martedì 18 giugno 2024

Perché il male? L'insolvenza della domanda...

 

Su una domanda si infrange la teologia, intesa nel senso letterale come "discorso su Dio".

La domanda è il perché dell'esistenza del male. Si intende il male fisico, la sofferenza dell'anima, il dolore esistenziale, il male morale che ha singolarmente lo stesso nome di quello fisico.

Se c'è un elemento che congiunge ogni essere vivente, di ogni genere e specie, è proprio la sperimentazione del male, subito o provocato che sia.

Se in qualche modo ce la si può cavare con la responsabilità umana, quando ci si riferisce alla guerra, alla fame o alle torture persecutorie, la scorciatoia non porta da nessuna parte quando si pensi alle inevitabili apparenti bizze della Natura, alle malattie che devastano il corpo e l'anima, alla morte dei bambini tra atroci spasmi.

E' logico che di fronte a tutto questo ci si chieda perché. E' meno logico pretendere che a questa domanda ci sia una risposta. Forse le religioni, con i loro complessi sistemi rituali-mitologici-morali riescono a dare delle provvisorie spiegazioni generali, attribuendo ciò che accade a un disegno provvidenziale che sfugge all'umana comprensione. Il cristianesimo si fonda sulla realtà di una condivisione del dolore fino al momento supremo della morte, anzi, perfino all'abbandono stesso del divino generatore dell'essere. Ma proprio tale affermazione proietta la soluzione della questione in una dimensione irraggiungibile dalla ragione. L'abbandono nel Dio che abbandona è un atto di fede illimitato, se non irrazionale almeno transrazionale, là dove negazione e affermazione fondamentalmente coincidono. Nella contemplazione dello Stabat Mater si congiungono compenetrandosi la più radicale esperienza di fede e il più convinto ateismo filosofico.

La debolezza delle religioni storiche sta forse proprio nel tentativo impossibile di razionalizzare l'esperienza del sacro, nel senso di rifiutarla proprio nel momento in cui la si riporta dall'orizzonte originario del tremendum et fascinans a quello ben più controllabile del dogma, della dottrina, della regola. In questo modo la religione diventa un formidabile strumento di consolazione, cancellando alla radice la tragicità dell'interrogativo esistenziale, ma anche di oppressione, vincolando la concezione del divino a un'unica visione umana e attribuendo a posizioni essenzialmente immanenti la potenza indiscutibile dell'irruzione dell'Assoluto. Il relativo si riempie di assoluto e diventa a sua volta assoluto, totalitario, in permanente scontro dialettico con la concorrenza delle altre religioni.

Non può non essere così e se anche nella società meno secolarizzata di quanto non sembri, diventa imperativo categorico il dialogo tra le religioni alla ricerca di un incontro sul punto di scaturigine comune, tale impresa risulta destinata al fallimento per un unico decisivo motivo. Il fondamento delle sacre scritture, delle regole etiche, dei miti e dei riti, non può essere raggiunto dalla ragione, può essere attinto esclusivamente nel fondo dell'anima (Maister Echkart!), là dove ogni ragionamento viene annullato dalla luce in-conoscibile della fede. E' il divieto di nominare il divino presente nelle religioni cosiddette  rivelate che paradossalmente da una parte postulano l'essere totalmente altro di Dio, dall'altra pretendono di rivelarne la volontà non solo relativamente alle grandi linee della creazione, ma anche all'esperienza storica e quotidiana di ogni essere vivente.

Ordunque, la domanda sul perché dell'esistenza del male non può trovare risposta nelle religioni. Anzi, non può e non deve trovare alcuna "risposta". Affermare questo è l'unico modo per "salvare Dio" ed evitargli un catastrofico processo da parte delle miliardi di vittime di un universo ritenuto finalizzato. Se Dio non c'entra, non c'è bisogno di mettere sotto processo nessuno, basta solo ergere la propria dignità di fronte alla tempesta del dolore cosmico e affermare che la grandezza dell'uomo, anzi di ogni vivente, sta nell'esserci, senza spiegazioni, consolazioni o recriminazioni, se non quelle da rivolgere con forza ai propri simili. Sì, perché se ciò che accomuna così drammaticamente l'umano è il mistero della sofferenza globale, il fondamento di ogni etica non è da ricercarsi nel trascendente, ma nell'immanente. E' l'impegno a lottare contro il male fisico e morale, con tutte le proprie forze, l'indignazione per la violenza e la guerra, l'azione convinta e indefessa a cercare di vincere quotidianamente le piccole battaglie, ben sapendo di dover soccombere, a testa alta e con il coraggio della speranza, nella madre di tutte le battaglie, quella contro la morte.

Oltre la quale tutto sarà finalmente chiaro. E Dio continuerà a essere, ma come era, è e sarà, al di là di ogni spazio e di ogni tempo.

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