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Erano le 9 del mattino ma il caldo e la puzza erano già insopportabili nella cella scavata dentro la roccia occupata da Disham e da altri tre prigionieri. Uno era stato arrestato insieme a lui un paio di giorni prima durante una rappresaglia per il lancio di un missile “Katyusha” che aveva distrutto una casa colonica disabitata tre quattro chilometri oltre il confine: si conoscevano di vista ma da quando erano lì non si erano scambiati neppure uno sguardo, forse per non aggravare una situazione peraltro già compromessa dopo il sommario processo dall’esito scontato. Gli altri due erano personaggi piuttosto noti dalle cronache del tempo e incutevano una certa soggezione: i loro nomi di battaglia erano Bar Abbah e Jeshua Hanozri, quest’ultimo disteso in un angolo sopra gli escrementi emetteva un sottile gemito da quando i soldati l’avevano spinto a terra con un ultimo calcio sulla faccia. Era ridotto proprio male, una specie di spina gli feriva la fronte e il sangue dal corpo flagellato creava strane macchie sulla tunica sdrucita.
Erano le 9 del mattino ma il caldo e la puzza erano già insopportabili nella cella scavata dentro la roccia occupata da Disham e da altri tre prigionieri. Uno era stato arrestato insieme a lui un paio di giorni prima durante una rappresaglia per il lancio di un missile “Katyusha” che aveva distrutto una casa colonica disabitata tre quattro chilometri oltre il confine: si conoscevano di vista ma da quando erano lì non si erano scambiati neppure uno sguardo, forse per non aggravare una situazione peraltro già compromessa dopo il sommario processo dall’esito scontato. Gli altri due erano personaggi piuttosto noti dalle cronache del tempo e incutevano una certa soggezione: i loro nomi di battaglia erano Bar Abbah e Jeshua Hanozri, quest’ultimo disteso in un angolo sopra gli escrementi emetteva un sottile gemito da quando i soldati l’avevano spinto a terra con un ultimo calcio sulla faccia. Era ridotto proprio male, una specie di spina gli feriva la fronte e il sangue dal corpo flagellato creava strane macchie sulla tunica sdrucita.
Quando la pesante
porta di legno si aprì una cascata di luce si riversò nell’antro e i quattro
istintivamente si coprirono gli occhi per non essere accecati. “Exite!”, ordinò
con voce minacciosa quello che doveva essere un capo delle guardie; non
ottenendo alcun risultato scese trattenendo il respiro e con la punta della
lancia punse Hanozri costringendolo ad alzarsi. “Exite! Tertia est, viae crucis
hora!” Tutti rabbrividirono e senza guardare il militare che li minacciava con
l’arma uscirono trascinando le catene, uno dopo l’altro: il solo Bar Abbah fu
respinto con violenza e precipitò indietro bestemmiando.
Non erano preparati a
quella scena: si trovavano in un cortile quadrato dove erano schierati in
tenuta antisommossa un centinaio di poliziotti che alla loro uscita
cominciarono a battere ritmicamente il manganello contro gli scudi di plexigas.
Il fragore era impressionante e Disham si sentì mancare, anche a causa del fumo
dei lacrimogeni utilizzati per disperdere la folla che pretendeva di essere
pagata: avevano buttato via un mucchio di tempo per andare davanti al palazzo
pretorio a gridare il nome del condannato da salvare e ora venivano dispersi
come cani randagi, senza neppure i soldi per un caffè…
In fila sei soldati si
avvicinarono ai condannati, tenevano alle estremità tre tronchi levigati: con
un certo sforzo li sollevarono cercando di posizionare il baricentro poco sotto
il collo dei malfattori. Disham cadde subito a terra e fu rialzato di peso non
senza aver assaggiato la frusta; Jeshua vacillò ma per il momento non fu
tradito dalle ginocchia vacillanti; il terzo, con lo sguardo perso nel vuoto,
non sembrò neppure accorgersi del peso che gli era stato collocato sulle
spalle. “Satis est!” ordinò il centurione e cessò il frastuono, anche se si
sentivano ancora lontano gli echi delle colluttazioni. I suoi nove subalterni
impartirono qualche ulteriore istruzione, ordinarono ai militi di mettersi in
fila per due, trenta davanti per aprire il passaggio tra la folla impegnata
negli acquisti del giorno prima del Grande Shabbat, trenta dietro per impedire
la fuga, trenta intorno ai tre per proteggerli da qualche eventuale tentativo
di linciaggio. Ancora un attimo di silenzio e poi “Avanti, marsh!”
Anche se si vedeva che
Hanozri era stato selvaggiamente picchiato quello che sembrava più affaticato
era proprio Disham, il terzo invece si era prontamente portato avanti per non
inciampare. Passarono sotto un basso arco di pietra, attraversarono la hall
dell’hotel e furono proiettati negli incredibili vicoli dell’antica
Jerushalaim: scene, voci, colori, sensazioni, profumi, emozioni nei quali ogni
pellegrino o turista nel corso della storia avrebbe voluto tuffarsi! Ma in quel
momento non c’era tempo per pensare ai pacchetti da “trattare” con le agenzie,
neppure – a dire il vero – a come evitare i consueti bagni di sangue che si
verificavano al tempo della Crociate. C’era solo da accompagnare il povero
Disham, e con lui gli altri due condannati, fino al sinistro luogo del Cranio,
il famoso Golgho thà…
Ciò che infastidiva
maggiormente era l’assoluta indifferenza della gente: sì, poteva anche essere
spiegata dal fatto che lo spettacolo non era raro, almeno un paio di giorni la
settimana si ripeteva quella processione, manipolo davanti e dietro, in mezzo i
poveri condannati preoccupati soprattutto di non cadere. Indifferenza di tutti?
No, proprio di tutti no; ecco un tizio uscire da un negozio, poggiare sul banco
la merce appena acquistata e avvicinarsi a Disham: “vuoi una mano? Se non ti
offendi ti porto per qualche centinaio di metri la croce…” Il tempo di
riscuotersi dallo stupore, un pensiero a svignarsela clamorosamente come nella
scena consimile del film Brian di Nazareth e il tronco era già sulle spalle
dell’uomo di Cirene; solo che non era il suo, bensì quello di Hanozri, più
rapido nell’acconsentire alla richiesta del mercante. No, proprio di tutti no;
ecco un gruppo di donne, dal velo sgorgano occhi limpidi e belli; una sembra
molto giovane e accorre… “Dio, se mi tergesse un po’ di sudore!” Niente da
fare, anche quella fanciulla sembra non accorgersi della sua presenza e
sfuggendo alla presa delle guardie raggiunge in fretta Joshua, stende un
fazzoletto sul suo viso e poi resta come impietrita a contemplare i segni del
sangue rimasti impressi sul lino.
“Almeno la madre mi
degnerà di uno sguardo!” Trattenute a stento dai soldati tre donne cercavano di
raggiungere i condannati: la prima interruppe ben presto i suoi sforzi, il
figlio che procedeva spedito davanti agli altri, incurante del peso che gravava
sulle sue spalle, le aveva lanciato uno sguardo carico di odio prima di
riprendere con grande dignità il cammino; la seconda aveva intessuto una breve
ma dolcissima conversazione senza parole
con Hanozri; niente da fare, la madre di Disham aveva cominciato a inveire
contro di lui, definendolo la rovina della famiglia per non essere riuscito a
portare a termine con successo la missione che gli era stata affidata.
“Meno male che per me
non sono previsti i chiodi!” pensava Disham mentre sentiva le urla del compagno
di sventura mentre i ferri acuminati facevano a brandelli pelle tessuti e
muscoli delle mani e dei piedi. “L’unico vantaggio è che morirà prima e dovrà
sopportare per meno tempo questo supplizio”. Si lasciò docilmente legare -
ormai non c’era proprio più niente da fare – e fu issato sulla croce: non ebbe
certo il tempo e la voglia di ammirare dall’alto lo straordinario panorama
della grande città le cui mura risaltavano particolarmente, sullo sfondo il
cielo azzurro. Cercò la posizione migliore ma ogni sforzo provocava atroci
dolori; nonostante ciò volle guardare gli altri due, in fondo erano accomunati
dalla stessa terribile morte. Accanto a lui c’era Jeshua che sembrava assopito,
forse – beato lui! - era svenuto per il dolore dei chiodi e per la lenta ma
costante perdita di sangue dalle ferite recenti; più in là il terzo malfattore
continuava a ostentare sicurezza e prendeva in giro i romani che peraltro non
sembravano prendersela più di tanto. Fino a quel momento l’aveva ammirato per
la forza e il coraggio che aveva dimostrato, ma ora Disham pensò che prima di
morire forse sarebbe stato meglio recitare con il cuore qualche preghiera
piuttosto che esalare l’ultimo respiro bestemmiando contro tutto e contro
tutti; quando poi il terzo condannato se la prese addirittura con il vicino
Hanozri accusandolo di essere un vigliacco, egli trovò le ultime energie per
invitarlo a tacere e a rispettare “chi era coinvolto nella stessa pena”. Tanto
più che quel poveraccio sembrava davvero incapace di fare del male a qualcuno,
mentre invece loro due…
Oltre alla sofferenza
c’era l’umiliazione della nudità: l’esposizione del corpo e il dileggio dei
soldati ma anche di molti passanti senza pietà provocavano più sofferenza degli
arti stiracchiati dai lacci. Almeno davanti a Jeshua c’erano qualche donna e un
giovanotto imberbe che piangevano talmente rumorosamente da allontanare i
curiosi e gli impertinenti. Forse fu proprio quella presenza amorevole a
risvegliare il condannato dal torpore: aveva cominciato a dire qualcosa, ma era
molto difficile capire il senso delle sue parole. Disham fu sorpreso dai suoi
occhi - non avrebbe mai pensato che ci fosse ancora in lui la forza di muovere
la testa sollevando un nugolo di mosche che bevevano il sangue senza alcuna
devozione; non c’era alcun dubbio, erano occhi tanto buoni così come buona era
la voce che emetteva una specie di mugolio indistinto. Riuscì ad afferrare
soltanto “oggi stesso sarai con me in paradiso!”; non ebbe il tempo di pensare
cosa volesse dire, in quel momento la terra sembrò sussultare ai piedi della
croce, si fece buio ovunque e si udì un sinistro frastuono di macerie provenire
dalla zona del Tempio.
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