Passeggiare in una chiesa romanica è come entrare nel cuore dell'umanità. Lo stesso probabilmente si può dire di un'antica moschea o di una sinagoga o di un tempio buddhista. E' come se l'essenza stessa di ciò che esiste nel più profondo dell'uomo trovi una sua impressionante manifestazione nella forma religiosa dominante.
Dai recessi dell'essere scaturiscono incontrollate le paure, non tanto legate all'oggettività di un difficile presente, quanto alla consapevolezza del fragile camino della vita, un passo dopo l'altro su un sottile filo teso sull'abisso, procedente dal mistero che ci precede e proiettato verso il mistero che ci attende.
Mostri di ogni tipo lottano contro altre figure arcane, in una lotta senza vinti e vincitori, non ci sono happy end, solo l'intrinseca intuizione secondo la quale il bene e il male, la luce e le tenebre, il tutto e il nulla si alternano sulla bilancia universale e nella loro danza generano tutto ciò che esiste.
Forse gli scultori, i pittori o gli architetti del romanico, della maggior parte dei quali non si conosce neppure il nome, sapevano di interpretare il senso religioso. In un certo senso, sopperivano al tentativo di razionalizzare il divino nell'elemento dogmatico, rivalutando la dimensione dell'inconscio, ignari pionieri della psicoanalisi. Chi non ritrova i suoi meandri interiori, rispecchiandosi nei corpi stravolti trasformati in grondaie apotropaiche? E chi non prova un brivido di sacro timore prima di varcare una soglia difesa dal ruggito silenzioso di chimere e leoni pietrificati nell'assalto?
Non si può sfuggire al tremendo fascino del sacro, non perché lo si voglia riportare dentro un'artificiale distinzione dalla temporalità profana. Tale operazione è stata una volta per sempre denunciata e cancellata dall'incarnazione del Logos: "è venuto il tempo nel quale non si adorerà più Dio sulle montagne o nei templi fatti da mano d'uomo, perché i veri adoratori adorano in spirito e verità".
Al contrario, si tratta di una necessaria de-razionalizzazione della fede, là dove si percepisce, nella sfera dell'emozione, l'esperienza della trascendenza, non catalogata o inquadrata in uno specifico "nomen" (impronunciabile per ogni autentica spiritualità), ma vissuta con gli occhi grandi (ecco di nuovo la pittura romanica, per non parlare degli incredibili volti del Fajun) di chi è travolto dall'ammirazione irresistibile per una bellezza senza forma o dal terrore per l'irrompere della sensazione di una presenza senza volto.
Se il paleocristiano condivide l'entusiasmo per il simbolo, irrisolvibile senza un'"immersione" nelle acque che liberano dalle pastoie dello spazio e del tempo (un'altra via filosofica per ricomprendere il battesimo, in epoca di pluri e multiculturalismo?), il romanico accoglie l'iniziato ma lo reimmerge nel fango mistico della sua irriducibile solitudine. C'è anche un invito alla Speranza, dentro questo crogiuolo fiammeggiante, sopra questa bilancia che misura la potenza degli opposti. ed è che lo spazio, l'aura del divino che tutto permea di sé unisce inestricabilmente tutto ciò che si riconosce vivo, sia esso vegetale o animale, forse anche addirittura minerale.
Ed è anche che dalla solennità delle cupole irrompe nella "visio" il Pantocrator che non annulla ma valorizza l'immensa piccolezza dell'essere umano. E dai catini delle absidi circondate dagli archi a tutto sesto si è invitati a riconoscersi nel Bambino, cullato dalla Madre in trono: una minuscola scintilla dell'essere abbracciata dall'irresistibile potenza della maternità.
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