martedì 31 agosto 2021

Afghanistan, prima che "l'ordine regni a Kabul"

Confine tra Slovenia e Croazia, estate 2021
Uno degli aspetti inquietanti della crisi afghana è la sua prevedibilità.

Scoppiata la guerra, all'indomani degli attentati alle Torri gemelle di New York, non solo il profeta Gino Strada ma anche tanti osservatori avevano previsto tutto ciò che sarebbe accaduto. Il momentaneo allontanamento dei talebani dai centri di potere ufficiali non avrebbe consentito un adeguato controllo del territorio, il sistema tribale non sarebbe stato scompaginato, il terrorismo sarebbe stato alimentato, per di più anche nel conflitto permanente tra le diverse componenti dell'estremismo locale.

Del tutto prevedibili era anche il disimpegno delle forze cosiddette "occidentali", una volta raggiunti i propri interessi economici e gli accordi più o meno segreti con chi - anche questo del tutto prevedibile - si sarebbe subito dopo impadronito del potere.

Venendo alla terribile estate appena trascorsa, era prevedibile che i Talebani avrebbero inflitto cruente vendette a chi aveva collaborato con il regime "democratico" (?) precedente, che il terrorismo isis avrebbe colpito la gente in fuga verso l'aeroporto di Kabul - i  questo caso c'è stato perfino il preavviso di qualche ora! Ed era scontato che tutto ciò avrebbe accelerato l'evacuazione di chi è riuscito a raggiungere gli aerei in partenza nonché la definitiva ingloriosa chiusura dell'occupazione militare dell'Afghanistan. Come è stato ed è prevedibile che - a parte il personale che ha collaborato con gli "stranieri" - tutti coloro che fuggiranno troveranno davanti al loro cammino muri e reticolati che impediranno loro di raggiungere la pace agognata.

Ed è prevedibile, purtroppo, che chiuse le ambasciate e cancellata la presenza del Nord del mondo a Kabul, tutto ciò che accadrà non interesserà più in alcun modo l'universo mediatico e i riflettori si spegneranno sulle tragedie che invece continueranno a verificarsi nel silenzio generale. Un silenzio che sarà rotto soltanto dalla preoccupazione di come fermare l'ondata di profughi che percorreranno di nuovo le rotte della speranza per raggiungere l'Eldorado dell'unione Europea.

Sì, perché lo sguardo dei ricchi è terribilmente miope e si accorge del dolore del Pianeta soltanto quando in qualche modo ciò che accade lo riguarda da vicino. Chi si scandalizza per l'assurda guerra nel Tigray che procede nel silenzio generale? O per la situazione del Sud Sudan o dell'atavica fame che attanagli ancora buona parte dell'Africa?

E così purtroppo accadrà con l'Afghanistan, ridotto da quaranta anni di guerra a uno dei Paesi più poveri del mondo. La sorte delle donne, dei bambini, degli uomini che vorrebbero costruire una Nazione realmente libera, non interesserà più a nessuno, fatte le nobili eccezioni di Emergency e delle tante ong che lavorano là dove la terra brucia e le associazioni che si battono ovunque per la tutela della vita e dei diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

Sarà così? Sarà come è accaduto in Iraq, in Siria, in Libano e altrove? Dimenticheremo ancora una volta il grido dei poveri? L'Europa sbarrerà le sue porte e continuerà a stendere lugubri reticolati nei propri confini?

domenica 29 agosto 2021

Gorizia e Nova Gorica sceglieranno nel 2022 il Sindaco nello stesso anno. Non accadrà più per 20 anni. Quindi...

Il confine tra Gorizia e Nova Gorica sul Sabotin
L'anno prossimo, 2022, gli elettori di Gorizia e Nova Gorica saranno chiamati a eleggere i propri rappresentanti nei rispettivi Comuni. 

Non è affatto un dato ovvio, dal momento che la durata del mandato in Italia è di 5 anni, in Slovenia di 4, pertanto la prossima volta che si verificherà una simile coincidenza - fatti salvi mandati conclusi anticipatamente o modifiche strutturali - sarà appena tra venti anni, nel 2042!!!

Oltre a ciò, i due sindaci saranno chiamati ad amministrare il territorio nel periodo precedente e immediatamente seguente l'importantissima scadenza del 2025, quando Nova Gorica insieme a Gorizia sarà/saranno Capitale europea della Cultura. Le elezioni si dovrebbero tenere, con i tempi che corrono il condizionale è d'obbligo, in primavera nella parte in Italia, in autunno in quella in Slovenia.

La proposta è molto semplice: c'è la possibilità di costruire un progetto comune? C'è la disponibilità di realizzare liste con il medesimo simbolo elettorale? C'è la volontà di sedersi attorno a un tavolo, iniziando a ragionare insieme e a costruire un programma che almeno negli elementi fondamentali sia effettivamente lo stesso? C'è, laddove ciò sia reso possibile dai regolamenti nazionali, l'idea di candidare alcuni abitanti di Nova Gorica a Gorizia e viceversa?

La domanda, almeno per ora, non tende a immaginare un nuovo gruppo transnazionale con due propri candidati sindaci. L'obiettivo è solo quello di indicare a tutti i partiti e movimenti civici che stanno cominciando a posizionarsi in vista degli importanti appuntamenti, che la collaborazione fattiva e concreta è assolutamente indispensabile. Una (o più) liste transnazionali creerebbero una straordinaria attenzione anche ben oltre la zona goriziana, ma per poterla o poterle costruire è necessario iniziare dal principio, riunendosi attorno a un tavolo e iniziando insieme a condividere le proprie esperienze, le storie e i desideri di ciascuno. Certo, in un territorio riconosciuto come unico, nel rispetto delle distinzioni, l'ideale sarebbe che tutte le liste fossero transnazionali!

Prima che si entri nella fase decisiva, quella degli ultimi sei mesi antecedenti le elezioni, si è ancora in tempo per prendere in considerazione la proposta, nei modi e nelle forme che si ritengono più opportune. Si potrebbe cominciare con un invito pubblico e bel pubblicizzato, aperto a chiunque ne sia interessato e fondato su tre-quattro argomenti esemplificativi, in grado di discernere subito l'area di appartenenza (per esempio, Ambiente e destino dell'Isonzo/Soča; Cultura come fondamento dell'azione politica e antifascismo "di confine"; Lavoro, lavoratori e rilancio sostenibile dell'economia locale). Con chi è d'accordo si potrebbe poi edificare, mattone su mattone, quella visione comune del presente e del futuro da sempre da tanti desiderata e mai totalmente realizzata.

Le cittadine e i cittadini richiedono di intraprendere questa strada, immaginando come naturale una collaborazione tra le città, fondata realmente e non soltanto a parole, sull'unità condivisa nella ricchezza delle diversità. Le forze politiche sapranno fare proprie queste aspettative, da esse stesse suscitate?

mercoledì 25 agosto 2021

L'aziendalizzazione, peccato originale della sanità FVG

Durante gli anni '90 del secolo scorso, iniziò a serpeggiare in Friuli Venezia Giulia una brutta parola, riguardante gli interventi in campo sanitario: aziendalizzazione.

Le unità sanitarie distrettuali diventavano "aziende" diffuse sul territorio regionale, finalizzate all'offerta di "servizi" ai cittadini nell'ambito appunto della sanità.

Qualcuno per la verità aveva espresso dei dubbi riguardo alla trasformazione di simili strutture in realtà destinate alla realizzazioni di utili, stante che al centro di ogni intervento in questo orizzonte dovrebbe essere praticamente in esclusiva la "salute fisica e psichica" delle persone.

Era stato assicurato che una miglior gestione economico-finanziaria avrebbe senz'altro favorito la serenità e l'efficacia delle prestazioni. Inoltre si era fortemente sottolineato come una maggior decentralizzazione (leggi depotenziamento delle strutture ospedaliere) avrebbe permesso di realizzare un'ottima attività di azione sul territorio, consentendo quindi agli "utenti" un migliore e più capillare servizio.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. A parte alcune lodevolissime esperienze, come quelle dell'"infermiera/e di comunità" nella Bassa Friulana e il quasi eroico impegno del personale dell'Assistenza domiciliare integrata, gli ospedali sono risultati effettivamente depotenziati e il personale dedito al territorio è talmente scarso da rendere purtroppo irrilevante tale preziosissimo servizio, soprattutto quando si parla di patologie importanti e comunque facilmente sostenibili anche a domicilio.

Si aggiunga la più volte richiamata assenza sempre più rave dei medici di medicina generale. Intere zone ne sono ormai del tutto privati, i pazienti sono indirizzati al Pronto soccorso che così viene ancora più intasato di quanto già non lo sia normalmente, dove si sentono quasi rimproverare per "non essersi recati prima presso l'(inesistente) medico di base". 

Dopo oltre venti anni, l'aziendalizzazione - o più ingenerale l'intervento politico regionale in ambito sanitario - si rivela molto poco efficace per realizzare l'obiettivo primario della valorizzazione della sanità pubblica e i bilanci sempre più ristretti non lasciano prevedere nulla di particolarmente incoraggiante. La stessa esperienza pandemica, con la risposta d'emergenza affidata molto poco alla cura ordinaria e sostanzialmente nel primo periodo quasi solo al ricorso sistematico e tardivo alla terapia intensiva, dimostra l'esautorazione dei medici di medicina generale, ridotti praticamente  spesso a ufficio informazioni telefoniche e non punti di riferimento preminenti per l'intervento terapeutico.

Tutto ciò che sta accadendo, con il contestuale e crescente malcontento della popolazione, porterà inevitabilmente alla privatizzazione sistematica? Si tornerà - o si è già a questo punto - a un welfare classista che favorisca i ricchi e penalizzi i poveri? Il modello Lombardia, con le conseguenze che abbiamo constatato nella primavera del lockdown, è quello verso il quale ci dirigiamo?

Tanti protestano e chiedono interventi drastici per impedire questa deriva. Ma cosa si può fare, ci si chiede? In realtà l'unico strumento di cambiamento è in mano a ogni cittadina e cittadino. E' una matita che serve per segnare con una crocetta la scheda elettorale. Sì perché tutto ciò che accade non dipende dal destino cinico e baro, ma da precise scelte Politiche che conducono il vapore, da una parte o dall'altra della barricata. quelle che hanno portato alla situazione attuale, iniziata proprio con l'aziendalizzazione, sono firmate da precisi nomi e cognomi. 

Lo si ricordi bene! Ogni disimpegno o impegno poco consapevole, significa lasciare agli altri il compito di decidere. Prima che resti solo il mugugno, occorre prendere in mano la situazione e decidere di esserci, se non con altro, almeno con il proprio voto.

venerdì 20 agosto 2021

Ancora sull'Afghanistan, il dramma della sofferenza individuale

Come sempre accade, la guerra mediatica si basa sugli universali. L'Afghanistan, visto da lontano, appare in questi giorni come un campo di battaglia tra enti astratti. C'è un governo, per lo più fuggito all'estero - si vocifera anche dei classici conti in varie banche - spodestato da una breve insurrezione nella quale non c'è stata praticamente opposizione armata. L'esercito ufficiale, rifornito e addestrato negli ultimi venti anni dai migliori strateghi militari del Mondo che hanno giustificato anche con questo obiettivo la loro presenza, si è dissolto come neve al sole. Poi c'è il "popolo", del quale si ergono a difesa i paladini della cosiddetta "libertà", la destra islamofoba, la sinistra anticapitalista, il cattolicesimo bergogliano. Ma quale "popolo"? Chi è il "popolo"? La gente che si aggrappa agli aerei? Le donne che temono per la loro incolumità? I bambini gettati tra le braccia dei soldati americani? Coloro che accolgono i Talebani come liberatori? I Talebani stessi che conquistano un potere dal quale erano stati estromessi venti anni prima, ma i cui padri e nonni avevano combattuto in tutti gli anni '80 contro i sovietici e anche allora contro l'esercito governativo, per difendere la loro visione religiosa del mondo? E quella volta, dovendo scegliere tra la realizzazione di un sistema comunista e le minacce del fondamentalismo islamico, gli "occidentali" avevano scelto molto chiaramente di armare abbondantemente i mujaheddin per consentire loro una guerriglia paragonabile a quella subita dagli Usa in Vietnam.
In realtà, cosa sappiamo veramente? Possiamo credere che la realtà sia quella descritta nelle sempre uguali immagini televisive o nei commenti dei giornalisti che scrivono su tastiere situate a una distanza di duemila chilometri dagli eventi? Ovviamente ci sono (poche) eccezioni, da cercare con cura e soprattutto ci sono i testimoni, che hanno un volto, una voce, spesso un corpo martoriato dalla violenza individuale e un'anima umiliata da tante vessazioni.
Ciò che sappiamo ed è certo il punto di partenza di ogni altra analisi è la sofferenza individuale. Non si tratta della "gente", dei "fondamentalisti" o dei "governativi". Si tratta della persona concreta, che vive qua e ora, che interpella il mio modo di essere e di pensare.
A differenza di altri periodi, la persona nella sua concretezza non è distante, ma vive con me, condivide il mio ordinario e quotidiano esserci in questo mondo.
In particolare è terribile il dolore degli amici afghani che con grandi difficoltà sono riusciti a entrare in Italia e a chiedere rifugio, proprio perché minacciati di persecuzione dai Talebani. Abbiamo ascoltato le loro storie spesso in questi ultimi anni, a volte ci siamo perfino permessi di metterle in dubbio - crediamo nella Verità della televisione e non nello sguardo a una schiena o a un occhio devastati dalle frustate della polizia sul confine tra Bosnia e Croazia! 
Molti di loro hanno lasciato moglie, figli piccoli, genitori anziani, custoditi da un fratello o una sorella ritenuti più fortunati perché tutelati dal loro lavoro con i contingenti stranieri sul territorio afghano. E ora i custodi sono fuggiti con il primo aereo utile, lasciando lì, senza protezione, donne e bambini in balia di possibili vendette e ritorsioni.
Questa è la concretezza del momento, alla quale l'Italia e l'Europa devono immediatamente dare risposta, sciogliendo i milioni di vincoli burocratici che rendono problematica e spesso impossibile l'accoglienza, favorendo dei flussi migratori a misura di bambini, avviando finalmente rapide decisioni politiche a favore del lavoro, della casa, dei ricongiungimenti familiari.
Nell'incertezza e nel disagio del momento, davvero ognuno può fare la sua parte. Se "accoglienza" e "integrazione reciproca" non sono solo belle parole, occorre davvero abbattere mura e reticolati, vecchi e nuovi, aprire le porte, iniziando rispondendo al dolore di chi segue le vicende da lontano ed è terrorizzato al solo pensiero di cosa possa accadere alle persone più care.

mercoledì 18 agosto 2021

Kabul città aperta...

Ciò che sta accadendo in Afghanistan suscita grande preoccupazione e perplessità, anche per il rapidissimo svolgimento degli eventi che hanno portato in pochissimi giorni (vedi qui post del 9 agosto) l'universo mediatico da un sostanziale disinteresse a un vero e proprio diluvio di "notizie". Il virgolettato è d'obbligo, dal momento che è molto difficile discernere cosa ci sia di vero e di falso nelle parole e nelle immagini che si stanno riversando nelle nostre case.

E' interessante notare l'assenza quasi completa di proposte.

I tanti che hanno sostenuto Bush e l'intervento militare seguito all'attentato dell'11 settembre - la stragrande maggioranza tra i rappresentanti delle forze politiche in parlamento nel 2001-2002 - ora smarriti scoprono l'acqua calda, cioè che "la democrazia non si esporta con le armi". E non sapendo cosa dire rispetto alla situazione che si è contribuito decisamente a creare, si preoccupano di "salvare" almeno le persone che hanno collaborato con le forze militari in campo. Tra essi ci sono ovviamente quelli più aperti che premono (nei confronti di chi, non si capisce bene) perché si aprano i "corridoi umanitari". E ci sono anche i soliti razzisti, il cui timore esplicito è che ci sia una nuova "invasione" di richiedenti asilo, fingendo di non sapere che l'Unione Europea investirà qualche miliardo in più di euro per finanziare la Turchia e le isole greche con i loro campi di concentramento che fungono da "filtro" a salvaguardia degli interessi occidentali.

I pochi - tra essi senza alcuna soddisfazione posso iscrivermi, ricordando gli editoriali su Voce Isontina di quell'ormai lontano periodo - che avevano "azzeccato" la peraltro facile previsione su come sarebbe andata a finire, tendono a fermarsi all'antipatico "Lo avevamo detto noi", senza però procedere, adesso come allora, a qualche proposta alternativa.

Gli uni e gli altri cercano di evitare di rispondere alla domanda cruciale: e quindi? Quindi che cosa si sarebbe dovuto fare venti anni fa? Quindi cosa si dovrebbe fare adesso?

La conquista di Kabul non strappò che una piccola parte di Afghanistan alle guide religiose, esse continuarono più o meno tranquillamente la loro azione nel resto del Paese. Ora, dopo evidenti accordi di salvaguardia degli interessi delle Nazioni più esposte, i Talebani riprendono in mano l'intero Paese. Chi voleva l'intervento "per salvare la democrazia, per dare la libertà alle donne, per eliminare il burka... e via dicendo", ora cosa propone? Ritornare sui propri passi e riproporre un altro intervento militare? Lo stesso Biden, nel suo discorso, ha ragionevolmente sollevato il dubbio sul senso del rimanere in eterno con un esercito di occupazione in un Paese straniero. Accettare supinamente che i Talebani creino uno Stato non riconosciuto se non da pochissimi altri Paesi. dove far crescere germi terroristici o spazi di strumentalizzazione da parte di Nazioni interessate al controllo dei punti strategici del Pianeta (vedi Russia per esempio)? E cosa propone chi non voleva l'intervento e ora si esprime con giusta preoccupazione nei confronti delle persone, soprattutto delle donne, lasciate sole in un territorio dominato dai nemici delle libertà individuali? Come fare a "convincere" i Talebani a non esercitare violenza nei confronti di chi li ha osteggiati negli anni precedenti o di chi si rifiuta di sottostare alle leggi del fondamentalismo islamico? Prima di rispondere, c'è un dato da non dimenticare. E' facile attribuire "ai Talebani" ogni proposito di governo medievale e liberticida. Tuttavia senza il consenso delle masse, sarebbe inspiegabile l'avanzata trionfale - rallentata da una minima difesa territoriale - dell'esercito dei religiosi. Sarebbe pericoloso ritenere che una minima minoranza riesca a tenere in scacco una nazione intera. Ovviamente con metodi coercitivi e massificanti (ma non enormemente diversi da quelli che consentono la creazione del consenso, politico o fino a non molto tempo fa anche religioso, in quelle che chiamiamo democrazie), i seguaci dei Talebani sono tanti e ritengono che i veri nemici siano gli "occidentali" e chi collabora con essi. 

E allora? Allora, obtorto collo o con convinzione, è indispensabile riconoscere che esistono solo due risposte alle pressanti domande del momento.

La prima è l'accoglienza illimitata di coloro che fuggono, creando ponti aerei o corridoi autonomi che consentano a chiunque lo ritenga necessario di andarsene da un luogo in cui la vita è minacciata. Occorre anche favorire l'espatrio e l'integrazione dei familiari di coloro che sono venuti in Europa negli ultimi anni, accelerando e facilitando tutte le pratiche relative ai ricongiungimenti familiari e alla concessione del diritto d'asilo. E' inimmaginabile la sofferenza di chi ha lasciato in Afghanistan i propri cari, ora non ha più notizie di loro e si attende da parte delle autorità italiane ed europee aiuto e comprensione.

La seconda è il riconoscimento e il dialogo con i Talebani. Solo riconoscendo l'interlocutore, è possibile un confronto che potrebbe - sottolineando il "potrebbe" - consentire alcuni auspicati accordi, relativi alle garanzie dei diritti universali delle persone, al rispetto della dignità della donna, al rifiuto della violenza come strumento di azione politica, all'accettazione di regole chiare riguardanti i permessi di espatrio per gli oppositori del nuovo regime che li richiedono. Certo, stare attorno a uno stesso tavolo implica una sorta di previo riconoscimento dello status quo, con tutto ciò che esso comporta. Ma, pensandoci bene ed evitando slogan triti e ritriti sui quali in teoria nessuno che abbia un poì di senno potrebbe dissentire, quale alternativa al dialogo se non quella, già per fortuna esclusa, di riprendere e continuare una guerra che mieterebbe altre centinaia di migliaia di vittime, senza risolvere assolutamente nulla? 

lunedì 16 agosto 2021

Frammenti estivi di Francigena toscana

Tramonto a San Gimignano
San Gimignano, la città delle torri, brulica di turisti, è una delle mete più gettonate di un turismo internazionale che sembra in fase di leggera ripresa, dopo le batoste della pandemia. Non si vede l'ora di partire, di mettersi in cammino. La prima, bellissima tappa, introduce nella Val d'Elsa e consente di attraversare la bellezza mozzafiato delle dolci colline che annunciano la vicinanza della nobile Siena.

Si cammina molto poco sull'asfalto, a differenza di ciò che avevo sperimentato sette anni fa, la maggior parte dei chilometri si macinano su strade sterrate, accompagnati dai saluti di qualche abitante dei piccoli paesi sperduti, di frequenti colleghi viandanti verso Roma, di numerosi ciclisti che arrancano sui saliscendi che mettono a dura prova le loro gambe. La prima meta, venticinque chilometri e sei-sette ore dopo, è la bellissima Abbadia a Isola, una sorta di rifugio costruito nel medioevo su un isolotto in

Campi riarsi presso Abbadia
mezzo a un'ormai bonificata palude. Capitelli romanici e pitture parietali trecentesche si alternano al vociare allegro delle compagnie di studenti che affrontano il percorso, orgogliosi di mostrare le loro timbrate credenziali. L'accoglienza è sobria, come si conviene all'ambiente, la cena "pellegrina" è sontuosa, servita dall'ottimo custode tra racconti di vita, di strade diverse, perfino di filosofia agostiniana e di Ermete Trismegisto e delle straordinarie sibille della Cattedrale di Siena. Si parla in italiano, inglese, sloveno, francese e spagnolo, ma tutti comprendono tutto, nel linguaggio universale di chi, per breve tempo, ha come proprio armadio lo zaino sulle spalle.

Ci si sveglia presto per affrontare i viottoli che conducono a Siena. Prima si attraversa la rocca di


La rocca di Monteriggioni
Monteriggioni, imponente e bella fuori quanto un po' deludente dentro. Poi riprendono il loro protagonismo i colli, tra boschi di querce particolarmente preziosi in un'estate rovente, maneggi con una moltitudine di cavalli - siamo vicini alla città del Palio! - castelli sospesi tra i campi dorati, semplici case trasformate in accoglienti punti di ristoro. Rigorosamente panzanella e ribollita, naturalmente di casa, perché i piatti dei poveri di un tempo, oggi in ristorante te li rifilano a prezzi astronomici.

Come astronomici sono i costi dei biglietti per visitare Siena, indubbiamente uno dei più belli e straordinari capoluoghi d'Italia. Si capisce tutto, la necessità di custodire e di preservare, di spiegare e di controllare, tuttavia 18 euro per vedere esclusivamente la chiesa sono veramente troppi, soprattutto se a desiderare di vedere le meraviglie dell'arte sono famiglie numerose. Se l'espressione artistica appartiene a ogni essere umano, come l'acqua e l'aria che si respira,

Siena ed Ermete
è giusto privare chi non se lo può permettere di un qualcosa che comunque gli appartiene? Non sarebbe forse meglio immaginare una proporzionalità, in rapporto a quanto ciascuno guadagna, qualcosa tipo l'ISEE che consenta di far pagare di più chi ha di più e di meno chi ha di meno? E questo discorso non potrebbe valere anche per un certo tipo di ristorazione? Perché il cibo "non democratico" - l'espressione è di un esercente nel corso di u  interessante recente dibattito a Topolove - dovrebbe essere riservato ai "ricchi" e non invece agli "intenditori", chiunque essi siano a condizione che dimostrino di "conoscere"? 

Il discorso va per le lunghe, ma sarà sicuramente da riprendere: è lecita l'esistenza di spazi, pur privati, aperti solo a un pubblico che se lo può economicamente permettere? non si rischia di incrementare l'abisso tra chi può e chi non può, già drammaticamente evidente nelle disuguaglianze spaventose presenti sul Pianeta?

Ma si torni al cammino, questo sì, possibile a molti di più, anche se non certo a tutti - i veri viandanti oggi sono coloro che affrontano la rotta verso la Vita, perdendola spesso nel Mediterraneo o nei boschi dei Balcani oppure sotto i colpi e le incredibili torture di polizie appartenenti alla "civile" Unione Europea.

Dopo Siena ci attendono due valli, formate da due piccoli fiumi e caratterizzate da un'estrema bellezza. Prima c'è la Val d'Arbia, coi suoi paesi in fondovalle e il lungo crestone che consente frequenti istanti di profonda contemplazione. E poi c'è la Val d'Orcia, con i suoi sterrati in mezzo agli ordinati filari di viti dai quali vengono ricavati vini di pregio, con i casolari sparsi nei quali prevale l'inconfondibile accento toscano, con i cipressi sperduti tra le dune riarse che fanno sognare, l'ombra di qualche fronda sopravvissuta all'intensa e sublime aridità dominante. Ecco Torrenieri, ecco la bella San Quirico con il suo spartano rifugio della Collegiata e con il bar libreria che offre cultura e vino dai molti colori.

Verso San Quirico

Il cammino, quattro giorni sotto un Sole che si fa sempre più cocente, termina per ora con uno sguardo alla rocca di Radicofani, ancora lontana, al Monte Amiata ovunque dominante e con una lunga sosta a Bagno Vignoni, tanto apprezzato addirittura da Santa Caterina, ma anche - più recentemente - dal grande regista Andrej Tarkovskij che ne ha fatto il quadro nel quale nel 1983 ha incorniciato Nostalghia, uno dei film più belli della seconda metà del XX secolo.

Insomma, Roma è ancora lontana, Canterbury, dietro le spalle, lo è ben di più. Eppure anche questo breve saggio estivo di Via Francigena, con i suoi classici 4 km/h, la fatica e il dolore dei piedi, gli sguardi rapiti dalla Bellezza e il sudore suscitato da un caldo implacabile, riesce nel proprio intento. Si tratta di recuperare, almeno per qualche istante, la verità di una Vita che non è sempre di corsa, ma che sa vedere e riconoscere, la Natura, gli altri esseri viventi e umani, anche sé stessi, con i propri pregi e i propri limiti. E si tratta anche di saper dire grazie, perché si hanno delle gambe che funzionano e una salute che consente gli sforzi, perché si ha qualche soldo in tasca che consente di non dipendere da nessuno, perché si può andare nel fascino della solitudine o nella bellezza della compagnia delle persone più care. E si tratta di comprendere che la giustizia sta nel camminare anche per chi non può camminare, di mettere a disposizione la propria salute di chi non l'ha, di partecipare affetto e amore a chi ne è stato privato, di lottare perché in questo mondo ogni essere umano possa un giorno viaggiare, a piedi o con qualsiasi altro mezzo, non per triste necessità, ma per scelta. Incontrando persone, intrecciando culture, condividendo idee, costruendo insieme un mondo più equo, umano e solidale... 

Buon cammino allora, con le gambe e/o con il cuore!

La rocca di Radicofani, da Vignoni Alto


domenica 15 agosto 2021

Il rogo del Narodni dom a Trieste. Quando Storia e Memoria si incontrano nell'Arte...

E' stato recentemente pubblicato dall'ottima editrice goriziana qudu di Patrizia Dughero e Simone Cuva, un libro che non dovrebbe mancare nella biblioteca di chi ama la Storia o più in generale la sempre complessa e mai neutrale della ricerca della Verità.

Si tratta del volume La fiamma nera. Il rogo del Narodni dom a Trieste, a disposizione nelle librerie, un anno dopo le celebrazioni centenarie dell'evento, culminate il 13 luglio 2020 con la storica visita dei due presidenti della Repubblica italiana e della Repubblica di Slovenija, nonché con la per ora formale riconsegna dell'edificio alla comunità slovena in quanto tale.

L'originalità dell'opera sta nel racconto dell'avvenimento che segna il primo clamoroso episodio della violenza fascista, attraverso la particolare arte del fumetto.

La documentazione storiografica, puntualmente richiamata nei diversi passaggi, è accurata e rigorosa e consente anche al lettore meno abituato alla divulgazione scientifica di ricostruire la linea di svolgimento dei tragici fatti. Le reali responsabilità sono accertate, la narrazione non indulge mai a prese di posizione condizionate dalle emozioni, perfino gli elementi di dubbio sono opportunamente rilevati, lasciando aperti spazi di interpretazione diversi da quelli proposti autorevolmente dagli autori. 

La vicenda universale consente la partecipazione al clima di crescente intimidazione che caratterizza non soltanto la Trieste dell'immediato primo dopoguerra, ma anche il periodo precedente, a partire dai fermenti irredentisti e nazionalisti che precedono l'annuncio dell'attentato all'arciduca Ferdinando. Le celebrazioni del passaggio delle salme per le vie di Trieste hanno un accento nel contempo mesto e cupo, ben comprensibile peraltro con "il senno del poi". Neanche un mese dopo il mondo veniva acceso dal fuoco della guerra, o meglio di quell'"inutile strage" o "orrenda carneficina" che avrebbe travolto sicurezze secolari e fragili equilibri a malapena mantenuti. 

Il popolo sloveno, in particolare quello della Primorska (Litorale), sarà forse tra le maggiori vittime collettive di tali vicende epocali. Dopo aver combattuto, a volte addirittura versando sangue fraterno sui fronti opposti, si trova tradito dalle potenze vincitrici della guerra e, con il trattato di Rapallo, consegnato a un'indegna deprivazione della propria identità e cultura, prima da parte del Regno d'Italia, poi dalla disumana repressione fascista. Il libro racconta con grande efficacia i diversi passaggi, dal segreto Patto di Londra che "convincerà" l'Italia a entrare in guerra alle conferenze di pace di Parigi, fino appunto alla definitiva consegna del territorio sloveno alle mire espansionistiche italiane.

Al centro del tutto, naturalmente, sta il Narodni dom, simbolo dell'importante presenza slovena a Trieste e nel territorio circostante. In un crescendo di apprensione, si è accompagnati nella vivace atmosfera del tempo, fino all'accorata contemplazione del rogo e di tutte le sue terribili conseguenze. L'episodio, di estrema potenza per ciò che concerne la sua valenza simbolica e per le anticipazioni che offre del volto orribile del regime che di lì a poco si sarebbe impadronito dell'Italia, è una tappa importante del percorso che da una parte condurrà alla sempre più evidente umiliazione degli sloveni, dall'altra provocherà l'avvio di una vera e propria loro "resistenza" contro l'invasore, durata fino all'assimilazione nella più vasta e vincente lotta di Liberazione jugoslava contro il nazi-fascismo, durante la seconda guerra mondiale.

Le questioni internazionali sono opportunamente alternate alle vicende dei due giovani triestini, uno sloveno e uno italiano, che trascorrono un'infanzia pre-bellica in fraterna amicizia, per poi dividersi nel periodo successivo giungendo vicino alla reciproca sopraffazione. Non si rappacificheranno più, se non idealmente dopo la morte, tanto tempo dopo, in un clima di rinnovata collaborazione e solidarietà tra le genti che vivono su una frontiera che ormai non esiste, o almeno non dovrebbe esistere più. Difficile è non richiamare alla memoria la vicenda narrata da Fred Uhlman, L'amico ritrovato...

Il fumetto introduce una dimensione artistica che accompagna e valorizza quella più propriamente storiografica. Ciò accade non soltanto per il particolare genere di sceneggiatura, oggi la fiction e il romanzo storico tradotti nel linguaggio del fumetto vanno abbastanza di moda. Ciò avviene perché i disegni sono veramente affascinanti, sempre all'altezza dei testi e riescono a creare un pathos che avvince. Si impara, partecipando, entrando volta per volta nella testa e nel cuore dei diversi protagonisti, soffrendo, amando, indignandosi, lottando insieme a loro.

Insomma, un libro da leggere, ma anche da tenere in casa, pronto per essere consultato, ma anche, nonostante lo spinoso argomento, gustato, come accade, quando Arte e Storia camminano insieme. Per rendersene conto, basta leggere le prime due pagine, dove si immagina un dialogo impossibile tra la poesia traboccante di desiderio di pace e di struggente malinconia del grande poeta sloveno Srečko Kosovel e quella di Gabriele D'Annunzio, intrisa di nauseanti retoriche nazionalistiche e guerrafondaie. A ognuno, dopo la lettura, compete la scelta da che parte stare!

La fiamma nera. Il rogo del Narodni dom a Trieste. Disegni di Zoran Smilianić. Soggetto e testi di Ivan e Zoran Smilianić. Traduzione di Darja Betocchi, con prefazione di Davide Toffolo.  

sabato 14 agosto 2021

Per i poveri non esiste green pass... Saluti tristi, da un confine interno all'Unione europea.

Saluti da Rakitovec
Se non ci fosse l'avanzata apparentemente inarrestabile dei talebani in Afghanistan, si assisterebbe al tradizionale sonno mediatico del Ferragosto, solo leggermente turbato dai numeri di nuovo crescenti dei contagi da Covid-19 e dai disagi - presunti o reali - del green pass.

Mentre armeggiano con google maps per capire da che parte evitare le lunghe file ai confini tra la Slovenia e la Croazia, i reduci dalle vacanze al mare si attrezzano con cibo e bevande, per sopportare il sole particolarmente bollente in quest'anno. Cercano intanto di preparare il QR per ridurre al minimo il contatto con le guardie di frontiera...

Ma si può anche cambiare itinerario e intraprendere nuove conoscenze paesaggistiche, non soltanto lasciando perdere le linee rosse e nere che indicano la paralisi delle autostrade, ma anche cercando i confini secondari, attratti da vaghe tracce bianche che si insinuano, curvando e ricurvando, sulle verdi montagne che sovrastano la valle del Quieto (o della Mirna, che di si voglia).

Ed è in uno di questi posti di blocco marginali che si viene ricondotti brutalmente alla realtà. La situazione destabilizzata del Medio Oriente ha rimesso in movimento la rotta balcanica, anche se in realtà essa non si era mai interrotta. I pochi che riescono a superare le barriere tra Bosnia e Croazia, poi tra Croazia e Slovenia, infine a raggiungere con tanta fatica l'Italia, sono spesso respinti ("riammessi in Slovenia", si dice gentilmente) e devono ricominciare da capo, rischiando la pelle e perdendo tutto nelle tasche degli occasionali accompagnatori che se ne approfittano.

Non c'è neppure una macchina di turisti, solo un poliziotto zelante, seminascosto dietro a un cancello pesante e a ben due sbarre che impediscono a chiunque il passaggio. 

Ma ciò che sconvolge è la vista della rete infinita e del filo spinato che la sovrasta. Avevo visto qualcosa di simile in Libano, a protezione dei siti sensibili minacciati da atti terroristici di diverso colore. C'erano reti del genere anche in Iraq, a circondare e difendere gli interessi economici dei padroni del vapore (economico). 

Le reti impenetrabili alle soglie dell'Istria
Mai e poi mai si sarebbe potuto pensare a simili barriere, a una ventina di chilometri da Trieste, tra due paesi - Slovenia e Croazia - appartenenti entrambi all'Unione Europea, il regno della democrazia, della civiltà e dell'umanesimo! Quelle reti sono lì, nel luogo geograficamente più vicino all'Italia, non per bloccare traffici di armi o di droga, per sventare attentati terroristici o per impedire di appropriarsi di pozzi petroliferi o centrali finanziarie. Quel filo spinato, che richiama alla memoria gli "Uomini contro" di Francesco Rosi, è arrotolato e insuperabile per bloccare i poveri che fuggono dalle guerre e dalla fame provocate dalla stessa insipienza di chi li respinge. E' questa l'Unione Europea sognata a Ventotene? o sta diventando sempre più un grande recinto impenetrabile, ma anche insuperabile, nel quale si è auto-rinchiusa l'umanità ricca per impedirsi di ascoltare il terribile e tragico grido dei poveri?

Gino Strada, la passione per la salvezza di ogni Vita

Gino Strada, foto da Articolo 21
Un pensiero a Gino Strada e alla sua Emergency. E' di sicuro una di quelle figure in grado di elevarsi al di sopra del livello del dibattito politico attuale, richiamando la centralità di quel mistero spesso dimenticato che si chiama Vita.

Ha ragione Moni Ovadia nel proporre di non cadere in retoriche melense. Tuttavia davvero non c'è zona di sofferenza e di guerra che non sia "occupata" dalla presenza di pace e solidarietà portate avanti dall'ong da lui fondata e fatta amorevolmente crescere.

E' interessante che la sua morte coincida con l'aggravarsi della situazione in Afghanistan, il Paese che forse più di ogni altro ricorda l'intervento sistematico dei medici di Emergency e della specifica attenzione dello stesso Gino Strada. Speriamo che la sua opera non venga cancellata dalla recrudescenza della guerra e dal ritorno dei Talebani nei luoghi dai quali erano stati scacciati all'inizio della "guerra infinita" voluta da Bush e tanto contestata da milioni di persone, per le quali Emergency è sempre stato un punto di riferimento importante e ineludibile.

La sua presenza è stata feconda e significativa anche sul piano politico e il coro degli apprezzamenti postumi dimostra la stima che la sua opera ha suscitato in tutti gli ambienti. la speranza è che le sue "battaglie" - prima fra tutte quella sulla sanità pubblica - siano portate avanti nelle sedi istituzionali e che il "commosso ricordo" si trasformi in fattiva e concreta serie di scelte politiche e culturali conseguenti.

Scompare dalla scena pubblica un uomo indubbiamente straordinario, anche per la schiettezza e la verità non solo del suo agire ma anche del suo parlare. Non scompare la sua testimonianza e in qualche modo si rafforza la sua missione. Non soltanto la grande comunità di Emergency, ma tutti coloro che hanno  cuore le sorti dell'umanità, si è chiamati a portare avanti un progetto che pone la pace, il prendersi cura e .il rivendicare la giustizia come elementi prioritari in qualsiasi tipo ri relazione, sia essa individuale o sociale.

le parole della figlia Cecilia sono le più avvincenti, in questo difficile periodo: importante, qualunque cosa accada, è trovarsi dove lui avrebbe voluto, nei luoghi della marginalità e della dimenticanza, con lo scopo fondamentale di salvare la Vita, a qualsiasi costo e in ogni possibile modo 

lunedì 9 agosto 2021

Il minaccioso ritorno dei Talebani

Le notizie provenienti dall'Afghanistan sono sempre più preoccupanti. Lo sono già da venti anni, da quando cioè il martoriato Paese è stato il primo obiettivo della "guerra infinita" scatenata dall'allora presidente Bush, all'indomani dello sciagurato attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001.

Era uno degli stati più poveri del mondo, con un  tasso di analfabetismo impressionante. La presunta collaborazione con l'ancora misterioso Bin Laden aveva provocato un intervento militare internazionale, giustificato con l'assurda pretesa di "imporre la democrazia" con le armi. 

Migliaia di soldati, provenienti da tutti i Continenti, avevano messo a ferro e fuoco il deserto e le famigerate montagne ai confini con il Pakistan. Il primo capitolo della vicenda si era concluso con l'arresto della guida religiosa più vicina a Bin Laden e la proclamata vittoria sui Talebani. Con essa, si diceva prima della nuova discesa della cortina del silenzio, la gente poteva finalmente di nuovo respirare, le donne erano per sempre liberate dall'incubo del burka, le centrali del terrorismo di matrice islamica erano state smantellate.

Si sa tutti come è andata a finire. Centinaia di migliaia di morti in tutto il Medio Oriente totalmente destabilizzato a tutto vantaggio delle grandi potenze che ne hanno assunto il controllo, devastazioni di ogni sorta, milioni di profughi in cammino verso l'Europa e bloccati nei lager della Bosnia, della Grecia, della Turchia e della Libia.

E adesso? Adesso che si sono garantiti gli accessi alle fonti energetiche e la prosecuzione del dominio economico e finanziario, gli eserciti "occidentali", uno dopo l'altro, lasciano l'Afghanistan. Dicevano di essere lì per difendere la popolazione, compresi gli "italiani brava gente" a Kabul. Era un'altra delle mille menzogne di questo tragico primo ventennio del XXI secolo. Ora che ce ne sarebbe bisogno, tutti se ne vanno e i Talebani, estromessi dalla finestra, rientrano trionfanti dalla porta principale, riconquistando una città dopo l'altra, liberando i loro "fratelli" imprigionati, riportando l'antico ordine là dove per un breve periodo sembrava esserne stato imposto uno diverso. 

E' dagli anni '80, da oltre quarant'anni che la guerra è il mondo "normale" nel quale nascono, crescono e muoiono gli afghani, una guerra continua combattuta con e tra diversi eserciti e diversi interessi, dai tempi dell'invasione sovietica fino all'odierno ritorno dei Talebani.

Mentre altri baratri non meno preoccupanti si stanno aprendo intorno al Pianeta - dalla minaccia della pandemia globale al ben più serio e inarrestabile cambiamento climatico - quello della guerra ricomincia ad ampliarsi. L'inizio della grande tragedia è stato in Afghanistan. E l'Afghanistan rischia di essere il crocevia da cui si potrebbe dipartire un nuovo, più minaccioso e oscuro capitolo. 

Rieccomi...


Rieccomi! Dopo una breve parentesi "in cammino" sulla via Francigena, si riprende il "cammino" sulle ordinarie strade della vita...

lunedì 2 agosto 2021

Breve interruzione

 


Breve sosta nel cammino di questo blog. A presto... Nel frattempo chi lo desidera e non ha nulla di più importante da fare, potrà "vedermi" sul canale You tube.

domenica 1 agosto 2021

Gli anni dei Cammini

Un tratto della Francigena, in Toscana
Sarà il desiderio di vacanza semplice e salutare, sarà il desiderio di aria aperta dopo le ristrettezze dovute alla contingenza pandemica, fatto sta che mai come quest'anno i "cammini" sono molto frequentati.

Al classico pellegrinaggio a Santiago de Compostela e a quello sempre più frequentato sulla rotta Canterbury-Roma, si sono aggiunte decine di altre offerte, dalla via di Francesco a quella di Benedetto, dal percorso degli dei alle Alte vie dei grandi santuari alpini, senza dimenticare i "nostri" percorsi nel FVG, primo fra tutti il Cammino Celeste e poi la Romea Strata, il giro delle Pievi carniche, la Via di Allemagna.

Sono molte le motivazioni che spingono ad affrontare il viaggio a piedi, particolarmente supportate da un'organizzazione sempre più capillare che consente anche a chi non è particolarmente abituato all'avventura di trovare ogni pochi chilometri, indicazioni precise, luoghi dove alloggiare o mangiare senza eccessiva spesa.

C'è chi parte per fede, avendo come finalità il raggiungimento di un luogo considerato "sacro", dal quale ritornare e affrontare la vita con maggior convinzione ed entusiasmo.

C'è chi cerca sé stesso, ritrovando nella velocità a 4 km/h una concezione ormai smarrita del tempo e dello spazio, riempiendoli di significato attraverso la contemplazione dei paesaggi naturali, delle espressioni artistiche e culturali, degli incontri lungo la via.

C'è chi scopre un turismo alternativo, lento e non troppo faticoso, lontano dalle effimere luci e dai frastuoni delle mete più ambite dal jet set.

Naturalmente il tutto è riservato a persone fortunate, che hanno buone gambe per camminare ogni giorno, tra le 5 e le 10 ore a seconda dei ritmi più o meno intensi che ciascuno sceglie. Ed è possibile solo per chi ha sufficienti finanze per potersi permettere dieci o più giorni lontani da casa.

Marciando si è attenti alle esigenze del proprio corpo e alle difficoltà di chi si incontra, si respirano istanti indimenticabili di gioia nella Natura spesso incontaminata, si soffre per il male ai piedi o alla schiena. Si tende verso una meta, ma ciò che riempie di significato l'andare è proprio il cammino in quanto tale, fuori dalla dinamica dell'ordinarietà, dentro una realtà "nuova", ma non per questo meno reale.

Sui grandi cammini - Santiago e Francigena - si incontra quotidianamente un'Europa unita, si parlano tutte le lingue e ci si scambiano esperienze di amicizia e intesa fraterna. Non sono "vacanze", nel senso etimologico che richiama a qualcosa di "vuoto", sono momenti di pienezza e di senso, in grado di trasformare, anche nel profondo, la vita di chi li affronta con animo aperto e cuore sincero.

E sono anche occasioni per ricordare chi cammina per sopravvivere, non soltanto in termini morali o metaforici, ma anche nella tragica concretezza delle migrazioni planetarie. Milioni di persone camminano, rischiando di morire nei boschi o nella corrente dei fiumi dei Balcani, così come tanti altri affrontano il rischio della morte in mare, per raggiungere la terra promessa dell'Europa opulenta. da lì, invece di essere accolti, vengono respinti o comunque guardati con diffidenza, mentre sono le avanguardie di un nuovo mondo, dove le diversità si intrecceranno nella pace e si formerà una nuova sintesi esistenziale, filosofica e culturale. 

Sarà possibile se accetteremo la regola del Cammino, che è quella del rispetto della Natura, del fascino per tutto ciò che è umano e vivo, della disponibilità a lasciarsi interrogare, in ogni istante, sulla via da seguire e sui compagni di viaggio da scegliere. In senso metaforico e reale.