd renziano - e sociale - l'intensificazione dei movimenti migratori attraverso il Mediterraneo. La descrizione degli eventi risulta quasi profetica, dal momento che la fiction è stata superata dalla realtà proprio nei giorni dell'"uscita" del film nelle sale. Sembra infatti descritto l'antefatto dell'accordo Minniti, sottoscritto con il governo libico, in cambio del pattugliamento delle coste africane cospicui aiuti finanziari.
La forte accentuazione del logorio interiore del protagonista rende meno significativa la descrizione del contesto. I centri di detenzione per gli immigrati e i rozzi comandanti sono rappresentati in modo convenzionale e a tratti quasi caricaturale, la stessa descrizione fotografica della città di Tripoli è talmente standardizzata da renderla priva di qualsiasi riferimento riconoscibile. La denuncia del mancato riconoscimento dei diritti della persona risulta molto sfumata, a fronte delle terribili notizie reali che provengono dai veri e propri campi di concentramento allestiti sulle coste libiche.
In questo modo il contesto rischia di essere ridotto a mera occasione nella quale si svolge il percorso psicologico del funzionario del Ministero, potrebbe essere sostituito da qualunque altro tra i fin troppi contesti di sofferenza umana planetaria.
Da segnalare l'interpretazione del sempre più bravo Giuseppe Battiston, anche se in un ruolo non da protagonista. Non eccezionali gli altri attori.
mercoledì 6 settembre 2017
Per un dialogo "umano"
E' un po' angosciante rilevare che su ogni argomento oggi ci si possa schierare da una parte o dall'altra con enorme passione e (quasi sempre) scarsa competenza o informazione. E' venuta meno quella sana capacità di dubitare che un tempo veniva descritta come potenzialità di pensare con la propria testa.
Si tratti di migrazioni o di vaccini, di Trump o di politica italiana, di sport o di letteratura, sembra impossibile non doversi dichiarare o totalmente da una parte o totalmente dall'altra. Si creano così le condizioni per una vera e propria guerra civile, per ora per fortuna confinata ancora a livello di violenza verbale.
Il linguaggio di chi si pronuncia contro l'accoglienza è ormai letteralmente disumano (l'altro è il nemico che si comporta in modo bestiale, che deve essere "neutralizzato" e non ha alcun diritto di cittadinanza fra gli esseri "civili") e costringe chi ritiene che ogni essere umano abbia uguali diritti e doveri in questo mondo a combattere la xenofobia con l'esterofilia, il razzismo con il mito della bontà innata di ogni essere umano, tanto più se non corrotto dalle spire del serpente capitalista.
Chi sostiene la necessità dei vaccini è costretto a favorire una legge imposta per decreto al Parlamento e in molte parti priva di buon senso, chi invece sottolinea la pericolosità dei vaccini prende posizioni prossime all'aggressione fisica per contestare le norme ritenute penalizzanti la salute dei bambini. Gli uni e gli altri spesso procedono da casi specifici, senza cercare un fondamento autenticamente scientifico alle proprie posizioni, escludendo a priori che dall'una e dall'altra parte ci possano essere delle buone ragioni in grado di consentire un onorevole soluzione il più possibile vicina alle esigenze della salute e della democrazia.
Quello che si è perso - forse è un effetto del bipolarismo degli anni passati - è il ragionamento politico e democratico, quello cioè teso a cercare dei percorsi condivisi tra diversi orientamenti di pensiero. La logica del "vinca chi è più forte" rischia di costringere il dibattito negli angusti spazi dei media, anch'essi rigorosamente schierati dall'una o dall'altra parte.
La scuola, il mondo della cultura e quello delle amministrazioni virtuose potrebbero essere palestre di inversione di questa tendenza. Le idee possono essere diverse, ma non necessariamente antitetiche e contrapposte, l'ambito del riconoscimento della comune umanità potrebbe essere davvero quello nel quale ricondurre il conflitto fuori dalle pastoie della violenza e dentro i meandri dell'intelligenza.
Si tratti di migrazioni o di vaccini, di Trump o di politica italiana, di sport o di letteratura, sembra impossibile non doversi dichiarare o totalmente da una parte o totalmente dall'altra. Si creano così le condizioni per una vera e propria guerra civile, per ora per fortuna confinata ancora a livello di violenza verbale.
Il linguaggio di chi si pronuncia contro l'accoglienza è ormai letteralmente disumano (l'altro è il nemico che si comporta in modo bestiale, che deve essere "neutralizzato" e non ha alcun diritto di cittadinanza fra gli esseri "civili") e costringe chi ritiene che ogni essere umano abbia uguali diritti e doveri in questo mondo a combattere la xenofobia con l'esterofilia, il razzismo con il mito della bontà innata di ogni essere umano, tanto più se non corrotto dalle spire del serpente capitalista.
Chi sostiene la necessità dei vaccini è costretto a favorire una legge imposta per decreto al Parlamento e in molte parti priva di buon senso, chi invece sottolinea la pericolosità dei vaccini prende posizioni prossime all'aggressione fisica per contestare le norme ritenute penalizzanti la salute dei bambini. Gli uni e gli altri spesso procedono da casi specifici, senza cercare un fondamento autenticamente scientifico alle proprie posizioni, escludendo a priori che dall'una e dall'altra parte ci possano essere delle buone ragioni in grado di consentire un onorevole soluzione il più possibile vicina alle esigenze della salute e della democrazia.
Quello che si è perso - forse è un effetto del bipolarismo degli anni passati - è il ragionamento politico e democratico, quello cioè teso a cercare dei percorsi condivisi tra diversi orientamenti di pensiero. La logica del "vinca chi è più forte" rischia di costringere il dibattito negli angusti spazi dei media, anch'essi rigorosamente schierati dall'una o dall'altra parte.
La scuola, il mondo della cultura e quello delle amministrazioni virtuose potrebbero essere palestre di inversione di questa tendenza. Le idee possono essere diverse, ma non necessariamente antitetiche e contrapposte, l'ambito del riconoscimento della comune umanità potrebbe essere davvero quello nel quale ricondurre il conflitto fuori dalle pastoie della violenza e dentro i meandri dell'intelligenza.
sabato 2 settembre 2017
E' vera Riforma?
Francesco, Vescovo di Roma, quando aveva 42 anni "ha incontrato" (sic!) una psicoanalista per sei mesi. Questa notizia è balzata subito nella prima pagina dell'effimero circo mediatico. Ma cosa c'è di strano? La psicoanalisi non è certo più un tabù, se ne parla con ordinario rispetto nelle Università Pontificie, ci sono tanti psicoanalisti cattolici e anche tanti preti che svolgono tale professione. E' poi noto che molte religiose e molti religiosi ricorrono allo psicoanalista: come tanti altri esseri umani, vivono situazioni difficili e spesso sono chiamati a condividere momenti drammatici delle altrui esistenze, è normale che ci sia bisogno di un consiglio e di un accompagnamento.
La domanda quindi è un'altra, perché Francesco abbia sentito l'esigenza di raccontare un particolare della sua vita, ben sapendo che tale suo racconto avrebbe offuscato il resto di una peraltro molto interessante intervista. Si trattava forse di sdoganare definitivamente e autorevolmente la psicoanalisi nella Chiesa? Perché non dirlo esplicitamente traendo le conclusioni dalla propria esperienza personale, senza temere di chiamare "cura" (invece che "consulto per chiarire alcune cose") gli incontri settimanali e senza raccontare gli sviluppi privati del suo rapporto con la psicoanalista ebrea che lo avrebbe chiamato poco prima di morire?
Questo particolare rivela la forza e la debolezza di papa Bergoglio. La forza sta nell'aprire nuove strade e nell'abbattere antiche mura (a volte peraltro già demolite da altri con meno scalpore). La debolezza sta nel non incamminarsi con convinzione e decisione lungo le vie intravviste. In questo modo le buone intenzioni si scontrano con le fragilità dei fondamenti teologici e con la ritrosia al cambiamento delle norme del diritto canonico. In questo modo Francesco indica in se stesso l'esempio di una Chiesa cattolica davvero "universale", ecumenica, aperta al dialogo con tutti, libera, accogliente, simpatetica ed empatica. Tuttavia tale forza innovativa non diventa vera "riforma" perché nel momento della decisione vincolante viene ritirata la mano che ha lanciato il sasso.
E così non c'è il rischio di una frattura perché questa c'è già ed è evidente, ma della mancanza di un punto di riferimento da accogliere da parte di chi ritiene giunto il momento di una conversione radicale alla Scrittura delle origini o da rifiutare da parte di chi ritiene una sciagura l'abbandono della traccia di una Tradizione ritenuta ben più infallibile della stessa parola del Fondatore.
La domanda quindi è un'altra, perché Francesco abbia sentito l'esigenza di raccontare un particolare della sua vita, ben sapendo che tale suo racconto avrebbe offuscato il resto di una peraltro molto interessante intervista. Si trattava forse di sdoganare definitivamente e autorevolmente la psicoanalisi nella Chiesa? Perché non dirlo esplicitamente traendo le conclusioni dalla propria esperienza personale, senza temere di chiamare "cura" (invece che "consulto per chiarire alcune cose") gli incontri settimanali e senza raccontare gli sviluppi privati del suo rapporto con la psicoanalista ebrea che lo avrebbe chiamato poco prima di morire?
Questo particolare rivela la forza e la debolezza di papa Bergoglio. La forza sta nell'aprire nuove strade e nell'abbattere antiche mura (a volte peraltro già demolite da altri con meno scalpore). La debolezza sta nel non incamminarsi con convinzione e decisione lungo le vie intravviste. In questo modo le buone intenzioni si scontrano con le fragilità dei fondamenti teologici e con la ritrosia al cambiamento delle norme del diritto canonico. In questo modo Francesco indica in se stesso l'esempio di una Chiesa cattolica davvero "universale", ecumenica, aperta al dialogo con tutti, libera, accogliente, simpatetica ed empatica. Tuttavia tale forza innovativa non diventa vera "riforma" perché nel momento della decisione vincolante viene ritirata la mano che ha lanciato il sasso.
E così non c'è il rischio di una frattura perché questa c'è già ed è evidente, ma della mancanza di un punto di riferimento da accogliere da parte di chi ritiene giunto il momento di una conversione radicale alla Scrittura delle origini o da rifiutare da parte di chi ritiene una sciagura l'abbandono della traccia di una Tradizione ritenuta ben più infallibile della stessa parola del Fondatore.
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